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 2014  marzo 26 Mercoledì calendario

UNA LEGENDA A PARTE

C’è stato un tempo in cui uno come Adriano Panatta vinceva gli Internazionali d’Italia dopo aver salvato undici match point al primo turno, e poi qualche settimana dopo vinceva anche il Roland Garros, battendo Björn Borg nei quarti e salvando un altro match point in semifinale. Panatta nel 1976 è arrivato al numero 4 della classifica mondiale, e ogni tanto mentre parlava con i giornalisti si fumava anche qualche sigaretta. Sedici anni prima Nicola Pietrangeli vinceva il Roland Garros per la seconda volta di seguito, raggiungendo la finale anche nei due anni successivi. Era diventato anche numero 3 del mondo, ma quelli erano anni e ranking diversi, quando ancora il tennis si divideva tra la nobiltà poco retribuita dei campioni “dilettanti” e i ricchi compensi dei tour di esibizioni, prima di arrendersi alla modernità e decretare nel 1968 tutte le competizioni open, aprendo anche i major a cospicui premi in denaro. Sempre nel 1976 i due eroi italiani della racchetta vincono la Coppa Davis a Santiago del Cile, dove Panatta e Paolo Bertolucci giocano indossando una maglietta rossa per protestare contro la dittatura di Pinochet, con Pietrangeli in veste di capitano non giocatore. Nel 1978 il compagno di Davis Corrado Barazzutti arriva alla settima posizione mondiale, l’anno in cui raggiunge la semifinale di Parigi, mentre l’estate prima era arrivato alle semi di Forest Hills perdendo da Jimmy Connors. Quell’incontro lo si ricorda soprattutto per l’invasione di campo di Jimbo, che è entrato nella metà dell’avversario per cancellare il segno di una pallina dubbia che Barazzutti chiedeva di esaminare. Connors ha vinto in tre set, e il ricordo ancora un po’ brucia a Barazzutti: «Resto convinto che senza l’incredibile sceneggiata avrei vinto quel set», ha detto in un’intervista di qualche anno fa, «e mi sarei trascinato lo statunitense al quinto dove io arrivavo sempre piuttosto bene». - See more at: http://www.ultimouomo.com/una-leggenda-a-parte/#sthash.8hLxAeFa.dpuf
Chi come me ha cominciato a seguire il tennis alla fine degli anni ’80 si è trovato di fronte un gruppo di giocatori italiani cresciuti all’ombra della legacy inarrivabile di Pietrangeli, Panatta e di tutto il gruppo della Davis di Santiago del Cile. Supportati dall’amore di Mamma Rai e di Giampiero Galeazzi, un Olimpo di eroi minori si è guadagnato un posto nella memoria collettiva pur avendo vinto soltanto una manciata di tornei, non avendo mai raggiunto i top 15 della classifica mondiale o una semifinale di un major. Omar Camporese, Paolo Cané, Diego Nargiso, Renzo Furlan, ma anche Cristiano Caratti, Andrea Gaudenzi, Laura Golarsa, Rita Grande: una collezione di episodi, ascese e cadute nell’arco di qualche partita, idiosincrasie, suicidi agonistici, medaglie al valore. Caratti batte Lendl in una finale, Camporese perde 14-12 al quinto contro Becker, il turborovescio di Cané, Golarsa ai quarti di Wimbledon; maratone perse o vinte in Coppa Davis, vittorie mancate di un soffio, un’epica da Davide contro Golia che per circa vent’anni ha accompagnato due o tre generazioni di tennisti sempre attesi, coccolati, sognati, oneste carriere da giocatori medi seguite con l’apprensione e la cecità che si può avere soltanto per dei figli. Per lungo tempo si è persa la convinzione che i risultati potessero essere compiuti, che vincere fosse qualcosa di più di un risultato morale, che si potesse iniziare una cosa bene e finirla anche meglio. Era sufficiente l’averci provato, soffrire e dare tutto.

Francesca Schiavone bacia la terra rossa di Parigi.



Poi nel 2010 Francesca Schiavone ha vinto il Roland Garros, ricollegandosi a una storia che si era interrotta con la vittoria di Panatta del ’76, cambiando la percezione dei risultati che era lecito sognare per il tennis nazionale. Un titolo slam 34 anni dopo, il primo vinto da un’atleta donna italiana, quando nessuna era riuscita a raggiungere neanche una semifinale addirittura dal 1954. La RAI che di corsa compra i turni finali e di nuovo offre il tennis in chiaro, decenni dopo l’ultima partita trasmessa, poi l’incontro della vincintrice con Berlusconi al ritorno a casa, la puntata di Porta a Porta, i 400.000 euro di premio dalla Federazione Italiana Tennis che tanto hanno fatto discutere. Da lì in avanti per Francesca Schiavone un andamento da probabile burnout, molti primi o secondi turni nei tornei successivi, fino alla corsa improbabile verso un’altra finale a Parigi l’anno dopo, persa in due set contro Na Li. Dal 2010 Schiavone ha vinto solo altri due tornei di fascia minore, e dalla quarta posizione raggiunta a inizio 2011 oggi si trova alla n. 46, che è pur sempre la numero 4 italiana. D’altronde se si diventa la seconda giocatrice più anziana a vincere il primo slam in carriera (29 anni e 345 giorni), poi è probabile che il prezzo dell’impresa a un certo punto lo si paghi.



L’impresa di Francesca Schiavone ha eclissato un altro risultato storico del tennis italiano, dimenticato in fretta perché verificatosi solo meno di un anno prima: con la semifinale del torneo di Cincinnati nell’agosto 2009 Flavia Pennetta è diventata la prima tennista italiana a raggiungere la top ten, realizzando anche il record collaterale di una striscia di quindici vittorie consecutive. La sua è una carriera fatta di pause forzate, momenti di grande forma alternati a crolli fisici e psicologici, che Flavia ha voluto condensare nella sua autobiografia («croccante quanto basta», come l’ha definita il Corriere della Sera) uscita per Mondadori nel 2012, Dritto al cuore. Undici chili persi per un’intossicazione alimentare, altri dieci persi per il cuore spezzatole dal compagno Carlos Moya (ex numero 1), che lei scopre con un’amante sulla copertina di una rivista spagnola di gossip, ma soprattutto due operazioni al polso destro, la prima nel 2007 e la seconda nel 2012. Da numero dieci a fuori dalle prime 100 in tre anni, in più obliterata non solo dal successo di Francesca Schiavone (solo cinque righe sulla sua vittoria al Roland Garros nell’autobiografia di Pennetta), ma anche dall’ascesa inaspettata di Sara Errani, che nel 2012 vince quattro tornei, arriva in finale al Roland Garros e in semifinale all’US Open e poi partecipa per due anni di seguito al Masters di fine anno sia in singolare che in doppio. Con un gioco fatto di regolarità, resistenza, poche variazioni e un servizio inoffensivo, Errani ha espresso una competitività impressionante, qualcosa che richiede una tenacia mentale assoluta che tra l’anno scorso e l’inizio di questa stagione sta mostrando grande affaticamento, come se per un anno e mezzo avesse viaggiato a giri troppo alti e adesso stia diventando difficile ritrovare la capacità di giocare come se non ci fosse un domani.

Flavia Pennetta batte in semifinale Na Li a Indian Wells.



E qui Flavia Pennetta ha trovato il modo di rientrare nel discorso di un tennis femminile italiano diventato fin troppo di qualità, con primati e vittorie che dopo anni di assenza si riprongono ormai regolarmente. Comincia Wimbledon 2013 pensando di lasciare a fine anno se non smuove la classifica sprofondata, arriva agli ottavi e poi la semifinale agli US Open, poi i quarti in Australia a gennaio e a marzo la vittoria a Indian Wells a 32 anni, torneo mai vinto da un’italiana. Il cosiddetto quinto slam, per montepremi, tabellone dei partecipanti e capienza degli impianti. Da numero 166 a numero 12 in meno di nove mesi, giocando un tennis intelligente e anche di potenza e iniziativa, tenuto fresco dalle tantissime partite giocate in doppio, che le hanno anche portato un Australian Open nel 2011 con Gisela Dulko. Perfetta espressione del trionfo dei trentenni del tennis contemporaneo, pieno di campioni quasi senior che non mollano le prime posizioni, Flavia Pennetta ormai da diversi mesi gioca con continuità come una top ten, a suo agio nelle partite complesse, in grado di modulare i propri colpi con una lucidità che le fa usare tutto il campo, attaccare oppure restare nello scambio in attesa di un’apertura, capace di giocare in base all’avversaria, non forzando astrattamente i propri schemi. Quanto durerà questa nuova fase della sua carriera lo diranno il polso e l’età, e se soffrirà come forse è accaduto a Schiavone ed Errani dell’effetto plateau indotto dal grande risultato.
Quando Flavia Pennetta a Indian Wells è andata a festeggiare con il suo angolo la vittoria 6-2 6-1 su un’azzoppata Agnieszka Radwańska, la prima persona che si è trovata davanti, munita di bottiglietta d’acqua a mo’ di gavettone e occhiale a specchio da regata, è stata Fabio Fognini, il numero 1 maschile del tennis italiano. Fognini è da sempre amato e odiato dal pubblico e dalla stampa, per il suo modo di camminare per il campo come se il mondo girasse attorno a lui, il passo lento, il sorrisetto ironico, il modo quasi casuale con cui spesso colpisce, a malapena piegando le gambe. Poi però riesce a esprimere un talento notevole per velocità e traiettorie, e il mix fa innervosire molti osservatori: il soprannome “Fogna”, le valanghe di errori quando non è in giornata, i siparietti. A gennaio in Australia mentre stava giocando con Djoković ha chiesto all’arbitro se poteva scegliere un altro avversario, poi al cambio campo rideva mentre rivolto al suo allenatore mimava di giocare alla Playstation per dire che Djoković era troppo forte, cosa che poi ha sancito tirando la racchetta verso di lui dopo che ha perso un punto acrobatico. Qualche mese prima ha perso un incontro con due doppi falli, un punto di penalità per ball abuse e un doppio fallo di piede mentre serviva per rimanere nel match, a Wimbledon dopo una chiamata out ai suoi danni si è buttato per terra e ha detto in italiano all’arbitro Pascal Maria, che è francese: «Come cazzo fai, madonna oh, madonna». Fognini evoca quell’idea clownesca e guascona dell’italianità che piace molto all’estero, e mentre di Flavia Pennetta la stampa straniera tende a parlare in termini strettamente sportivi, di Fognini non manca mai una menzione dei suoi good looks, i modi da commediante, quel personaggio che sembra necessario a raccontare anche il tennista. In Italia invece quando si scrive di Pennetta bisogna quasi sempre dire che oltre che brava è anche bella, e a Indian Wells la presenza di Fognini alle sue partite ha generato il gossip su una possibile romance che ha fatto da sfondo a qualsiasi articolo, producendo titoli sornioni come «Sport e amore, quando il doppio misto funziona», oppure «Fabio, il tennis e i cavalli».

Fabio Fognini showreel.



L’anno scorso Fognini ha vinto uno dopo l’altro i suoi primi due titoli in carriera, arrivando in finale anche al torneo giocato subito dopo; all’inizio di quest’anno dopo gli ottavi all’Australian Open ha vinto il torneo di Viña del Mar, raggiungendo la posizione n. 14 e diventando il quarto italiano di sempre in classifica nell’era open, piazzandosi proprio dietro Panatta (n. 4), Barazzutti (n. 7) e Bertolucci (n. 12). Erano quasi 31 anni che un tennista italiano non arrivava così in alto, e nonostante i comportamenti imprevedibili la resa in campo di Fognini sta diventando molto più costante, arrivata a 26 anni a conferma di una tendenza alla maturità agonistica più tardiva nei giocatori di oggi. Sotto di lui c’è Andreas Seppi, ben più mite e meno talentuoso, ma capace anche lui di vincere titoli negli ultimi anni e in possesso della rara predisposizione (per un italiano) a esprimere il suo miglior gioco sui campi veloci. Poi si scende molto in classifica per trovare altri giocatori, con un totale di soli quattro nei top 100 e una sessantina tra i primi mille. Lì in basso, al momento al numero 366 si trova Gianluigi Quinzi, che ha appena compiuto diciotto anni e che si è formato a Bradenton in Florida, da Nick Bollettieri. Da anni si aspetta Quinzi per avere un tennista che vinca e sia forte da subito, senza maturità tardive o ritorni da figliol prodigo: a luglio ha vinto Wimbledon junior, come in passato Borg, Edberg o Federer. O come anche Diego Nargiso, ultimo italiano a vincerlo prima di lui. Quale delle due strade prenderà Quinzi non lo possiamo ancora sapere, l’unica cosa certa è che non si potrà chiamarlo un prodotto del vivaio italiano.
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