Roberto Di Caro, L’Espresso 28/3/2014, 28 marzo 2014
IL VANGELO SECONDO DON GIOVANNI
Quando s’è saputo che prima di andarsene Claudio Abbado aveva chiamato vicino a sé don Giovanni Nicolini, parroco della Dozza e del carcere di Bologna, c’è stato chi, ignaro e malevolo, ha pensato: un altro mangiapreti, amico di Fidel e di Chávez, che all’ultimo chiama il prete. Niente di più falso. Abbado non è mai stato un mangiapreti, i due erano amici da un decennio, nessuno ha mai provato a convertire l’altro. E comunque un sacerdote più sui generis di don Giovanni è difficile trovarlo. Con una vita ricchissima, «tutta un dono» dice, 74 anni ben portati, magro, una propensione al sorriso. La vita di uno che, per scelte sue controcorrente o per casualità di incontri, ha finito sempre per trovarsi, mai da spettatore, ai crocevia della storia.
Chiedi se quello è il suo studio, entrando nel bugigattolo dove ti riceve, annesso alla chiesa costruita dai carcerati della Dozza e decorata di quadri dall’iconografia ortodossa, bizzarri in un luogo di culto cattolico. «Il mio spazio l’ho lasciato a una persona che in carcere lavora in una cooperativa di indumenti e borse diretta da un confratello, e aveva bisogno di un luogo protetto per stare alla macchina da cucire». Una persona? «Anna Maria Franzoni. La vado a prendere la mattina. Mangiamo insieme, unica signora tra noi omacci. Parliamo, ma non dei fatti che l’hanno coinvolta».
Con Abbado l’amicizia cominciò con una telefonata: «Dirigevo la Caritas diocesana. Mi chiamò lui. Per dirmi che voleva bene ai poveri», racconta. Insieme hanno combinato concerti per i poveri con l’Orchestra Mozart, in carcere e qui in chiesa, e un coro di volontari e detenuti. La musica è stato il loro punto di sintonia profonda: «Io sono un po’ musicista, per tutta la vita mi sono portato appresso un piano, ora sta in un lontano casale della parrocchia, ci vado ogni tanto ma suono in modo orribile». A leggere le note ha imparato a quattro anni, in tempo di guerra: «Mio padre era alle armi, eravamo sfollati da Mantova nella nostra casa di campagna a Castiglione delle Stiviere e ospitavamo una famiglia dal nome che suonava ebraico: la loro mamma mi insegnò a scrivere, il papà e i figli la musica». Scusi, come si chiamava questa famiglia? «Benedetti Michelangeli»: il venticinquenne Arturo già aveva vinto premi e s’era esibito davanti alla regina d’Inghilterra, Nanni divenne primo violino in grandi orchestre. È fatto così, don Giovanni, la sua vita te la snocciola solo a spizzichi e bocconi, se non chiedi lui passa oltre.
Ma era credente, Claudio Abbado? «Ah, questo è un punto delicato. Quando una persona si sente più piccola di qualcosa che lo avvolge e dà senso alla sua vita, è nell’orizzonte della fede. Per Claudio, quella modalità in cui s’incontra il principio fondativo di tutto è stata la musica. Ci dicevamo sorridendo che il suo rapporto con la musica somigliava al mio con la parola di Dio». Un modo di dire? Affatto. E il senso è piuttosto stupefacente in un prete. Ti racconta, don Giuseppe, la volta che lui e Abbado discussero di quanto due esecuzioni del maestro della Prima Sinfonia di Brahms registrate a distanza di tre anni fossero «completamente diverse. Questo era il suo rapporto con la musica: umilissimo, di continua ricerca, di chi sa che mai arriverà a toccare l’Assoluto. E così è per me: la parola di Dio la devi accogliere non presumendo di averla già capita, ma sempre riascoltandola come fosse la prima volta. Sempre novizi, mai possessori. Non puoi dire "ho capito", verbo aggressivo che significa prendere, ma "ne intendo qualche scintilla". Quando pensiamo di possedere l’assoluto, probabilmente ci siamo arresi a un idolo». Una concezione più ebraica che cristiana, fai osservare, più Lévinas che San Tommaso. E lui, mostrandoti i due volumi dei Salmi che ha curato in otto lingue, risponde: «Uno che legge molto la Bibbia diventa ebreo. Gesù era un ebreo, il suo riferimento era Abramo, non Aristotele».
Iconografia ortodossa, a studiare la Bibbia si diventa ebrei: ma nessuno salta sulla sedia, in Curia? «Oh, queste cose non interessano quasi a nessuno. E poi, non vede? Papa Francesco sta mettendo in crisi tutta la Teologia! Ributta il mistero di Dio dentro nella Storia, nella sua precarietà, nei suoi limiti! Ah, con lui mi sono molto consolato: la prima cosa che ha detto è che vuole una Chiesa povera e dei poveri!» L’appello a una Chiesa dei poveri lo consola perché è la sua storia. Famiglia di borghesia liberale, stirpe di notai da 200 anni dove lui è «il primo ad aver rinunciato alla primogenitura per un piatto di lenticchie», si laurea in Filosofia alla Cattolica di Milano: «Nello stesso pensionato viveva Romano Prodi, siamo grandi amici da allora, stiamo per pubblicare un libretto, una conversazione pubblica sulla pace tenuta insieme una sera sull’Appennino. Come titolo pensavamo "Rimetti la spada nel fodero", ma l’editore è inorridito». Da Milano a Roma, a studiare Teologia all’Università dei Gesuiti. È il 1963, e arriva nel cuore della rivoluzione del Concilio: «Vivevo alla Borghesiana, una borgata di baracche senz’acqua, comunità francese Prado di riforma della Chiesa guidata da Alfred Ancel, unico caso di vescovo-operaio. Mattina a lezione, poi di corsa in sala stampa a San Pietro dove un padre conciliare riferiva cosa avevano discusso quel giorno. Al pomeriggio partecipavo al Collegio belga al gruppo di studio sulla Chiesa dei poveri: lo guidava il cardinale di Bologna Giacomo Lercaro, incaricato da Paolo VI di mettere a punto il documento sulla riforma della liturgia, e come suo consigliere teologico aveva chiamato Giuseppe Dossetti. L’avevo già incontrato da bambino a casa nostra, ma fu lì che lo conobbi davvero». Dossetti, partigiano, costituente, vicesegretario Dc in conflitto con De Gasperi, aveva preso i voti nel ’58, e col suo Centro di documentazione studiava i Concili quando nessuno ci pensava: «Chi è stato per me Dossetti? Mio padre. Ha preso per mano me e altri nella sua Comunità, e quella che ho fondato a metà anni Settanta, Famiglie della Visitazione tuttora attivissima, ha la stessa regola. Severo e dolcissimo, per lui tutte le cose della vita erano importanti, nulla può essere sottovalutato o scartato se non ciò che attenta all’umano». Lì, nel crogiolo conciliare, conobbe don Lorenzo Milani della comunità fiorentina dell’Isolotto, padre Ernesto Balducci «esiliato per le sue idee in una parrocchia a Monte Mario», e un cronista che ogni mattina riassumeva i lavori del Concilio sul quotidiano cattolico bolognese "L’Avvenire d’Italia": il papa volle fosse distribuito ai vescovi che leggendolo, si malignava, capivano finalmente di che cosa avevano discusso. Si chiamava Raniero La Valle, e divenne la figura più rappresentativa della Sinistra cristiana, deputato indipendente con il Pci.
Lercaro pensava a Dossetti come suo successore alla Diocesi di Bologna. Invece, dopo un breve interregno, arrivò Giacomo Biffi. Un conservatore. Tempi duri per l’irrequieto don Giovanni? Macché. «Dal punto di vista del pensiero eravamo all’opposto. Ma Biffi è persona intelligente e ha fede. Ho con lui un rapporto molto profondo. E mi ha fatto "fare carriera": sa, sono un monsignore della Cattedrale, vicario episcopale per la carità», sorride. Una quindicina d’anni fa don Giovanni era ancora parroco di campagna in un lembo di terra senza neanche un paese, ma quando il direttore del "Resto del Carlino" chiede a Biffi un nome per tenere una rubrica sul quotidiano chi gli indica? Lui, don Giovanni. Da allora non manca una domenica.