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 2014  marzo 28 Venerdì calendario

LA MIA VITA CON LE STAR

[Colloquio Con Carlo Ancelotti] –

Nella roccaforte isolata da una robusta rete di recinzione dove il Real Madrid difende la sua leggenda, Carlo Ancelotti (54 anni) recita con naturalezza la parte del castellano mite e bonario. Non ha la superbia di Fabio Capello né il furore di José Mourinho, i tecnici di grido che lo hanno preceduto sulla panchina più ambita del calcio internazionale. Anche lui è un allenatore top: ha vinto due Champions League con il Milan (il club con cui ne aveva conquistate altre due come calciatore) e scudetti a Milano, Londra (Chelsea) e Parigi (Paris Saint Germain). Insieme a Capello e Giovanni Trapattoni è il tecnico italiano con maggior dimensione internazionale. Ma a vederlo aggirarsi con l’aria rilassata nella cittadella sportiva alla periferia di Madrid che evoca atmosfere da base spaziale, capisci che mentre prepara l’assalto alla decima Champions del Real («una forte motivazione, non un’ossessione», precisa il tecnico) non si è mai distaccato dalla bonomia della sua Emilia. «Sì, ci ho pensato a lungo prima di emigrare», ammette sfoggiando il suo largo sorriso. «E del mio Paese mi mancano ogni giorno i sapori inconfondibili che sono il nostro marchio di fabbrica. La cucina, l’aria, perfino la nebbia. Ma arriva il momento in cui senti il bisogno di nuovi stimoli. Dal punto di vista umano, non solo professionale. La possibilità di vivere in metropoli come Londra, Parigi e Madrid è un arricchimento impagabile. Un viaggio fra culture, tradizioni, costumi che avevo avuto modo appena di sfiorare. Un privilegio che ha ovviamente anche dei prezzi. In ogni città straniera, soprattutto a Londra, ho avuto problemi con la lingua. Anche qui a Madrid continuo a prendere lezioni private due volte la settimana. Quando alleni non puoi ricorrere all’interprete».
Ancelotti, le è toccato pure confrontarsi con padroni molto esigenti, imprenditori di prima grandezza e dotati di grandi mezzi finanziari.
«La galleria è impressionante. Non solo all’estero, anche prima in Italia. Da Calisto Tanzi a Umberto Agnelli, da Silvio Berlusconi a Roman Abramovich, dallo sceicco Al Thani a Florentino Perez. Il filo che li lega tutti è la passione, anche se nessuno di loro dimentica che il calcio è un’industria e quindi un business. Per alcuni, come Tanzi, Agnelli, Berlusconi, Perez, ha sempre prevalso l’aspetto affettivo. Fin da bambini erano tifosi delle loro squadre. Altri, come Abramovich e Al Thani, lo sono diventati dopo essersi comprati le società».
Chi è stato il presidente più invadente? Forse Berlusconi che voleva dettarle le formazioni?
«Si sa che ai presidenti piacerebbe fare anche gli allenatori. Ma sul mio divorzio dal Milan sono circolati troppi luoghi comuni. Berlusconi non ha mai cercato di condizionarmi. Mi stuzzicava quando le cose andavano bene. Nei momenti complicati non mi ha mai messo pressione».
Qual è la metropoli che l’ha segnata di più?
«Londra, dove il calcio è considerato solo uno sport e non coinvolge la vita privata. In Inghilterra potevo liberamente passeggiare per le strade, andarmene al cinema, rilassarmi a cena nel mio ristorante preferito, senza essere disturbato. La violenza è stata debellata, gli ultras sono spariti, non volano insulti, sugli spalti si fa pacificamente il tifo per la propria squadra, la polizia non deve mai intervenire. Un abisso culturale rispetto ai nostri stadi dove vengono chiuse le curve ed è giusto che i razzisti e i facinorosi rimangano fuori. Anche per gli arbitri è tutto più facile. Se ogni partita non si trasforma in un giudizio di Dio si va in campo meno preoccupati e si commettono meno errori. Di Parigi mi è rimasta dentro la grande bellezza, il livello estetico paragonabile solo a quello di Roma. E, siccome amo il cibo, la voglia dei migliori spaghetti al tartufo che abbia mai assaggiato. Ma la Francia ha un tifo molto acceso, con qualche esplosione di violenza. A Madrid ritrovo molte atmosfere italiane. Più romane che milanesi. Si cerca di vivere con meno stress. Ma il tifo è come in Italia molto passionale. In compenso il risultato non è come da noi un’ossessione. Qui c’è la cultura dello spettacolo. I tifosi applaudono la propria squadra anche se ha perso, a patto che abbia giocato bene».
Com’è l’Italia vista dall’estero?
«Le persone che incontro si dicono affascinate dalla nostra grande creatività. Proprio l’altra sera, a cena, l’ambasciatore maltese a Madrid non riusciva a capire perché nel nostro Paese ci fosse tanto pessimismo. Io so bene che la situazione, da noi come qui in Spagna, è abbastanza critica. C’è troppa gente che soffre. Ma è anche vero che il nostro è un popolo con immense risorse».
Cosa pensa dell’irresistibile ascesa di Matteo Renzi?
«Mi colpisce per l’energia, per la carica giovanile. Lo sento vicino alle esigenze della gente. Ho letto che voleva rinunciare alla scorta. È un piccolo gesto ma anche un grande segnale di avvicinamento ai cittadini».
Il calcio italiano è sempre meno competitivo a livello internazionale. Nessuna nostra società può più permettersi ingaggi da top player. C’è da sperare solo nell’arrivo degli sceicchi?
«Le fonti di introito sono diverse nel calcio. Le sponsorizzazioni, i diritti televisivi ma anche gli incassi al botteghino. In Italia la gente va poco allo stadio, perché gli impianti sono scomodi e la violenza è sempre in agguato. Siamo rimasti molto indietro nelle infrastrutture. La strada maestra per tornare appetibili fuori dal Paese l’ha indicata la Juventus, che si è costruita uno stadio proprio. Quando gli impianti diventeranno sicuri e confortevoli come in Inghilterra, vedrete che arriveranno anche da noi gli sceicchi e i loro investimenti».
Lei è molto più amato di Mourinho dai tifosi madridisti. Forse perché non si atteggia a padreterno e accetta le critiche?
«Non saprei, ho anch’io i miei problemi. E poi Mourinho è sicuramente molto amato in Inghilterra. Forse più di me».
Mourinho, come Antonio Conte nella Juventus, si muove sempre sopra le righe. Vede nemici e complotti dappertutto. Lei sembra sempre così pacioso. Dalla panchina si ottiene di più facendo leva sulla tensione o sulla serenità?
«Ognuno si esprime secondo il proprio modo di essere. Io di certo non ho mai amato le polemiche. Altri preferiscono metodi meno sobri. Magari neanche dettati dal calcolo, ma semplicemente dalla personalità. Mourinho ha un suo temperamento. Conte, che ho allenato alla Juventus, aveva una mentalità molto determinata pure da calciatore».
È vero che le piacerebbe fare il commissario tecnico della Nazionale?
«Magari più in là. Potrebbe essere il mio punto di arrivo. Dopo, sarò forse troppo vecchio per tornare al lavoro quotidiano sul campo».
Cosa pronostica per la spedizione azzurra ai mondiali in Brasile?
«È una squadra collaudata. Credo che farà bene. Come agli europei. Ma il titolo andrà quasi sicuramente al Brasile. Per motivi tecnici e ambientali. A ridosso vedo la Spagna che con il suo possesso di palla rimane ai vertici, l’Argentina perché ha Messi e la Germania che ha saputo rinnovarsi».
Lei che ha allenato grandi campioni, da Kakà a Ibrahimovic, da Lampard al pallone d’oro Cristiano Ronaldo, come gestirebbe Balotelli?
«Cercherei di inculcargli il rispetto delle regole. Gli ricorderei ogni secondo che in una squadra il gruppo vale più del singolo. I fuoriclasse sono in primo luogo grandi professionisti. Se non c’è il senso di disciplina il talento non salta fuori».
Ci sono anche fuoriclasse tutto genio e sregolatezza. Ibrahimovic, per esempio.
«Ma Ibra si impenna per motivi caratteriali. Perché ha una mentalità vincente senza uguali, non perché attribuisce più importanza a sé che alla squadra. A un campione giova l’umiltà. Cristiano Ronaldo è un ragazzo semplicissimo. La mattina accompagna lui il suo bambino a scuola».