Maurizio Maggi e Gloria Riva, L’Espresso 28/3/2014, 28 marzo 2014
PRECARIO PER SEMPRE
Alla Alstom di Savigliano, in provincia di Cuneo, dove sono nati i treni Italo e ora si costruiscono carrozze e motrici per le ferrovie italiane, polacche e svizzere, lavorano 1.150 persone. Tra queste gli operai sono circa 600, per metà assunti a tempo indeterminato. E gli altri? A scadenza. Un po’ forniti dalle agenzie che una volta si chiamavano interinali (come Adecco o Manpower, per capirci); altri, invece, vengono ingaggiati a tempo, con contratti che possono durare un mese o poco più.
Per i sindacalisti, se a lavorare alle linee di assemblaggio ci fossero le sole 300 tute blu stabilizzate, l’azienda non sarebbe mai in grado di effettuare le consegne in orario. Quindi, dicono, ci sarebbe spazio per prendere altra gente col contratto tradizionale. Eppure sono gli stessi rappresentati di fabbrica a raccomandare ai precari di non farsi troppe illusioni: «È dal 2008 che qui nessuno viene più assunto con la formula del posto fisso, neppure per rimpiazzare chi va in pensione», spiega Salvatore Fuscà, membro interno della Fiom-Cgil. Con il contratto a termine previsto dal Decreto legge 34 del 20 marzo, la prima vera mossa ufficiale del governo di Matteo Renzi in materia di mercato del lavoro, la situazione della Alstom di Savigliano potrebbe diventare la normalità. E in parecchie aziende le cose potrebbero andare anche peggio. Lo spiega bene Roberta Zolin della Cisl, che segue le vicende dei due stabilimenti vicentini dell’industria farmaceutica Zambon (quella dello sciroppo contro la tosse Fluimicil), dove 90 dei 500 dipendenti sono precari. «Il ricorso alla manodopera atipica ci pareva eccessivo anche perché, a colpi di rinnovi di ingaggi a tempo, un lavoratore poteva restare nel "limbo Zambon" fino a cinque anni. Negli ultimi 24 mesi, dopo lunghe trattative, siamo riusciti a far assumere a tempo pieno dieci persone. Poche? Per niente! Con l’aria che tira, è un bel risultato. E d’ora in poi, con le nuove norme avremo ancor meno spazio di manovra e sarà sempre più difficile trasformare i precari in dipendenti a tutti gli effetti», dice sconsolata l’esponente cislina.
Nel 2013 ogni cento nuove assunzioni, in Italia ben 68 sono state effettuate a tempo determinato. Adesso, il contratto a termine rischia di diventare la Juventus dei contratti. La squadra bianconera non ha rivali nella sua marcia-scudetto e punta al record dei 100 punti in classifica. Allo stesso modo, la pozione distillata da Filippo Taddei, responsabile economico del Partito democratico (vedi intervista a pagina 38), e dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, appare destinata a sbaragliare ogni rivale. Aspettando gli altri giocatori dell’atteso Jobs Act, - la rivoluzione dell’occupazione promessa da Renzi, che però potrebbe metterci parecchio a vedere la luce - il contratto a termine è la superstar. Almeno quando, in tribuna, ci sono gli imprenditori. Che infatti si sono alzati in piedi ad applaudire.
Alla Fiat, che il capitolo assunzioni non lo apre da un bel po’, piace davvero: «Essendo fortemente liberalizzatore, il nostro giudizio è positivo», dice un portavoce del gruppo. Pure l’Aidp, l’associazione dei capi del personale, lo vede benissimo. «Così come per il nuovo apprendistato, è un provvedimento che toglie dei paletti, invogliando le aziende ad assumere», sostiene il vicepresidente dell’Aidp, Paolo Iacci. Secondo il quale le due mosse potrebbero avere anche effetti nella lotta contro i furbi: «Le norme attuali, spesso pasticciate, hanno contribuito a far nascere soluzioni ai limiti della legalità». Togliendo di mezzo tanti vincoli, insomma, potrebbe diminuire la voglia di imboccare scorciatoie poco virtuose.
Ma cosa cambia, in soldoni, con le prime cartucce sparate da Renzi? D’ora in poi il tempo determinato potrà essere prorogato otto volte, fino a un massimo di 36 mesi e senza alcuna giustificazione. Il numero totale di contratti senza causale (cioè senza spiegare il motivo per cui si viene assunti) non potrà comunque superare il 20 per cento dell’organico. Mentre finora, dopo il primo anno, era necessario specificare l’incarico della persona ingaggiata e bisognava rispettare delle pause di 10 o 20 giorni fra una proroga e l’altra. Anche l’apprendistato viene semplificato: svanisce l’obbligo di assumere il 30 per cento degli apprendisti prima di poterne acchiappare di nuovi e, complessivamente, potranno essere metà dell’intera forza lavoro e non si dovrà più presentare alcun piano formativo scritto.
Secondo molti osservatori, le prime due innovazioni renziane sul tema lavoro sono il classico topolino partorito dalla montagna. Il cuore del "Jobs Act", sbandierato dal gruppo dirigente del Pd al momento dello sbarco del sindaco fiorentino a Palazzo Chigi, era il cosiddetto "contratto unico a tutele crescenti". Che non è sceso in campo. È rimasto in panchina, e qualcuno teme che ci possa restare a lungo. Uno dei suoi papà, Tito Boeri, docente di Economia e prorettore alla ricerca della Bocconi, considera antitetica e schizofrenica la scelta dell’esecutivo. Spiega Boeri: «Il contratto a termine è, di fatto, un periodo di prova lungo tre anni. Le aziende lo utilizzeranno così, sapendo che ogni giorno puoi licenziare senza preavviso, senza compensazione, senza motivazione. Il contratto a tutela crescente, invece, aumenta ogni giorno la copertura: nei primi tre anni il lavoratore può essere scaricato, ma almeno non parte sapendo da subito che l’ingaggio ha un termine. E più tempo passa più sale il costo del licenziamento a carico dell’impresa». Un lavoratore che finisce il contratto, secondo l’economista, difficilmente lo vedrà convertire in assunzione a tempo indeterminato. E se con il disegno di legge il governo introdurrà davvero il contratto a tutela, come promette il ministro Poletti, significa che l’inserimento potrebbe durare in totale sei anni. «Davvero troppi», sentenzia Boeri.
Dove il contratto a termine fa già la parte del leone, per i lavoratori gli effetti di lungo periodo non sono rassicuranti. Come nell’edilizia. «Gli operai vengono assunti e licenziati in base ai cantieri aperti e sanno in partenza che la loro carriera sarà discontinua. In quarant’anni di lavoro, un edile mette insieme solo 29 anni di contributi pensionistici. E se prima della Legge Fornero ambiva alla pensione per limiti d’età, ora che il traguardo scivola verso quota 70 diventa quasi una chimera», sostiene Maurizio Spoldi, sindacalista della Fillea Cgil e dipendente della Impregilo-Salini. Uno dei pochi con il posto fisso, visto che in giro per il mondo il colosso delle costruzioni ha 700 addetti a tempo indeterminato su 34 mila. «Ecco perché qui nella mia azienda tre edili su quattro accettano di sgobbare nei cantieri all’estero, dove la paga è più alta grazie alla trasferta e si può accantonare il tesoretto utile quando le forze verranno meno ma la pensione sarà ancora un miraggio», sostiene Spoldi.
La precarietà picchia storicamente duro anche in cucina. E il caso che stiamo per descrivere illustra alla perfezione quanto diversa possa essere l’accoglienza del nuovo contratto a termine. Da Rete Imprese Italia, il raggruppamento delle associazioni di commercianti e artigiani, s’alza uno stentereo "urrà". Sono felici, Confcommercio, Cna e company, soprattutto per l’innalzamento da 12 a 36 mesi del rapporto a tempo determinato "acausale", «che pone fine a una delle principali fonti di contenzioso con le imprese». Per persone come Francesco Fedeli, ex precario di Autogrill, che il contratto a termine lo ha sperimentato tra il 2009 e il 2013, la "causalità" è stata un piccolo paracadute. «Turni massacranti e zero diritti. Dopo quattro anni non ce la facevo più e mi sono rivolto agli avvocati delle rete di San Precario. Guadagnavo circa 800 euro al mese e venivo utilizzato per gli incarichi più diversi. Ma ero stato ingaggiato per stare dietro al banco. Ho fatto causa, il posto l’ho perso ma ho portato a casa sei mensilità», racconta Fedeli. «Metà del personale Autogrill in Italia è "atipico"; abbondano i giovani perché dopo qualche anno di orari impossibili e paghe basse scoppiano e lasciano. E il nuovo contratto a termine favorisce queste forme di precarietà, che dilagheranno anche nell’industria», è il grido d’allarme di Giorgio Ortolani, sindacalista della Filcams. Subodora problemi persino Nicola Brancher della Cisl, che pure si occupa di uno dei gruppi più solidi e noti del made in Italy, quella Luxottica (con 8 mila dipendenti in patria) che si è appena alleata con Google per produrre gli occhiali del futuro: «Allargare le maglie della contrattazione a termine significa allontanare il momento dell’agognata stabilizzazione anche in un’impresa lungimirante come Luxottica, dove adesso già ci sono 700 contratti a termine», lamenta Brancher.
L’apprendistato è la seconda gamba del decreto legge 34 ma è assai più magra della prima. A fine 2013, in Italia, erano in pista due milioni di contratti a termine e circa 200 mila apprendisti. Un grande fan della seconda formula è Stefano Dedola, capo del personale di McDonald’s. Qui il 23 per cento dei 17.500 dipendenti è apprendista e nel 90 per cento dei casi, dopo tre anni di prova, viene confermato a tempo indeterminato, anche se spesso l’orario di lavoro va da otto ore settimanali (il tipico contratto "week-end"), a venti ore: «Nella ristorazione c’è bisogno di tanta flessibilità, che nel nostro caso non fa affatto rima con precarietà». La nuova ricetta dell’apprendistato fa proseliti anche sulle rive del Garda. A Lazise, Verona, c’è la Olip, azienda calzaturiera che fattura 76 milioni di euro e ha una fabbrica con oltre mille addetti in Bosnia. La Olip ha deciso di riportare pezzi di produzione in Italia, e ha assunto una quindicina di persone. «Ora siamo in 110, a Lazise, e se il mercato tira potremmo anche far entrare altri giovani», afferma il direttore finanziario Giovanni Dalla Via. «Apprendisti? Perché no. È intelligente togliere l’obbligo dei corsi formativi, che tanto nessuno faceva davvero. In aziende come la nostra, i nuovi arrivati che imparano il mestiere ce li teniamo stretti». Dalle Marche puntualizza Alberto Barilari, titolare della Neomec, ditta metalmeccanica, e presidente della Cna di Pesaro-Urbino. «Ho dieci dipendenti e quattro sono ex apprendisti. Lo strumento è valido quando si parla di una bottega come la mia, ma se lo usa una grande industria è puro sfruttamento», tuona Barilari. Probabilmente non dovrà arrabbiarsi troppo. Il contratto a termine è davvero troppo favorevole alle imprese, per ipotizzare un boom dell’apprendistato. Barilari ce l’ha a morte anche con la cassa integrazione in deroga, quella per i dipendenti delle società che non sganciano i contributi all’Inps: «Speriamo che il governo la elimini, come ha promesso di fare. Ben venga un sistema di sussidi che tuteli le persone invece di posti di lavoro ormai senza futuro».
Il guru degli ammortizzatori sociali dell’esecutivo è Stefano Sacchi, che insegna Scienze del lavoro alla Statale di Milano e ha conquistato Renzi con la proposta di dare l’assegno di disoccupazione ai precari. «L’obiettivo è coprire un milione di persone in più, compresi i 400 mila collaboratori a progetto che non hanno sostegno. Oggi la disoccupazione costa 7,2 miliardi, estenderla necessita di 1,6 miliardi in più. Che troveremo eliminando la cassa integrazione in deroga». Il Jobs Act prevederà un sussidio di due anni al massimo per chi ha lavorato per 48 mesi e di sei mesi per chi è uscito dai vari contratti di collaborazione. Ma è presto per parlarne, perché questo secondo corposo tempo della partita-lavoro, si giocherà tra un anno. Ora i riflettori sono tutti sul contratto. «Chi si attende da questo un significativo incremento delle assunzioni rimarrà deluso: più della metà dei contratti a termine non sono nuovi rapporti tra il lavoratore e l’azienda ma proroghe. Già nel 2013 la normativa era stata resa più favorevole per le imprese, eppure i nuovi rapporti non sono aumentati», gela gli entusiasmi l’economista Bruno Anastasia, esperto di previsioni statistiche.
Per il gigante del lavoro interinale Adecco, invece, in un anno le assunzioni cresceranno del 10 per cento, grazie al restyling di Renzi. «Tutto dipende dall’economia», taglia corto Boeri, «perché quando si liberalizzano le assunzioni e si aumenta la flessibilità si rende l’occupazione più sensibile all’andamento dell’economia. Si crea più lavoro quando riparte ma se ne perde maggiormente quando rallenta». Gli esperti lo chiamano coefficiente di Beta, lo ha messo a punto nel 1962 l’economista Arthur Melvin Okun. In Spagna, dove da tempo si pasteggia a paella e flessibilità, la volatilità dell’occupazione è doppia rispetto agli Stati Uniti, dove in quanto a lavoro atipico non si scherza.