Bruno Manfellotto, L’Espresso 28/3/2014, 28 marzo 2014
QUEL PASTICCIACCIO DEL 3 PER CENTO
L’economia, si sa, si nutre di matematica. Però per spiegare perché sia dannoso spendere più di quello che si guadagna (si produce), non c’è bisogno nemmeno di un minimo di aritmetica essenziale: basta il buon senso. Prendiamo la storia di questo dannato tre per cento che Matteo Renzi definisce anacronistico, che fa litigare Italia e Germania e che fissa un tetto al disavanzo pubblico: non più del tre per cento, appunto, del prodotto interno lordo, il Pil.
Ora, l’Italia produce ogni anno ricchezza (il Pil) per 1500 miliardi di euro; ma sconta un debito colossale, 2000 miliardi o giù di lì, cui si aggiungono ovviamente gli interessi da pagare, 50 miliardi l’anno immaginando un tasso del 2,5. Quindi più si contengono in qualche modo deficit e debito e meglio è. Se quest’anno, per esempio, il debito complessivo dovesse aumentare di altri 45 miliardi - per via di un ulteriore disavanzo di tre punti di Pil - sarebbe necessario che la ricchezza nazionale, come la busta paga di chi s’indebita, crescesse più o meno della stessa percentuale. Altrimenti sarebbe impossibile fermare la spirale e tenere in ordine i rapporti deficit-pil e debito-pil così come vogliono gli accordi firmati a Bruxelles (fiscal compact) cui siamo stati chiamati proprio per impedire che quel debito aumenti a dismisura.
E PERÒ ANCHE GLI OSSERVATORI più ottimisti dicono che l’Italia crescerà a fatica, sì e no dell’1 per cento, e dunque debito si aggiungerà a debito. Si potrebbero allora tagliare le spese, eliminare sprechi, proprio come si fa in una famiglia nei guai; e però non c’è Bondi o Cottarelli che tenga, e a ogni proposta di abbattere la scure qui o là, ecco calde resistenze, mandarini indignati, corporazioni in lacrime. Allora si potrebbe vendere un po’ di patrimonio pubblico, e ogni volta infatti si annunciano piani faraonici di dismissione, a cominciare dalle sempiterne caserme; ma da quando ne parlò Monti sono passati due anni e mezzo e non se n’è fatto nulla, nonostante e Letta e Renzi abbiano stancamente ripetuto il ritornello. Forse si potrebbe essere più tosti contro l’evasione fiscale, ma queste due parole - ci avete fatto caso? - nel vocabolario di Renzi non compaiono mai. Altri ancora spiegano che c’è talmente tanta liquidità in giro che riusciremo sempre a piazzare i titoli del debito; e in parte è vero, ma chi compra non vuole solo guadagnare, vuole anche essere sicuro dell’investimento, e un Paese che passa in un mese da 200 a 500 di spread e viceversa non è il massimo della stabilità.
LA QUESTIONE È ANTICA, ce la trasciniamo da almeno vent’anni, ma diventerà stringente e ineludibile dall’anno prossimo visto che non solo ci siamo impegnati al pareggio di bilancio, ma addirittura lo abbiamo scritto nella Costituzione. Insomma, dal 2015 dovremo via via ridurre il debito fino a portarlo al 60 per cento del pil (oggi è oltre il 130), e più o meno azzerare il disavanzo. Traduzione: una quarantina di miliardi da tagliare ogni anno per il primo obiettivo e quasi altrettanti per il secondo. Ottanta miliardi. Aiuto.
Per carità, le deroghe sono sempre possibili, specie per un Paese come il nostro sempre vissuto di eccezioni, ma almeno bisogna dimostrare di aver voglia di fare e di cambiare. Eppure quella riforma della Costituzione è stata votata dai due terzi del Parlamento (per evitare il referendum dei cittadini), e cioè con il sì di Pd, Pdl e pure della Lega; gli stessi partiti che però non riescono a comportarsi di conseguenza, anzi. Perché tra gli impegni e la realtà c’è di mezzo la politica. Come Angela Merkel sa bene.
Ora, Renzi è troppo intelligente e attento per non sapere che cosa lo aspetti l’anno prossimo e che cosa significhi annunciare bonus di dieci miliardi per dieci milioni (di italiani), investimenti per la scuola, taglio dell’Irap e rimborso dei debiti della pubblica amministrazione senza indicare altrettanti tagli certi. Allora, perché lo fa? Probabilmente pesa su di lui la sindrome dei cento giorni (o la va o la spacca), e forse ancora di più la vigilia di una delicata campagna elettorale nella quale già cantano a squarciagola le sirene del populismo, delle lamentele contro l’Europa, della battaglia contro la moneta unica. Va bene, d’accordo, si facciano pure promesse e poi si voti, ma subito dopo, per piacere, si torni alla realtà.