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 2014  marzo 28 Venerdì calendario

COMPRARSI UN «LIKE» IL TARIFFARIO DEL PIACERE


Nel 1930 Nevil Monroe Hopkins, ingegnere alla New York University, ebbe un’idea. Decise di creare un dispositivo per permettere agli spettatori radiofonici di esprimere apprezzamento sui contenuti delle trasmissioni che ascoltavano. Quell’apparecchio si chiamava «radiovota». Nonostante fosse stato salutato come un mezzo per sondare gli umori dell’opinione pubblica, il prototipo rimase a prendere polvere sugli scaffali dell’ateneo. Quasi ottant’anni dopo, nel febbraio del 2009, Mark Zuckerberg ha introdotto sulle pagine Facebook il bottone con il pollice in su. La rivoluzione del piacere ci aveva messo anni compiersi e niente sarebbe stato più come prima.
In realtà, a inventare il «like » non è stato Zuckerberg. La paternità si deve piuttosto agli imperatori romani quando alzavano il pollice per graziare i gladiatori nell’arena. «Hai combattuto bene, quindi ti salvo la vita» era il concetto. Oggi quel gesto ha assunto altri significati: «Mi piaci, mi fai star bene, condivido quello che dici, mi diverti. Mi dai piacere. E te lo dico cliccando su un bottone». Dal 2009 a oggi fiumi di inchiostro sono stati versati sull’argomento e da qualche anno gli accademici sono al lavoro per capire come un’icona abbia cambiato il nostro concetto di piacere. C’è chi addirittura sostiene che il «like » stia soppiantando il sesso. Teoria azzardata, forse. Ma quel che è certo, almeno secondo Larry Rosen, docente di psicologia della California University, autore di Psychology of Technology, è che il «mi piace» si è tradotto in «empatia virtuale». Per Moira Burke della Carnegie Mellon University «aumenta il nostro capitale sociale. Le persone che lo ricevono si sentono meno sole». Nessuna sorpresa, verrebbe da dire, dato che ormai in media le pagine Facebook ottengono in media oltre 50 milioni di apprezzamenti al giorno. Quello che però colpisce è l’analisi qualitativa. Secondo una ricerca di Crowd Science, il 28 per cento degli utenti clicca l’icona per dimostrare il suo supporto, un altro 28 per esprimere soddisfazione di fronte a contenuti video o foto condivisi. Ma ben il 14 per cento per esprimere apprezzamento di un brand.
Ed è proprio qua il punto. Il nostro piacere, la nostra empatia e il nostro capitale sociale stanno assumendo un valore economico. Esistono analisi che traducono in dollari il valore di un like : per Zara si parla addirittura di 405 dollari a click fino ad arrivare ai 70 della Coca Cola. In media è sui 170 dollari. Ma ciò che è sotto gli occhi di tutti è che i grandi marchi facciano a gara per strapparsi pollici in su. E, come in ogni economia che si rispetti, esiste un mercato nero del «like ». Molto fece discutere l’estate scorsa un’inchiesta del quotidiano britannico Guardian nel quale si raccontava come in Bangladesh esistano vere e proprie like farm che vendono seguaci su Twitter, like su Facebook, contatti su Google+ e cuoricini su Instagram. Dopo che i grandi della Silicon Valley hanno dichiarato guerra ai Bot, cioè agli account fasulli che generano traffico, il mercato ha fatto di necessità virtù e ha iniziato a impiegare migliaia di lavoratori sottopagati (il salario medio è di 10 dollari per 1.000 like ) il cui unico, meccanico e ripetitivo compito è di cliccare manualmente. Obiettivo, far crescere il capitale social del cliente in questione, che sia un ente governativo, un brand o un cantante alla ricerca di popolarità. Il trucchetto venne scoperto da inchieste giornalistiche successive. Prima ci si rese conto che alcune pagine avevano un numero di mi piace spropositato per il loro contenuto (ad esempio, un cartone animato per lo più sconosciuto aveva più apprezzamenti di un film di Hollywood). Poi, risalendo alla provenienza geografica di questi clic, si scoprì come molti mi piace arrivassero dall’India, dall’Egitto o dall’Asia. Insomma, se i più grandi social network scoraggiano l’uso di queste pratiche, è pur vero che non esistono leggi chiare. «Facebook lavora costantemente per rimuovere i like generati attraverso l’uso di strumenti che violano le regole. Infatti un mi piace che non deriva da un vero interesse da parte di una persona reale verso una pagina o di un contenuto non si traduce in un beneficio per le persone e per le aziende ed è per questa ragione che investiamo ogni giorno nell’aumentare il livello di protezione» spiega Luca Colombo, country manager di Facebook in Italia. Ma finché il legislatore non interviene, il web marketing espande i suoi confini. E va dove il mercato del lavoro è meno caro.
Basta fare un giro su Google per rendersene conto. Sono migliaia i siti che offrono questo servizio. La maggior parte impiega Botnet (e dunque dei computer). Ma ci sono anche quelli che si sono attrezzati con operai sottopagati. Andando a scavare ulteriormente salta fuori che esistono veri e propri tariffari. Si va dai 12 dollari per 250 condivisioni su Google+, 1.000 follower su Instagram per 12 dollari, fino al milione di follower su Twitter per circa 600 dollari. Per Facebook, in genere, si vende a pacchetto: mille fan a 18 euro, 5 mila a 90 euro, 10 mila a 180 euro. Il pagamento sarà effettuato tramite PayPal a lavoro concluso per il pacchetto più conveniente, 50 per cento in anticipo e 50 per cento alla conclusione per gli altri due stock.
Importanti sono anche le strategie adottate: uno dei modi più semplici per scoprire i falsi è la crescita improvvisa. Motivo per cui al mercato nero del piacere consigliano di comprare i «like » a scaglioni e di non giocarseli tutti insieme. Se infatti un profilo Twitter passa in un giorno da 10 follower a un milione è sotto gli occhi di tutti che il gradimento dell’account è fittizio e non corrisponde ad un apprezzamento reale. La tecnica migliore, dunque, è di giocarsi le quote di piacere acquistate con sapiente pazienza.
Al di là dei trucchetti resta però il fatto che il concetto di piacere e di capitale sociale sono sempre più simili. E che fingersi quello che non si è nell’era del «like » è più facile. Un pensiero che inevitabilmente porta a chiedersi se non sarebbe meglio ritirare fuori dagli scaffali impolverati i «radiovota» di Nevil Monroe Hopkins.