Claudio Magris, Corriere della Sera 28/3/2014, 28 marzo 2014
IL SUCCESSO DI LE PEN E LE COLPE DI MITTERRAND
la vittoria di Marine Le Pen è dovuta a molti fattori. Certamente alla sua intelligenza e alla sua abilità, alla sua capacità di avvertire ed esprimere i sentimenti e le rabbie della crisi, al suo lavoro di maquillage che ha reso almeno apparentemente presentabile il suo partito, emarginandone gli elementi più teppisticamente beceri e rifiutando, almeno a parole, il negazionismo nazistoide. È dovuta alla crisi generale dell’Europa, economica e politica, al diffuso risveglio del richiamo della foresta delle piccole patrie; all’inettitudine dei due maggiori partiti francesi.
È un segno dei tempi che, nel mezzo di una crisi molto severa, la principale democrazia occidentale — gli Stati Uniti d’America — e la più importante agenzia della religione cristiana — la Chiesa Cattolica — siano riuscite a esprimere due grandi leader come Obama e Francesco.
Non che si tratti di personalità prive di difetti. Non che possano sperare, da soli, di tirarci fuori dai guai. Ma entrambi si sono rivelati capaci di uno scatto: la loro forza sta nell’avere il coraggio di scommettere su un futuro capace di far rivivere la nostra memoria più autentica.
Non un’ideologia, non un generico ideale, ma, come direbbe R. Panikkar, un «mito»: qualcosa, cioè, di non perfettamente razionale, ma nemmeno di irrazionale, che da un lato ci colloca dentro una storia secolare e, dall’altro, è capace di motivare l’agire concreto di milioni di uomini facendo appello al desiderio, all’immaginazione, al senso morale.
Il «mito» a cui Obama e Francesco si richiamano è quello della dignità di ogni persona umana e dei doveri di reciproca obbligazione che da qui ne derivano. La crescita economica e lo sviluppo politico si legittimano — e dunque si sostengono — solo a condizione di cogliere il senso profondo dell’esperienza umana. Che ha a che fare con il lungo ma inesorabile percorso di emersione della libertà umana come espressione del riconoscimento del valore di ogni vita. In un quadro di uguaglianza e reciproco riconoscimento.
Obama e Francesco si ritrovano oggi su questo punto. Non in modo retorico. Ma per una necessità. Un’urgenza storica.
Ciò è possibile prima di tutto perché le loro biografie danno testimonianza di questo mito Occidentale. Entrambi hanno percorso l’intero cursus honorum nelle grandi istituzioni a cui appartengono; ma entrambi vengono dalla periferia di questi mondi con cui non hanno mai interrotto i contatti e di cui, soprattutto, non hanno mai perso né il calore né lo sguardo. In questo senso, entrambi incarnano l’idea di un Occidente aperto, dove la qualità umana delle persone e la loro dignità contano fino al punto da permettere di arrivare ai livelli più alti. Confermando così la tavola dei valori che ha alimentato il nostro modello di convivenza.
Sul piano interno, la convergenza tra Obama e Francesco si determina attorno ai temi della povertà, delle disuguaglianze e della redistribuzione del reddito. Temi accantonati dalla fine degli anni Settanta, quando la conclusione del ciclo storico iniziato nel dopoguerra poneva all’ordine del giorno questioni diverse. Quarant’anni dopo, però, tornare a parlare di questi temi è indispensabile per creare le condizioni stesse di una nuova stagione di crescita. Il buco nella domanda di cui oggi soffrono le economie avanzate è in buona misura un effetto di una distribuzione del reddito eccessivamente squilibrata. Dopo la grande espansione (1989-2008), occorre tornare a integrare economia e società, profitti e salari. Semplicemente perché ogni impresa, ogni territorio, ogni Paese è chiamato a navigare nel mare della globalizzazione con le proprie forze, e non più sospinto dal vento della deregulation e della finanziarizzazione.
Sul piano internazionale, i due si ritrovano attorno all’idea secondo cui il ruolo fondamentale che l’Occidente svolge nel mondo va affermato con la diplomazia. La forza dell’Occidente non sta nell’uso offensivo delle armi. Ma nella sua capacità di essere al servizio di una storia il cui senso profondo è il rispetto reciproco, la democrazia, la libertà personale, la comune umanità. Tutti ci ricordiamo l’importanza del richiamo di papa Francesco, qualche mese fa, quando si fu sul punto di intervenire militarmente in Siria.
Obama e Francesco sanno benissimo che persino dentro le loro constituency — l’opinione pubblica americana e la Chiesa cattolica — controversie e differenze di sensibilità erano e restano fortissime. Da questo punto di vista, si tratta di due leader «sospesi» che, in una realtà attraversata da mille convulsioni, continuano a sperare nel futuro e nella vitalità della cultura e dello spirito occidentale. Per questo si cercano e si parlano.
Obama arriva fino a tirare le conseguenze politiche di tutto ciò: la sua proposta è che il Transatlantic Trade and Investment Partnership costituisca l’asse portante della futura alleanza tra Usa e Europa. E qui si arriva al punto. Tra il Papa e il Presidente americano l’Europa è l’anello mancante. Forse anche per questo Obama incontra il Papa e spinge Renzi, il premier italiano. Perché nella sua visione del mondo c’è ancora spazio per un’alleanza strategica tra Usa e Europa. A condizione che l’Europa sia disposta a sciogliere le proprie incertezze e a giocare fino in fondo la partita della storia.