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 2014  marzo 27 Giovedì calendario

INGLESE, PAROLE LUNGHE ADDIO MA L’ITALIANO NON SI ACCORCIA

Ma allora lo sparuto deputato grillino che a Montecitorio ha detto sarò «breve e circonciso» era, oltretutto, controtendenza? La lingua, si dice, si accorcia, abbiamo a disposizione meno spazio, meno tempo, meno caratteri, meno fiato e lui invece aggiunge una sillaba oltretutto rovinosa. E lo fa proprio mentre promette di essere breve. Chissà, avrà voluto incrociare l’essere “conciso” con un quadrisillabo come “circoscritto” o addirittura un pentasillabo come “circostanziato”. Ma se la matematica non è un’opinione, il dizionario non è aritmetica, e la somma non gli ha giovato.
Tra sms, WhatsApp e Twitter, è vero, ci siamo abituati ad abbreviare le parole, a digitare geroglifici come “cmq” per “comunque” o “xké” per “perché” e a impiegare acronimi come “we” per “weekend” o anche “asap” che significa “as soon as possible”, adottato nella nostra anglomania, così poco fantasiosa da non essersi inventata un ancor più breve, e fico, “ipp” per: “il prima possibile”.
L’allarme sulla sparizione delle parole lunghe proviene proprio dai paesi anglofoni, parola del Wall Street Journal. In inglese c’è da sempre, o quasi, una fobia per il quadrisillabo e oltre: paroloni che fanno sentire pretenziosi i locutori e ignoranti gli interlocutori. Ma loro si insultano a quattro lettere, mentre noi ce ne mettiamo dieci, e quattro sillabe, per scambiarci dei compiuti “vaffanculo”. Persino in preda all’urgenza espressiva e all’ira siamo dunque indulgenti con la nostra prolissità. Un decennio fa era anche uscito un qualche studio che registrava la presenza di cognomi molto corti, monosillabi o bisillabi, ai vertici delle grandi potenze: Bush, Chirac, Blair, Putin. Cognomi che entrano in tutti i titoli dei giornali. Grande potenza non siamo, ma i titolisti italiani hanno certo sudato per vent’anni con Berlusconi, spesso chiamato Silvio anche per ragioni di ingombro. C’è comunque da immaginarsi che alcuni anglismi abbiano avuto successo da noi anche per la maggiore economia, dalle sei sillabe di “ristrutturazione” alle tre di “restyling”, ma anche dalle tre di “d’accordo” alle due di “O. K.“. E poi c’è “spread” (monosillabo) per “differenziale” (pentasillabo), come in passato si è imposto “film” (monosillabo) su “pellicola” (quadrisillabo) e oramai si dice “premier” (bisillabo) anziché “presidente del Consiglio”, a costo di una forzatura istituzionale. Così ci sono imposte, imposizioni, tributi, contributi, contribuzioni, ma quando protestiamo lo facciamo contro le “tasse”, e, se colpiscono abitazioni e immobili, semplifichiamo tutto in “case”. Però i nostri “investimenti” hanno cinque sillabe, e già due in più dell’equivalente e non stringato “investments”.
Possiamo allora pensare che le tendenze in atto, per l’italiano, siano due. Il sintomo più visibile della tendenza sintetica potrebbe essere trovato nel campo dei giochi. Per decenni ha dominato lo Scrabble-Scarabeo, in cui si vince con parole molto lunghe. Ora abbiamo appena avuto l’ondata di Ruzzle, dove l’importante spesso è trovare e comporre rapidamente tante parole cortissime. Questa prima tendenza è economica, globalizzante, tecnocratica, ed è quella che ci porta ad abbreviare, fare acronimi, usare anglismi e dire “stand by” (“in pausa” non sarebbe più lungo) e “spending review” (quattordici caratteri al posto dei sedici di “revisione di spesa”). Ci danno non la concisione — né la circoncisione — ma l’impressione di una sintesi e di una maggiore pregnanza.
La seconda tendenza è nostrana, rilassata, compiaciuta.
Se scegliamo di dire “casino” anziché “accozzaglia”, forse non è solo per risparmiare una sola sillaba. Altrimenti perché è in declino “abulia” magari a favore di “svogliataggine”, una sillaba e otto caratteri in più? E se è vero che diciamo “affatto” al posto di “nient’affatto” (che vuol dire il contrario), perché non ci limitiamo a un evangelico “sì”, ma dobbiamo esagerare con “assolutamente sì”, che ha sei sillabe in più? Perché adottiamo “implementazione” contro “attivazione”? Ipotesi di risposta: perché più della sintesi amiamo l’enfasi.
Quando Massimo Troisi preferiva “Ugo” a “Massimiliano” come nome di un figlio usava l’argomento della lunghezza: ora che hai urlato “Massimiliano!”, il bambino ha fatto in tempo a disubbidire e a diventare maleducato; in realtà “Ugo” era il nome di suo padre. Sotto la questione della lunghezza delle parole, almeno in italiano, c’è sempre dell’altro. Noi possiamo dirci che amiamo la sintesi e l’economia linguistica, perché siamo sempre di fretta e non vogliamo sprecare fiato e caratteri. Ma il secco in realtà ci fa paura e siamo tuttora più a nostro agio con il vero e proprio sbrodolamento. Non ci pare strano che, per dirci che sul binario è indicato il punto in cui aspettare il nostro vagone, l’altoparlante sciorini un’ode, composta anche di svariati endecasillabi: “Per agevolare l’accesso ai treni invitiamo i viaggiatori a disporsi lungo il marciapiede in base alla posizione della carrozza relativa al livello di servizio acquisito consentendo, prima di salire la discesa, dei viaggiatori in arrivo”.
La strada della brevità, insomma, per noi è ancora lunga.