Sergio Romano, Corriere della Sera 27/3/2014, 27 marzo 2014
IL DECLINO DI ERDOGAN TRA ECONOMIA E TWITTER
Quando andranno alle urne, il 30 marzo, i turchi voteranno per i sindaci e i consigli comunali delle loro città. Ma nei grandi manifesti disseminati lungo il Bosforo e nei grandi viali di Istanbul, il volto che ritorna più frequentemente è quello di Recep Tayyip Erdogan, primo ministro dal marzo 2003, dopo la vittoria elettorale dell’anno precedente, trionfalmente rieletto nelle elezioni successive e, se le sue speranze si realizzassero, prossimo presidente di una Repubblica che dovrebbe essere, nelle sue intenzioni, presidenziale.
L’espressione del suo viso è sobria, autorevole, rassicurante, appena addolcita da un lieve sorriso e molto diversa da quella grintosa con cui ha lanciato accuse e minacce nei suoi pubblici interventi durante le grandi manifestazioni di Gezi Park, nella primavera dell’anno scorso, e le accuse di corruzione che gli sono state mosse sin dallo scorso dicembre. Le elezioni del 30 marzo, quindi, lo concernono personalmente. Si vota per i sindaci, ma questo è il primo episodio di una stagione elettorale destinata a proseguire con le elezioni presidenziali di agosto e quelle parlamentari della primavera del 2015.
Quasi tutte persone che ho incontrato durante il mio soggiorno a Istanbul mi dicono che le sorti politiche di Erdogan sono strettamente collegate al voto di tre città: Smirne, la città mediterranea che ha conteso a Milano l’Expo 2015, Ankara, capitale della Repubblica, Istanbul. Sui risultati di Istanbul e di Smirne sembrano esservi meno incertezze. Istanbul (quindici milioni di abitanti) è la città di cui Erdogan è stato sindaco dal 1994 al 1998 e dove ha conservato, soprattutto fra i ceti popolari, una forte base elettorale. Smirne ha un sindaco del Partito repubblicano del popolo (Chp) , tradizionale erede dei principi politici di Kemal Atatürk, fondatore dello Stato; e potrebbe scegliere il candidato dello stesso partito. Ankara, nel panorama elettorale, è un punto interrogativo. Il sindaco, oggi, è un membro di Giustizia e Progresso, il partito islamico di Erdogan (Akp), ma i repubblicani hanno un candidato che sembra piacere a una buona parte dell’elettorato. Secondo Soli Ozeï, professore universitario e commentatore politico, la sconfitta nella capitale e un mediocre risultato a Istanbul sarebbero per Erdogan l’inizio del declino. Secondo altri osservatori, il declino è già iniziato. Nel 2012 Erdogan aveva un sostegno popolare pari al 60% della popolazione. Nel dicembre del 2012 (prima della pubblicazione di una conversazione telefonica in cui il primo ministro chiedeva al figlio di affrettarsi a nascondere parecchi milioni di euro) la percentuale era il 48%. In queste ultime settimane è scesa al 38,9%. Sul giudizio della pubblica opinione pesano la durezza con cui la polizia ha represso i moti contro l’urbanizzazione di un parco della capitale, nei pressi di piazza Taksim, le intercettazioni diffuse dalla stampa sulla corruzione del leader e sul malaffare di quattro fra i suoi ministri, la rabbiosa reazione con cui il primo ministro ha cercato di tappare la bocca dei suoi critici e la tentata chiusura di alcune fra le reti sociali più popolari (You Tube, Twitter), colpevoli di avere diffuso notizie che hanno alzato il velo sulle malefatte della sua gestione. Nel partito non esiste ancora un gruppo deciso a mettere in discussione la sua autorità, ma alcune personalità autorevoli — il presidente della Repubblica Abdullah Gül e due vicepresidenti del Consiglio, Ali Babacan e Bülent Arnic — hanno usato proprio Twitter, la rete vietata dal regime, per manifestare il loro dissenso. Gül, in particolare, ha detto che la chiusura di una rete sociale, nel mondo d’oggi, non è accettabile.
Due anni fa, agli inizi del 2012, Erdogan era sulla cresta dell’onda. Aveva drasticamente ridotto l’influenza dei militari nella vita pubblica, aveva fatto processare e condannare i vertici delle Forze armate con accuse speciose, poteva attribuire al suo governo la straordinaria crescita dell’economia turca negli anni precedenti e sembrava destinato a guidare i Paesi del Medio Oriente, dopo le rivolte arabe, sulla strada della modernità islamica. Oggi il quadro è completamente cambiato. Il nuovo Sultano è ferito, forse azzoppato. I suoi successi sono diventati, paradossalmente, il suo tallone d’Achille. I grandi cantieri, i grattacieli, le opere pubbliche, una ferrovia che corre sotto le acque del Bosforo per collegare l’Europa all’Asia, un nuovo ponte: tutto è improvvisamente appannato dalle rivelazioni delle scorse settimane. I dati economici non lo aiutano. La crisi del sistema politico, gli scandali e le sue violenze oratorie hanno pesato sul giudizio dei mercati. Nel secondo semestre del 2013 il capitale azionario, alla Borsa di Istanbul, ha perduto il 30% del suo valore e la lira turca, nel cambio col dollaro, si è deprezzata del 16%. Dopo avere lungamente resistito, la Banca centrale turca ha dovuto alzare il tasso di sconto dal 7,75 al 12 %. È terminato il decennio «cinese», quando la Turchia cresceva mediamente, ogni anno, di una percentuale appena inferiore all’8%. La crescita, nel 2014, si fermerà probabilmente al 2,5%: un eccellente risultato per i Paesi dell’Unione Europea e in particolare per l’Italia, ma insufficiente per un Paese in cui il mercato del lavoro deve dare un’occupazione, ogni anno, a 700.000 nuovi arrivati.
Nessuno di questi fattori, tuttavia, sembra scoraggiare Erdogan o renderlo meno combattivo. Come altri leader politici di nostra conoscenza, si considera vittima di un complotto nazionale e internazionale a cui non sarebbero estranei gli Stati Uniti. Se sarà costretto a uscire di scena potrebbe trascinare con sé l’intero partito e provocare una fase d’instabilità politica che potrebbe generare, secondo alcuni osservatori, un sistema autoritario. Come altre teorie del complotto, anche quella di Erdogan riflette la natura e la psicologia del personaggio piuttosto che la realtà. Ma è certamente vero che dietro gli eventi turchi degli ultimi tempi vi è una lotta di potere che è anche al tempo stesso una sorta di guerra civile musulmana fra le due maggiori famiglie dell’Islam turco. L’avversario di Erdogan è un ex imam, Fetullah Gülen che vive a parecchie migliaia di chilometri dalla Turchia, nelle montagne della Pennsylvania, ma è capo di un’organizzazione che ha un considerevole numero di fedeli collocati in alcuni settori strategici dello Stato turco: la polizia, l’ordine giudiziario, l’industria, l’educazione. Gülen ha aiutato Erdogan a vincere le elezioni del 2002 ma è oggi l’ombra che s’intravede dietro le manifestazioni di piazza Taksim, le intercettazione e le rivelazioni degli ultimi tempi. Di questo parlerò in un prossimo articolo.
(Continua—1)