Alessandro Accorsi, Europa 27/3/2014, 27 marzo 2014
CHI È ABDEL FATTAH AL SISI, PROSSIMO FARAONE D’EGITTO
Buona parte degli egiziani già da mesi chiama il feldmaresciallo al Sisi “presidente”, nonostante abbia annunciato solo oggi la propria candidatura alle prossime elezioni. E tra gli epiteti che gli sono stati affibbiati – “salvatore della patria”, “cuor di leone” e “l’uomo del destino” – “presidente” appare di sicuro come il più sobrio. Ma chi è questo taciturno e imprevedibile uomo dell’esercito capace di generare un culto della personalità come non si vedeva dai tempi di Nasser?
Abdel Fattah al Sisi nasce nel vecchio quartiere islamico del Cairo nel 1954, proprio mentre Nasser si assicura il potere esecutivo. Figlio di un commerciante molto religioso, il giovane Sisi si diploma all’Accademia militare nel 1977, un anno prima della firma degli accordi di Camp David che sanciranno la pace con Israele e il passaggio dell’Egitto dall’orbita filo-sovietica a quella americana.
Per Sisi, dunque, nessuna esperienza in combattimento, ma un periodo di studio negli Stati Uniti, nel 2006, che gli lascia in dono tanti contatti. Da capo dell’intelligence militare, manterrà un fitto dialogo con Washington prima, durante e dopo la rivoluzione, anche se sembra avere un’opinione abbastanza negativa dei propri ex-colleghi di college americani, imbevuti di “orientalismo” e alle prese con l’insuccesso iracheno.
Sarà forse anche per questa scarsa deferenza nei confronti dell’alleato nordamericano che negli ultimi mesi ha riavvicinato il proprio paese alla Russia di Putin. Nessun capovolgimento di fronte, quanto un giocare su due fronti con una amministrazione Obama che in Egitto ha sbagliato quasi tutto negli ultimi due anni.
Il periodo passato alla guida dell’intelligence militare – agenzia di spionaggio soprattutto interno che tasta l’umore delle varie fazioni delle forze armate – ha lasciato in eredità a Sisi la capacità di captare il cambiamento degli orientamenti politici e uno scaltro opportunismo. D’altronde, solo un anno fa era uno degli uomini più odiati nelle strade del Cairo. La sua nomina a capo del Consiglio supremo delle forze armate (Scaf) nell’agosto 2012 da parte di Morsi aveva alimentato ogni sorta di leggenda.
Di lui si diceva che fosse un islamista convinto, addirittura un membro segreto dei Fratelli musulmani infiltrato a capo dell’esercito. E anche la stessa Fratellanza era arrivata a convincersi, quantomeno, della sua affidabilità. D’altronde, erano stati proprio Morsi e Sisi a mantenere aperti i negoziati tra militari e Fratellanza nel periodo di governo dello Scaf.
Nei primi mesi di presidenza Morsi, Sisi sostenne a più riprese che le forze armate dovevano abituarsi alla coesistenza con un governo civile. Ma da chi arrivò a difendere pubblicamente gli infami “test della verginità” cui furono sottoposte dai militari delle attiviste il 9 marzo 2011, non ci si può aspettare altro se non fedeltà assoluta all’esercito. Pressato da ampie fazioni delle forze armate, industriali e uomini del vecchio regime, solo pochi mesi dopo fu probabilmente lui a dare l’ordine all’intelligence militare di negoziare un accordo con Tamarrod, il movimento popolare che stava organizzando le proteste del 30 giugno contro Morsi. Dopo aver chiesto al presidente di dimettersi, fu sempre lui a deporlo con un discorso televisivo il 3 luglio e a lanciare, il 26 luglio, la “guerra al terrorismo” che fece precipitare le violenze nel paese.
Ma perché, nonostante le mille voci su una sua imminente candidatura, Sisi ha aspettato mesi? Freddo calcolo politico o, piuttosto, dubbi sulla propria performance con i sondaggi in calo di settimana in settimana?
Sisi avrebbe forse preferito candidare qualcun altro mantenendo la propria posizione di “burattinaio capo” ed evitando che le prevedibili difficoltà di governo intaccassero la propria popolarità. D’altronde, ad un certo punto la sua candidatura è diventata inevitabile, anche se non è dato sapere se per sua stessa volontà o perché “costretto” da qualcun altro.
Così, è possibile che Sisi abbia voluto assicurarsi il sostegno praticamente obbligato di quei centri nevralgici del potere che conosce fin troppo bene, sfruttando la campagna popolare in suo favore per mettere alle strette i colleghi generali, specialmente quelli in pensione e a capo delle grandi industrie militari, che privatamente non spendono esattamente parole d’elogio nei suoi confronti. Ma allo stesso tempo, sanno che in questo momento l’esercito ha bisogno del personaggio Sisi, più che dell’uomo, e che non hanno altra scelta se non appoggiarlo.
La politica egiziana rimane un grande gioco di interessi convergenti degli uomini del vecchio regime, faccendieri, industriali e generali che stanno facendo prepotentemente e in maniera alquanto sfacciata il proprio ritorno. Sisi conosce bene le congiure di palazzo, essendo stato coinvolto in prima persona nella caduta di Mubarak, di Tantawi e di Morsi e sa che ha bisogno di loro, ma che deve tenerli a freno.
Ma con una situazione economica disastrosa, la minaccia jihadista sempre più reale, i Fratelli musulmani alienati dal dialogo politico e una tensione sociale – specie tra i lavoratori – addormentata forzatamente più che pacificata, sarà in grado di rimettere in piedi il paese appoggiandosi a quella stessa coalizione di interessi che l’ha portato al collasso?
Per quanto oggi gli egiziani siano pronti ad affidarsi “all’uomo del destino”, cambieranno velocemente idea se si dimostrerà inadeguato a governare e rispondere ai loro bisogni. Sisi lo sa, ma affonderà, eventualmente, con chi lo spinge alla presidenza o sarà pronto a cambiare idea ancora una volta per non essere fatto fuori?