Antobello Guerrera, la Repubblica 27/3/2014, 27 marzo 2014
GLI ANTI-ROTH
Perché continuo a scrivere? E allora perché non mi chiede per quale motivo continuo a RESPIRARE?». Dagli Stati Uniti, Lawrence Ferlinghetti, ultimo grande erede della Beat Generation, risponde stizzito, abrasivo. Chiedergli della sua radicale prolificità, nonostante l’età quasi secolare e una vivace esistenza, lo ha turbato. Tanto che il resto dell’intervista ha la sostanza di un secco telegramma. «Ha mai pensato “Ok, questo è il mio ultimo libro”?». «No». «Che differenza trova rispetto a quarant’anni fa?». «Nessuna». «Ha cambiato le sue abitudini con gli anni? Oggi quante ore scrive al giorno?». «Io scrivo nella mia testa 24 ore al giorno». «L’ispirazione è sempre la stessa?». «Sì». Stop.
Perché Ferlinghetti, autore del recente AConey Island of the Mind( Minimum Fax), è uno di quegli scrittori che non mollano mai. Quelli che la penna è il loro ultimo respiro. Come ha già detto anni fa, «non conosco scrittori e pittori in pensione. Perché sono come i soldati. Semplicemente svaniscono». Intanto, però, l’esausto Philip Roth a 80 anni ha rinunciato a «battagliare con la scrittura», come dice lui, per nuotare e ricevere ospiti nel weekend; per Günter Grass i romanzi sono oramai una fatica incalcolabile; e se un altro Nobel come Alice Munro si sente troppo fragile per i suoi morbidi racconti, tra un anno Ferlinghetti, alla smagliante età di 96 anni, pubblicherà i suoi diari di viaggio 1975–2013.
«Mi creda, non ho mai pensato alla scrittura come a qualcosa che possa stancare», racconta Andrea Camilleri, che ogni volta, a 88 anni, vende più di tutti in Italia, anche con l’ultimo Inseguendo un’ombra( Sellerio). «Smetterò di scrivere quando semplicemente non ci sarò più», continua il padre di Montalbano, «la
scrittura è la mia disciplina per stare al mondo, il mio vivere quotidiano. Solo la tecnica è diventata più facile grazie all’esercizio continuo, ma le storie restano ugualmentedifficilidascrivere.Ilmiorecente La crea-tura del desiderio( Skira)miècostatounafaticaterribile perché trattava temi come la gelosia di cui pensavo di essermi liberato con gli anni. Invece, è riemersa con una potenza devastante».
Camilleri ha mai pensato di smettere? «L’unica volta è stata con il secondo Montalbano, ma poi i lettori mi hanno chiesto di continuare. D’altronde, non sono mai stato bravo a impormi privazioni, come con il bere e le sigarette. Poi certo», continua, «intorno a uno scrittore di successo si muovono troppe macchine ingombranti: la promozione dei libri, le pressioni degli editori, le richieste continue della stampa. Lo capisco, Roth».
«Ma, un momento. Davvero Roth ha smesso di scrivere? », chiede sconvolto Derek Walcott, al telefono da Santa Lucia. «Non lo sapevo, mi spiace molto e sinceramente
non lo capisco», ammette il premio Nobel, che in una sua vecchia poesia ( Vulcano, 1976), auspicava l’addio alla scrittura per incarnarsi nel “lettore ideale”. «Ma questo non significa pensarlo», ammonisce Walcott, «e poi io continuerò a scrivere. Fino alla fine. Anche senza ispirazione — che è una cosa per giovani — e anche se oramai mi costa una fatica enorme». E cosa scriverà? «Sto lavorando a un’opera su uno dei miei pittori preferiti. Mi hanno detto che devo completarla entro la fine dell’anno. Chissà se ci riuscirò: ogni giorno, mi sveglio e faccio quel che posso». A che ora si sveglia? «Dipende. Un tempo all’alba. Credevo per scrivere, invece era per fumare. Perso questo vizio, mi alzo più tardi».
Walcott, Camilleri, Ferlinghetti, Toni Morrison, E. L. Doctorow, Boris Pahor, Raffaele La Capria, solo per citarne alcuni. Sono tanti gli scrittori ultra ottantenni che non mollano, neanche di fronte agli acciacchi o, a volte, alla malattia. Se Gabriel García Márquez è lentamente
“svanito”, come direbbe Ferlinghetti, per
cause di forza maggiore, il Nobel ungherese Imre Kertész, da tempo con gravi problemi di salute, nel 2010 ha annunciato il suo addio alla letteratura, per poi ritrattare. Nadine Gordimer, in una recente intervista a questo giornale, ha rivelato di avere un cancro. Ma anche lei non vuole mollare, almeno con i racconti.
C’è chi dice che gli scrittori hanno paura di rimanere soli, di essere accecati dalla pagina bianca, di rinunciare al giudizio del lettore. E poi ci sono i soldi, certo. In realtà, a discuterne con gli interessati, questi irriducibili lo fanno soprattutto perché una fila di caratteri, spazi e cancellature è l’unico orizzonte della loro vita. Lo scrittore americano James Salter di anni ne ha 88 e dopo trenta di astinenza ha deciso di risposare il romanzo con Tutto quel che è la vita( Guanda). Un’opera monumentale, secondo i suoi fan. «Nonostante l’età», ci racconta Salter tra una tappa e l’altra del suo brioso viaggio in Messico, «sono tornato al romanzo perché non riuscivo a scrivere di meno. La decisione di ripartire non è venuta all’improvviso. Ma pian piano
ha preso forma. Ed è diventata realtà. Non è stato più difficile di prima. È solo questione di abitudine. Ci vorrebbe un miracolo, ma non escludo un altro romanzo. Certo, in tal caso, sarebbe l’ultimo».
Di “ultimo”, invece, non vuole sentire parlare William Trevor, con John Banville il più grande scrittore irlandese vivente dopo la morte di Seamus Heaney. Ottantacinque anni (in Italia è pubblicato da Guanda), dalla sua casa inglese intona una voce marmorea ma fresca, intercalata da una sinfonia di «sono vecchio ». Di pensione, però, neanche a parlarne. «Non la vedo la fine. Non ci riesco. Continuerò a scrivere fino alla morte, perché è la cosa che so fare meglio, la più naturale. Sa, ora sto lavorando a dei nuovi racconti. E, mi creda, l’ispirazione viene come prima. Scrivere a questa età è più facile, perché hai più esperienza. Ma è anche molto più difficile», ammette Trevor. «Da vecchio, incidere ogni singola parola su carta è faticoso». Incidere? «Sì. Ho sempre usato la macchina da scrivere – il computer no, non ne sarei capace», spiega
Trevor. «Ma con l’età ho rivalutato molto l’uso della matita. Così, se sbaglio qualcosa, e mi capita sempre più spesso, posso cancellarlo con facilità».
Anche Walcott, ammette tutto fiero, si affida esclusivamente «alla nuda mano». Niente macchina da scrivere, troppo dura e meccanica. Camilleri, invece, apprezza la tecnologia: «Utilizzo il computer come una macchina da scrivere sofisticatissima», anzi, «mi sento un impiegato della scrittura. Mi sveglio presto di mattina e lavato, sbarbato e vestito di tutto punto mi siedo alla mia scrivania e scrivo quasi tutta la mattina. Sia che stia scrivendo un romanzo o una lettera a un amico immaginario, io scrivo». Curiosamente, anche Salter si definisce un «impiegato» che non accusa affatto la fatica. “Impiegati” di quasi novant’anni che non sanno cosa sia la pensione. Non a caso, diversi anni prima di morire, William Faulkner chiese un inequivocabile epitaffio sulla sua tomba: «Scrisse libri. Poi morì».