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 2014  marzo 24 Lunedì calendario

IL CAVALIERE NON RIESCE A INDICARE LA VIA E FORZA ITALIA LENTAMENTE SI CONSUMA


Chissà che direbbe di sé Silvio Berlusconi se dieci o venti anni fa avesse visto la Forza Italia di oggi. L’antico decisionismo (e centralismo democratico) si è tradotto in questi giorni in una fondamentale risoluzione: aspettare. Che cosa, però, non è chiaro. E il povero Denis Verdini - che è abituato a maneggiare il partito come un cruciverba, dove si riempie ogni casella oppure nulla torna - qualche giorno fa ha mollato la sede di San Lorenzo in Lucina per prendersi quattro giorni di ferie. Denis a riposo? Roba da matti. E lì dentro non ci si poteva credere, intanto perché le parole «Denis» e «vacanze» non sembravano conciliabili, e poi perché la scelta di salutare tutti per un week end lungo è stata, in FI, la più secca degli ultimi sei mesi. In realtà Verdini s’è scocciato perché da qualche giorno gli girava attorno Michela Vittoria Brambilla (a quarantasei anni in attesa di una bimba: complimenti e auguri) la quale vorrebbe una stanza e la vorrebbe così e cosà, e lui a un certo punto non ne aveva le tasche piene. Però in generale non è un buon momento. Della candidature alle Europee non si sa niente ed è vero che ci sono ancora tre settimane di tempo, ma il guaio non è l’assenza di nomi, bensì l’assenza di criterio. Come li vogliamo questi candidati? Giovani? Esperti? Esordienti? Portatori di voti? Biondi? Mori? Boh.
Del resto il nostro Verdini svolge l’incarico secondo il ruolo ricoperto nel Pdl ma che in Forza Italia non gli è mai stato confermato: nel partito nuovo (o vecchio, è uguale) non sono state stabilite gerarchie e incombenze. Il motivo? La solita decisione irrevocabile: non c’è fretta, mo’ vediamo. La baracca va avanti perché Sandro Bondi, per statuto, ha ereditato dalla Forza Italia che fu il titolo di amministratore nazionale, e dunque il potere di firma. Il bello è che Bondi sostiene di aver abbandonato la politica: si è ritirato in campagna a studiare, e ogni tanto arriva qualche scocciatore con pile di carte da firmare. Insomma, l’unico col pennacchio è l’unico che non lo vuole. E l’esercito, costituito di soli soldati semplici, è percorso da venti di anarchia e da volatili gruppi incapaci di evolvere dalla condizione di clan a quella di corrente. Siccome si dà sempre l’idea di montare il fumo con l’arte pigra del retroscena, ecco un po’ di scena, quella proposta ieri da Maurizio Bianconi, deputato di FI: «Berlusconi, capo carismatico, ha diritto di decidere. Ma non col metodo del detto e del non detto, col festival delle chiacchiere. Non è giusto lasciar morire tra singulti e tristi agonie il partito che, pur sua creatura, è parte di tutti noi».
Bianconi è semplicemente uno che ha preferito dire pubblicamente le cose dette in privato da tutti gli altri. Conversazioni piuttosto surreali in cui i pretendenti leader del centrodestra piangono sull’indecisionismo del capo supremo e, sinché lui non decide, loro non si decidono: «Parlerò più avanti». Ecco: si raccolgono chilogrammi di informazioni informali sulle fattucchiere del cerchio magico, sull’arrivo inconsistente di Giovanni Toti (a voi l’ultima di un ex ministro: «È un’altra Maria Rosaria Rossi, ma maschio»), sullo spossante andirivieni attorno alla candidature dei figli, all’uso del nome Berlusconi nel simbolo, all’ossessiva speranza riposta nell’arma segreta hitleriana, cioè un salvifico intervento europeo che restituirà all’ex Cav la pulizia della fedina penale e i diritti politici. Quando invece l’orizzonte più vicino è quello della detenzione domiciliare o forse dell’affidamento ai servizi sociali, mentre il partito diventerà una terra da scorrerie. Ci si aggrappa a Bianconi come a una zattera, qualcosa che finalmente galleggia sopra un mare di sussurri: «Un capo è un capo anche perché è tempestivo, lucido, preveggente, che sa scegliere quando gli altri sono invece incerti e confusi. Per porre fine a questa umiliante dissoluzione e a questa cascata di chiacchiere e pettegolezzi, dica Berlusconi che cosa intende fare». Il problema è che non è in grado di farlo, perché non lo sa neanche lui. Non sa come avvicinarsi alle Europee. Non sa che partito costruire. Non sa a chi metterlo in mano. Figuriamoci: non sa nemmeno se in Parlamento fa parte della maggioranza o della minoranza, visto che è all’opposizione del governo di Matteo Renzi ma non è può farlo cadere perché, insieme con Matteo Renzi, ha un patto esplicito per portare a casa la legge elettorale e le riforme istituzionali. Non sa niente di tutto questo, semplicemente perché non sa che domani lo aspetti, se sarà mai più un leader saldo, o invece un leader dimezzato, o addirittura un leader ai ceppi. Ed è prigioniero: dei suoi spettri.