Mario Deaglio, La Stampa 24/3/2014, 24 marzo 2014
IL TEATRINO DELL’ITALIA A BRUXELLES
Un’altra puntata di un «teatrino», che, a intervalli più o meno regolari, si svolge da circa tre anni: così può essere descritto il vertice della settimana scorsa tra Italia e Unione Europea. Un presidente del Consiglio italiano - che cambia troppo rapidamente - «sale» a Bruxelles, si reca in visita «ad limina» come un vescovo si reca in Vaticano: a presentare la realtà, i problemi e i programmi di politica economica del proprio governo e a ricevere consigli, correzioni e suggerimenti, approvazioni o note di biasimo più o meno cortesi e più o meno velate. L’Italia ha sicuramente fatto progressi, sta - più o meno - nei limiti prescritti, non può essere platealmente punita dal momento che da altri grandi Paesi membri si sono accettati in passato e si continuano ad accettare sforamenti ben maggiori.
Non si può certo dire, però, che il Paese sia un campione di osservanza delle regole economiche europee e questo gli deve essere ricordato ogni volta.
Ecco allora il «teatrino», che, da parte dell’Unione Europea, vede in scena un duetto. La prima voce, che la settimana scorsa ha assunto le cadenze suadenti di Herman van Rompuy, da cinque anni presidente del Consiglio Europeo, dice: brava Italia che hai messo in programma le riforme e ti proponi di approvarle rapidamente. Subito dopo, però, a far da contrappunto, ecco la voce severa di José Manuel Barroso, da dieci anni presidente della Commissione Europea: attenta Italia che devi rispettare scrupolosamente i vincoli di bilancio e non puoi permetterti un deficit superiore al 3 per cento. Altre volte il copione era all’inverso: brava Italia che stai nei limiti del deficit, attenta però che devi anche fare le riforme. In ogni caso, il contentino e la critica, né una piena assoluzione né una piena condanna.
Non assolvendo e non condannando mai, Bruxelles diventa una sfinge che non disdegna di esprimersi con sorrisini enigmatici e ammiccanti. I mezzi di informazione italiani amplificano a dismisura questi segnali e queste dichiarazioni, dividendosi in due categorie: secondo gli uni l’Europa ha detto sì al governo italiano secondo gli altri ha detto no. Forse bisognerebbe prendere atto che, di fatto, non ha detto (quasi) niente di concreto.
L’indecisione europea non riguarda solo l’Italia e non riguarda solo l’economia. Si tratta del malinconico finale di un periodo lungo e importante della storia dell’Unione Europea, che ha avuto i suoi aspetti positivi e che gli storici del futuro probabilmente classificheranno come «la stagione dei burocrati». I burocrati hanno volutamente scelto per l’Unione il colore grigio, l’andatura lenta e forse la loro scelta è stata oculata in un momento di allargamento e di forti suscettibilità dei Paesi maggiori. Hanno stemperato populismi ed egoismi nel formalismo delle procedure giornaliere. Hanno tessuto un lodevole (e noiosissimo) intreccio di norme e regolamenti tecnici che rappresentano, purtroppo, quasi l’unica spina dorsale dell’Europa di tutti i giorni ma che talvolta sembrano soffocare l’economia più che invitarla a crescere; hanno subito e non gestito la crisi economica mondiale, anche se qui la parte maggiore della colpa va sicuramente ai governi nazionali.
In ogni caso, i burocrati sono alla fine della corsa. Dopo dieci anni, di presidenza della Commission, Barroso scadrà tra pochi mesi ed è estremamente difficile che venga riconfermato per un terzo mandato. Anche Van Rompuy, ammirato per le sue doti di negoziatore ed efficiente veterano della politica del basso profilo, e la baronessa inglese Katherine Ashton, «ministro degli esteri» dell’Unione, spesso oggetto di critiche severe per la scarsa incisività della sua azione e per un profilo ancora più basso, avranno difficoltà ad essere riconfermati. Si prospetta un possibile mutamento generazionale, o, per usare un linguaggio «renziano», una «rottamazione» di una parte consistente della leadership di Bruxelles e Strasburgo.
Non è solo l’Italia a essere oggetto del «teatrino» europeo. Le ultime settimane hanno visto gravi indecisioni dell’Unione nell’affrontare la questione dell’Ucraina. Spiazzati come gli americani, gli europei si sono trovati tra l’impossibilità di decretare sanzioni serie ai russi - i quali, con i gasdotti, gli oleodotti e le ingenti commesse alle imprese europee, hanno le mani sulla vena giugulare dell’Europa - e l’impossibilità di non decretarle. Hanno quindi deciso di applicare ai russi delle «non sanzioni» che non possono soddisfare gli americani e sicuramente irritano i russi.
Il malessere italiano nei rapporti con l’Unione Europea si configura quindi come indizio di un più vasto malessere dell’Unione stessa le cui cause vanno ricercate più a Bruxelles e a Parigi (la Francia è probabilmente il vero malato d’Europa) che a Roma. Se ne deve dedurre che, per modificare il rapporto tra l’Italia e l’Europa, non è sufficiente che cambi l’Italia ma è anche necessario che cambi l’Europa. E l’Europa quasi certamente cambierà con le elezioni del 25 maggio: si potrà vedere allora se, oltre a cancellare il potere dei burocrati, gli elettori europei saranno capaci di sostituirvi un altro potere, più flessibile e più vicino agli interessi delle persone e delle imprese oppure se, al contrario, correranno il rischio di cancellare l’Europa, buttando via il bambino insieme con l’acqua sporca.