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 2014  marzo 27 Giovedì calendario

UN SECOLO NELLA MORSA DELLE TIGRI DI FANGO

Agli storici è abbastanza facile, ma con parecchie riserve, dopo cent’anni considerare la Grande guerra finita. Di regola, la si fa riprendere e terminare nel 1945. La guerra intereuropea, con l’eccezione non da poco della Jugoslavia, è certamente finita allora. A poco a poco l’Europa occidentale ha rinunciato alle leve militari e ammesso l’obiezione di coscienza anche in caso di conflitto, ormai ritenuto impensabile. Crolla l’Urss e si smontano anche le difese missilistiche americane. La pace tra i due implacabili galli da combattimento del 1914, Francia e Germania, è totalmente, oggi, priva di ombre. Di fatto, l’Europa in cui mi trovo a umbratilmente vivere e scrivere è un semicontinente vagante, senza frontiere e senza difese d’insieme, aperto alle invasioni dal Mediterraneo e dalle regioni orientali, che gode delle leggi più miti e più tolleranti del mondo. Si può dire, con Giovenale, che tra i moltissimi mali e malesseri che soffriamo c’è, in coda ma non è l’ultimo, quello di una troppo lunga pace?
D’altra parte le guerre non s’inventano. Nei miei vagabondaggi tra Belle Époque e 1914, ho trovato questo, nel paragone con gli anni più recenti: la scomparsa, nei Paesi (non ci sono più le patrie) più ricchi e progrediti, della forza maschile. Si stenta a ritrovarla perché non la si è mai pensata: c’era e nessuno ci badava, non c’è più e nessuno ne ha nostalgia. Ma la tradizione cinese insegna che la perdita di Yang, il principio mascolino, è tanto fatale a un mondo quanto la perdita di Yin, l’ewig weibliche , il principio femminile. La guerra del Quattordici è stata, per la mascolinità archetipica espressa nel concreto umano, spremendo tutto il possibile della realtà uomo nel fiore degli anni, una mostruosa macchina distruggitrice. Nel contempo ne è stata il trionfo, l’apoteosi, la sommità attraverso la servitù, l’avvilimento continuo militare. Ufficialmente, l’emblematica battaglia di Verdun, con la caduta del forte di Vaux, termina a metà dicembre 1916. Ma i combattimenti in alcuni settori proseguirono per quasi un anno ancora.
In un libro (Verdun , 1980) Georges Blond dà questa immagine di combattenti dell’inverno 1917: «Il termometro scese a meno venti, gli uomini divennero statue di fango ghiacciato quasi disanimate, coabitanti con cadaveri congelati, e i chirurghi militari amputarono senza numero piedi e mani, braccia e gambe ghiacciate, cancrenose, incurabili. E poi ricominciarono le piogge che liquefecero il carnaio, e l’estate, la mosche, il fetore atroce, e di nuovo le piogge, il freddo, fino alle lacrime». Il pellegrinaggio ai Luoghi della battaglia, franco-tedesco, europeo e americano, è di mezzo milione di persone ogni anno. Credo che in questo 2014 sorpasseranno il milione. Perdura, nell’inconscio collettivo, il lutto per la mascolinità perduta, nello strazio dei corpi e negli eccidi di anime viventi, che non furono dei Dna di laboratorio.
Perdura. Qualcosa è cambiato, nella specie umana più cittadinizzata, da quando quei pupazzi di fango ghiacciato sofferenti hanno ripreso a muoversi e hanno procreato discendenti.
E la «guerra di materiali» ha generato materia, né poteva altrimenti. Grandi, indicibili riserve di idealismo superiore e di spiritualità (anche di pensiero nichilistico, novità postcristiana) esistevano intatte prima che si spalancasse l’abisso del Quattordici. Il ventre malato della trincea ha inghiottito tutto. Vedo simulacri dell’autentico principio mascolino nelle abbominazioni nazionalsocialiste e della rivoluzione bolscevica; simulacri e degenerazioni epigonali, parti di mostri, a catena. Per una giusta definizione di una guerra di materiali di tali proporzioni bisogna vederla come madre di tutte le guerre successive dal pianeta, anche la minime, le terroristiche, le fredde, le interminabili del secolo XX come in quello che si sta sgranando adesso, gravido di nuove tempeste. Tutto era là nell’uovo…
I materiali si sono riprodotti all’infinito, la mascolinità spirituale (l’ewig männlich del romanzo di Frank Thiess, Tsushima) è stata riassorbita dal cosmo di luce che le è proprio.
Su tutti i fronti, uomini furono costretti a commettere crimini di sangue, come obbedendo all’ingiunzione di Krishna ad Argiuna nella Bhagavad-Gita: «Va’ e combatti», e l’umanità dell’uomo ne uscì disfatta. Eppure versi di umanità altissima e di fraternità nella sofferenza, come i poemi di guerra di Wilfred Owen, nessun’altra guerra, dopo, li ha suscitati...
E canzoni! A centinaia, in tutte le lingue... La canzone diceva la protesta dagli offesi («Oh Gorizia tu sei maledetta», «La chanson de Craonne»), la rassegnazione, l’ironia, la nostalgia («Tipperary, Oh it’s a lovely war»), i treni dei condannati («La Tradotta»), la vittoria («La Madelon de la Victoire»). Nato nel 1939 come da una suggestione telegrafica della vigilia del Quattordici, ha volato adattandosi a tutte le lingue il motivo tutt’altro che militaresco di Lili Marleen, che Marlene Dietrich elargì in inglese alle truppe americane dalla Normandia al Pacifico.
L’ultima guerra che ha cantato è stata la Civile di Spagna. Ma il reimbarco americano dal Vietnam è muto; le guerre balcaniche di fine secolo sono mute. Ancora, nel 1962, la voce di Edith Piaf col suo irresistibile Je ne regrette rien accompagna la sconfitta dall’Algeria francese. Senza catarsi musicale qualsiasi guerra, vinta o persa, è una guerra perduta. Ma la macchina fotografica Kilian dov’è finita? E il suo potere magico di mostrare evocandoli gli stuoli dei caduti in guerra? Era, credo, quella che fotografava gli ectoplasmi disgustosi delle sedute medianiche; ma quei soldati fatti pallide ombre provano la sopravvivenza breve del corpo eterico, caro alle dottrine teosofiche fiorenti nella Belle Époque.
Per una definizione di quella guerra-madre che mi soddisfi, quantunque possa suonare ingratissima, devo ricorrere necessitato a un termine teologico: è stata una guerra escatologica – da éschatos , ultimo, estremo; ma il greco classico non lo conosce, perché si riferisce alla visione ciclica del Tempo.
L’escatologia riferendosi al tempo lineare, col quale computiamo la storia e ragioniamo malamente in tutto, non significa che la Grande guerra sia stata l’Ultima, al contrario. È stata la prima di una miriade di guerre piccole e grandi che culminano nella fine di ogni storia possibile. Detto secondo il cannocchiale classico, la prima delle guerre escatologiche ha svegliato Némesi la vendicatrice e le guerre ultime ne sono il castigo. A tanto male fatto agli esseri umani non poteva toccare soltanto una punizione da trattati del 1919, ma qualcosa d’incalcolabile, e già ne fu l’annuncio l’epidemia di spagnola.
E ne fu Némesi non saziata la mondiale bis del ’39, con le sue stragi di civili e città, le sue paranoie razziste criminali. La colombetta bianca di Picasso, radiografata, rivela una proliferazione di orrori all’Est, gulag e forche messe in fila, popoli schiavi e crocifissi. È vero che prospera il traffico mondiale delle banane, ma il commercio delle armi e dell’uranio da bombe attira molto di più il babeloide inebetimento umano. L’esibizione di armi nelle parate non ha finito più di annoiarci e viene tuttora utilizzata come minaccia. L’uso e il far scorte di gas tossici durano da quando per la prima volta, nel 1915, le prime bombe al cloro colpirono, con precisione tedesca, le linee britanniche.
Tant’è buona la pace che nessuno se ne fida, se non all’ombra di tremendi arsenali. Le grandi battaglie della storia sono finite ed ecco affacciarsi scenari da Guerra dei mondi, impensati perfino nelle pessimistiche visioni di Wells: Marte si è messo a generare droni, che annunciano guerre e terrorismi talmente facili da far sorgere presagi di hobbesiane guerre di tutti contro tutti, e l’uomo si è arreso al potere delle Tenebre, non ha più forza, gliel’ha disintegrata la trincea, tigre di fango, dal mar del Nord alle Dolomiti.