26 marzo 2014
APPUNTI PER GAZZETTA - LA FIDUCIA DEL SENATO SUL DISEGNO DI LEGGE CHE ABROGA LE PROVINCE
REPUBBLICA.IT
Giornata politica ad alta tensione. Il governo va avanti sulla riforma delle province e mette la fiducia sul testo approvato alla Camera e presentato in Senato: l’esecutivo incassa la fiducia sul maxiemendamento al Ddl Delrio che recepisce le modifiche apportate al testo dalla commissione Affari Costituzionali e le osservazioni della commissione Bilancio. Il ddl, che ora torna alla Camera, passa con 160 «sì», 133 «no».
È stata il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi ad annunciare poco prima delle 11.30, tra le polemiche e le proteste dell’opposizione, l’intenzione di mettere il voto di fiducia sul ddl Delrio. «Teniamo conto inoltre - ha aggiunto il ministro - dei pareri espressi questa mattina dalla commissione Bilancio». La seduta è stata sospesa, tra le polemiche e le proteste dell’opposizione, per consentire la riunione della Conferenza dei capigruppo per definire i tempi di voto. Ecco la tabella di marcia: dichiarazioni di voto a partire dalle 17.30 e voto finale alle 19. Ma sul voto che dovrebbe portare al riordino delle province, pende la relazione tecnica della Ragioneria generale dello Stato, attesa al Senato e indispensabile per andare avanti nelle votazioni del pomeriggio. «Il dibattito dovrebbe cominciare alle 15, a patto che nel frattempo arrivi la relazione - ha spiegato la presidente dei senatori di Sel, Loredana De Petris -.Se alle 15 la relazione non è pronta, e penso proprio che non si farà in tempo, verrà’ riconvocata la capigruppo per stabilire cosa fare. Comunque quello che sta avvenendo è surreale: prima votiamo le norme transitorie e poi, non si sa come e quando, faremo il provvedimento-madre».
Il premier in Calabria
Il Consiglio dei Ministri aveva già comunicato in mattinata in una nota palazzo Chigi di aver deliberato il proprio assenso a «porre la questione di fiducia sul disegno di legge recante disposizioni sulle Città metropolitane, sulle Province, sulle unioni e fusioni di Comuni, all’esame del Senato». Il Consiglio dei Ministri si è riunito a Palazzo Chigi alle 8.00, sotto la presidenza del Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Giuliano Poletti, in assenza del Presidente del Consiglio dei Ministri, Matteo Renzi, in visita all’Istituto comprensivo Statale «Gregorio Caloprese» di Scalea (Cosenza). Segretario, il Sottosegretario di Stato alla Presidenza, Graziano Delrio. Un primo passo in vista delle possibili difficoltà che il ddl potrebbe trovare nel suo iter a Palazzo Madama, dove mercoledì c’è il voto decisivo.
Il tweet di Renzi
La tensione nella maggioranza è alta. «Oggi giornata importante per le Province e riunione chiave stasera su Senato e regioni. Stamani nelle scuole, destinazione Calabria, Scalea». Nella giornata del voto a Palazzo Madama sul disegno di legge che riforma le Province, il premier è tornato, di prima mattina, a farsi sentire con un tweet. Già mercoledì aveva sottolineato l’importanza del passaggio in Aula di questo ddl. Sempre con un tweet. «Domani (oggi, ndr ) passa la nostra proposta sulle Province 3.000 politici smetteranno di ricevere un’indennità dagli italiani». Dalla Calabria il presidente del Consiglio ha parlato della riforma delle province, in risposta al richiamo del Capo dello Stato Napolitano per «frenare» la spending review: «Condivido pienamente il pensiero di Napoiltano - ha detto Renzi -. Noi sappiamo che ci sono tante amministrazioni provinciali che fanno bene il proprio lavoro, ma è arrivato il momento di dare un messaggio chiaro e netto». Il premier ha poi aggiunto che è arrivato il momento di «tornare a dare una speranza al paese». «La riduzione dei costi, e aggiungo dei posti, della politica è la premessa» per la restituzione dei soldi nelle buste paga dei cittadini
La giornata di martedì
Martedì il governo è andato in minoranza due volte sul provvedimento in commissione, e in maggioranza ci sono tensioni. Secondo le nuove norme, le province perdono quasi tutte le competenze operative a beneficio delle nuove città metropolitane e delle unioni di comuni e, soprattutto, i relativi organi saranno eletti soltanto dai sindaci e consiglieri comunali del relativo territorio tra di loro. L’obiettivo dell’esecutivo di Matteo Renzi è quello di far approvare la legge in tempi rapidissimi, per evitare che all’election day del 25 maggio, quando si voterà per il Parlamento europeo e per il rinnovo delle amministrazioni di oltre 4.000 comuni (tra cui Firenze), gli elettori ricevano al seggio anche le schede per le province (in palio ce ne sarebbero oltre 50).
PEZZI DEL CORRIERE DI OGGI
DINO MARTIRANO
ROMA — Il disegno di legge Delrio — che proroga i presidenti-commissari in 73 Province italiane, dal 30 giugno al 31 dicembre 2014, evitando così nuove elezioni a maggio — fa scricchiolare paurosamente la maggioranza del governo Renzi. Ieri, al Senato, la pregiudiziale di costituzionalità presentata dal M5S è stata respinta dall’Aula per soli 4 voti (115 sì, 112 no, un astenuto). L’aritmetica, dunque, attesta che il governo è stato salvato in corner dai centristi Pier Ferdinando Casini e Paola Merloni per nulla convinti di seguire la rivolta del gruppo guidata da Mario Mauro e da un drappello di fedelissimi dei popolari Per l’Italia. Se anche quei due voti centristi fossero andati a rimpolpare il fronte delle opposizioni, il ddl Delrio oggi varrebbe meno di zero. E il presidente del Consiglio non potrebbe twittare — con un pizzico di ottimismo, visto che questa legge ordinaria non cancella le Province — che se «domani (oggi, ndr ) passa la nostra proposta sulle Province 3.000 politici smetteranno di ricevere un’indennità dagli italiani». Ma è pure vero che il governo è ancora in sella grazie anche ai 17 senatori di Forza Italia che non hanno partecipato al voto: se fossero stati in Aula, come testimonia un sms risentito del capogruppo Paolo Romani, si sarebbe colta «una occasione» per umiliare il governo Renzi.
Il voto a rischio (assenti giustificati, tra gli altri, i ministri-senatori Giannini e Pinotti, i sottosegretari-senatori Della Vedova e Cassano) aveva registrato un’avvisaglia in I commissione (Affari costituzionali) dove la maggioranza ha un solo voto di vantaggio. Bene, quel voto è venuto meno per due volte grazie all’assenza deliberata dell’ex ministro della Difesa Mario Mauro che ha fatto mancare il suo appoggio a causa di un’altra partita: la soglia di accesso alle elezioni europee troppo alte e non modificate dal testo sulle quote rosa. Il risultato, così, è stato poco lusinghiero per la maggioranza anche perché ai maldipancia dei popolari si sono aggiunti quelli del Ncd. E così il governo è andato sotto due volte: sull’emendamento De Petris (Sel) che restituisce alle Province la competenza sull’edilizia scolastica e sulla proposta del relatore Francesco Russo (Pd) di porre un tetto alle retribuzioni dei presidenti delle Province.
Oggi si torna in Aula con la quasi certezza che il governo porrà la questione di fiducia per non correre rischi davanti ai 3 mila emendamenti. In questo caso, si voterebbe entro stasera per poi rispedire di corsa il ddl Delrio alla Camera che dovrà approvarlo entro e non oltre il 7 aprile: altrimenti, è la tesi del governo, si rischia di votare a maggio per le Province che invece tutti (a parole) vogliono abolire. L’atto di cancellazione delle Province sarà, infatti, di rango costituzionale: stamattina al Senato verrà votata l’urgenza per il ddl Crimi (M5S) che cancella la parola Province dalla Costituzione. Già il governo Monti ci provò a farle fuori con il decreto «salva Italia» ma la Consulta azzerò il provvedimento; Letta, con la legge di Stabilità 2013 ha prorogato i commissari-presidenti fino al 30 giugno; Renzi tira la palla in avanti fino al 31 dicembre. Ma fin quando non verrà approvato un ddl costituzionale le Province non saranno azzerate .
Dino Martirano
MARIA TERESA MELI
ROMA — «Tranquilli, porteremo a casa il risultato, voglio vedere chi si potrà vantare di aver lasciato sulle spalle degli italiani i costi delle Province e del Senato. Siccome sono voti che avverranno a Palazzo Madama, a volto scoperto, ognuno dovrà metterci la faccia e prendersi le sue responsabilità»: è il Matteo Renzi di sempre quello che affronta la prova — difficile — dell’Aula per il disegno di legge Delrio.
Il Renzi che non accetta gli altolà di «chi vuole la conservazione, di chi mira a mantenere lo status quo». Spiega il presidente del Consiglio, reduce da incontri su incontri, innumerevoli colloqui, riunioni a porte chiuse con Luca Lotti e Graziano Delrio: «È fisiologico che quando tocchi interessi — e che interessi — la palude opponga resistenza. Non si può pensare che tagli tremila stipendi della politica e tutti applaudano». Le reazioni sono ovvie, secondo il premier, ma anche le sue contromosse: «Noi siamo determinati ad andare avanti. Del resto, anche nelle scorse settimane gli uccellacci del malaugurio pensavano che non ce l’avremmo fatta, che avremmo fallito, e, puntualmente, abbiamo portato a casa la riforma elettorale».
Il premier ha tutte le intenzioni di andare avanti, usando l’arma della fiducia. Al primo provvedimento su cui aveva debuttato il suo governo, il cosiddetto «salva Roma», non aveva voluto utilizzarla, perché sarebbe stata un sorta di pessimo biglietto da visita per l’esordio dell’esecutivo, ma adesso si rende conto che può essere l’unico strumento per forzare le resistenze e per nuotare controcorrente «nella palude stagnante di chi non vorrebbe cambiare niente, ma proprio niente».
Dunque è il Renzi di sempre quello che affronta questa ennesima prova e si prepara alle prossime. La riforma del Senato, innanzitutto, dove gli mancherà la sponda dell’intera Forza Italia e anche di una parte dei suoi alleati. Dentro FI c’è chi è contrario, ma pure nel Nuovo centrodestra e nelle fila degli altri alleati. Il che fa fibrillare il fragile patto che si era costruito all’interno del Pd. Stasera il presidente del Consiglio saggerà la compattezza dei suoi gruppi, perché non vuole scherzetti o manovre sotterranee. Per dirla con lui: «Chiunque si esprima come vuole, ma a viso aperto, sapendo che poi si decide a maggioranza».
Le insidie, però, non sono finite qui. Già ci sono i bersaniani che si preparano a mettere i bastoni tra le ruote all’Italicum. Spiegava ieri Andrea Giorgis, deputato fedelissimo dell’ex segretario, ad alcuni compagni di corrente: «Questa riforma, visto il risultato delle Amministrative in Francia, ormai non va più bene. Vedrete che Grillo rischia di essere il secondo partito e allora l’Italicum è da rifare, meglio che resti al Senato e non vada avanti». Un altro bersaniano, Davide Zoggia, ieri confidava a un amico: «Dopo la decisione del Tribunale di sorveglianza di Milano su Berlusconi, noi rischiamo di non avere più un interlocutore, e allora come faremo con l’Italicum, la revisione del Titolo V della Costituzione e la riforma del Senato?».
Interrogativi e dubbi che i parlamentari del Pd si pongono, tra Montecitorio e Palazzo Madama. Persino la minoranza più dialogante, quella dei «giovani turchi», appare perplessa. Spiega Matteo Orfini: «Renzi, come al suo solito, procede a strappi, ma non si può fare sempre così. Prendiamo il decreto sul lavoro: noi non possiamo votarlo. Deve mettere la fiducia per farci dire di sì, oppure se lo vota con Forza Italia, ma gli conviene far passare un provvedimento con FI?».
C’è fermento. E subbuglio. In Parlamento, ma anche nel partito, il che, influisce, inevitabilmente, sulle mosse dei deputati e dei senatori del Pd. La parola, ancora una volta, a Orfini, uno che ama parlar chiaro: «La gestione unitaria del partito? Renzi se la dimentica se in direzione, venerdì, intende ratificare solo le nomine di Guerini e Serracchiani». E il capannello attorno a lui annuisce e aggiunge all’unisono: «E poi non si lamenti se tutto ciò avrà ripercussioni in Parlamento».
Ma chi conosce Renzi sa che il segretario continuerà a procedere come sa: a «strappi» per «non sprofondare nella palude». Ed è pronto ad accettare scommesse: l’«acqua stagnante» della conservazione non lo «fermerà» .
Maria Teresa Meli