Marco De Martino, Vanity Fair 26/3/2014, 26 marzo 2014
«KURT, NON FARE COSI’»
ABERDEEN,
STATO DI WASHINGTON SE FOSSE ANDATA DIVERSAMENTE, oggi Kurt Cobain avrebbe 47 anni. È il 20 febbraio e sul cartello all’ingresso della città dove è cresciuto, Aberdeen, accanto alla scritta «Come as you are» qualcuno ha messo un palloncino. Più tardi, al museo, ci sarà una festa di compleanno improvvisata dal sindaco di questa città che ancora non sa bene cosa farsene di uno come Kurt. Verrà svelata una statua sotto alla scritta dell’azienda che ha fornito il materiale: resurrezione-nel-cemento-punto-com. Kurt Cobain è un Gesù hippie che suona la chitarra, sulla sua guancia scende una lacrima, e mi chiedo se Krist Novoselic, bassista dei Nirvana e suo migliore amico, manterrà fede alla promessa che aveva fatto anni fa di prendere a picconate qualsiasi statua venisse fatta ai Nirvana. Il sindaco ha anche fatto stampare T-shirt con una dichiarazione antidroga che Kurt fece a Rolling Stone all’apice del suo periodo da eroinomane. Aaron Burckhard, uno dei tanti batteristi
dei Nirvana prima di Dave Grohi, bofonchia qualcosa per meno di un minuto. Una cover band suona heavy metal. A un certo punto tutti cantano Happy Birthday.
Papà Don portava Kurt ad aiutarlo a contare i tronchi ma Aberdeen oggi è una città di taglialegna senza lavoro perché far arrivare alberi tagliati in Asia è più economico. La disoccupazione è la più alta di tutto lo Stato, l’eroina diffusissima, e a scuola insegnano come riconoscere se i tuoi genitori preparano in cucina metanfetamina, come in Breaking Bad. Ancora adesso Aberdeen è una città da cui vuoi scappare, come quando ci abitava Kurt.
La casa della sua infanzia è stata messa in vendita da mamma Wendy, che ora abita a Los Angeles: dopo sei mesi è ancora in cerca di un acquirente disposto a pagare 500 mila dollari, dieci volte le case accanto. Ragazzi arrivati dalla California con i genitori si fanno foto sul marciapiede dove Kurt bambino marciava cantando a squarciagola Hey Jude mentre suonava il tamburo di Topolino che gli aveva dato la zia Mari. Dentro, sul muro della sua camera da letto, c’è ancora scritto: Iron Maiden, Led Zeppelin. È stata cancellata invece la frase che scrisse a 7 anni, quando la sua vita cambiò: «Odio la mamma, odio il papà. Il papà odia la mamma, la mamma odia il papà. Ti fa solo venire voglia di essere triste».
Quando i suoi genitori si separarono, Kurt visse per un po’ con il padre, che nel frattempo si risposò ed ebbe un altro figlio. Don Cobain picchiava spesso Kurt e cercò in tutti i modi di cambiarlo. Lo fece giocare a baseball, e lui per dispetto si faceva eliminare subito. Lo iscrisse a lotta libera: Kurt restava immobile mentre gli avversari lo sbattevano a terra. Se ne andò quando il figlio aveva 15 anni. La madre, con cui Kurt aveva il rapporto più forte, intanto era precipitata nell’alcolismo: nei quattro anni successivi il futuro cantante dei Nirvana visse in dieci case diverse.
Alla cerimonia ad Aberdeen incontro Lamont Schillinger, un insegnante di inglese che ospitò per un anno Kurt assieme ai suoi sei figli: «Kurt dormiva sul divano in salotto, ma ricordo che a turno preparava la tavola, lavava i piatti: voleva fare parte della famiglia». Le sembrava triste? «Talvolta, ma aveva ragione di esserlo: ho ospitato altri ragazzi in difficoltà, ma Kurt è stato l’unico i cui genitori non hanno mai chiamato, neppure una volta, per sapere come stava o se aveva bisogno di soldi». Lamont si interrompe, cerca nel vassoio dove c’erano i biscotti con la faccia di Kurt: «Sono finiti, peccato, volevo portarne uno a mia moglie».
«Kurt era un disegnatore nato, capace di fare caricature senza avere davanti nessun modello: mi ricordo un suo Michael Jackson, e un Ronald Reagan che teneva in mano un piccolo Ronald Reagan», ricorda Bob Hunter, l’insegnante d’arte di Kurt al liceo. «Faceva queste opere bellissime e poi le dimenticava dappertutto, perché aveva la testa tra le nuvole. Tra un quadro e l’altro disegnava in continuazione Puffi, li amava tantissimo».
Alla Weatherwax High School Kurt girava con i pothead, i ragazzi che si fanno le canne, ma era soprattutto isolato e antisociale. Si sentiva diverso, ma nel corso d’arte le cose andavano un po’ meglio. Hunter teneva la radio accesa: «Se suonavano una canzone che non gli piaceva alzava gli occhi al cielo e faceva ridere tutti con una battuta. Talvolta arrivava in classe fatto di erba e io gli dicevo che sbagliava, e lui mi dava ragione. Peccato che sia andata così: col talento che aveva avrebbe potuto fare tutto, anche diventare un pittore».
Se fosse andata diversamente, Faith Smith probabilmente dieci anni fa non avrebbe lasciato Denver per trasferirsi dove ha vissuto Kurt. Faith non è una giovane fan: ha 66 anni. «Kurt era già morto quando ho visto per la prima volta i Nirvana cantare Heart-Shaped Box alla televisione: è stata ossessione istantanea, e ho cominciato a visitare Aberdeen per essere vicina ai luoghi della sua vita», mi dice. «Mi sono trasferita quando ho trovato lavoro nell’ospedale dove Kurt ogni tanto dormiva, e la mia ossessione si è attenuata quando sono diventata amica di suo nonno, Leland Cobain, che mi raccontava le storie della sua infanzia. Kurt è il figlio che non ho mai avuto. Mi sento più vicina a lui quando sono giù di morale».
Mentre parliamo, la cover band attacca Heart-Shaped Box. Faith si scusa, trattenendo le lacrime, e corre fuori dal museo.
OLYMPIA, STATO DI WASHINGTON
COSTAS DEYLANI DA RAGAZZO frequentava l’Evergreen State College a Olympia, dove Kurt si trasferì nel 1987. Ad Aberdeen era difficile persino trovare un disco dei Sex Pistols, di cui Kurt era diventato fan senza averli mai sentiti: immaginava il suono della loro musica guardando le loro foto sul giornale Creem e cercava di riprodurlo nelle prime prove dei Nirvana, sopra al negozio da parrucchiere della mamma di Krist Novoselic. Ma a Olympia tutto era diverso: si poteva anche fare un documentario sul proprio coming out gay, come faceva Costas, che divenne uno dei migliori amici di Kurt.
Pochi anni prima, sua mamma aveva proibito a Kurt di continuare a frequentare un altro amico gay dichiarato. Forse per reazione, nel suo periodo da graffitaro il cantante dei Nirvana era anche finito in galera per avere scritto su un muro di Aberdeen «Dio è gay» e «Il sesso omo è bello». Quando era già famoso, Kurt volle apparire sulla copertina del settimanale gay The Advocate. A un certo punto, pensò anche di essere gay. «Non credo che Kurt abbia mai fatto sesso con un uomo: la sua apertura ai gay in un momento in cui anche il rock era molto omofobo era solo uno dei tanti modi che aveva per esprimere la propria diversità», mi dice Deylani. «Una sera bevevamo birra, lui parlava serio della mia sperimentazione sessuale e io gli ho detto: “Sai una cosa Kurt? Siamo tutti gay, everyone is gay”. Qualche anno dopo quella frase sarebbe comparsa nella canzone All Apologies».
In quel periodo Kurt scrisse anche About A Girl, dedicata a Tracy Marander, il suo primo vero amore. Oggi Tracy ha smesso di parlare con i giornalisti, ma l’altro giorno su Twitter ha scritto che Kurt le manca come se fosse un vecchio amico. «Kurt e Tracy erano dolcissimi insieme, e Kurt la chiamava sempre, ovunque si trovasse. Ha continuato farlo anche quando si era messo con Courtney Love», racconta Alice Wheeler, una fotografa amica di Kurt e Tracy che fece la prima foto ufficiale ai Nirvana. «Kurt aveva molte amiche donne, e anche in questo era un’eccezione: ora ci siamo scordati quanto misogino fosse allora il mondo del rock, in particolare l’heavy metal».
Tracy aveva un lavoro stabile e prima di uscire la mattina lasciava a Kurt, che a parte alcuni lavoretti saltuari stava in casa a dipingere e scrivere musica, lunghe note di compiti casalinghi: «Kurt, scopa in cucina, butta la spazzatura, lava i piatti, passa l’aspirapolvere in sala. Ti prego ti prego ti prego». Lui talvolta rispondeva, laconico: «Se metti la sveglia alle 11 faccio i piatti, va bene?». C’era sempre da pulire perché con loro vivevano cinque gatti, quattro ratti, due conigli, un pappagallo e le tartarughine, che erano l’animale prediletto da Kurt. Una sera, tra gli ospiti di quella casa felice e caotica, comparve Bruce Pavitt, fondatore della casa discografica Sub Pop (quella che scoprì i Nirvana), passato alla storia come l’inventore del grunge: venne morso da uno dei ratti.
SEATTLE,
LINDA’S TAVERN
L’ULTIMA VOLTA CHE Kurt Cobain è stato visto vivo era in questo bar di Capitol Hill, il quartiere di Seattle dove ora vive l’ultimo fenomeno musicale creato da questa città, il rapper Macklemore. Linda’s Tavern stasera festeggia i vent’anni dall’apertura. È qui che gli amici di Kurt si barricarono per proteggersi dai giornalisti che volevano dichiarazioni su Cobain dopo la sua morte. Ed è qui che Bruce Pavitt stasera fa il dj, dopo avermi spiegato come ha creato l’ultima vera rivoluzione della musica rock: «Quello che stava accadendo era sotto gli occhi di tutti. C’erano attorno a Seattle molte band di ragazzi bianchi che venivano da famiglie proletarie, spesso sfasciate. Erano alternativi ma non elitari come i punk, e avevano un sound diverso da quello che veniva da New York o Los Angeles. Era una rivoluzione sociale».
Un po’ di marketing però l’avete fatto, no? «Certo. Siccome gli inglesi sono i più bravi a creare fenomeni musicali, abbiamo invitato un giornalista di Melody Maker a sentire i Nirvana. E il primo singolo Love Buzz, una cover della band danese Shocking Blue, lo abbiamo stampato in tiratura limitata. Ma il resto lo ha fatto Kurt. Mi sentivo molto protettivo nei suoi confronti, perché era allo stesso tempo troppo fragile e troppo coraggioso: un genio assoluto».
«Kurt è l’ultima grande rockstar che abbiamo avuto, quella che ci ha traghettato nel mondo che abitiamo ora», mi dice Charles Cross, biografo di Kurt Cobain che ora ha pubblicato un nuovo libro su di lui dal titolo Here We Are Now: The Lasting Impact Of Kurt Cobain: «Faceva musica quando c’era ancora il vinile, ma è stato il primo a essere ricordato nelle chat online, ha reso l’underground un fenomeno di massa in un momento in cui farlo era un’impresa titanica. In fondo, la sua opera è un riflesso della sua personalità: sapeva a malapena allacciarsi le scarpe ma era un genio del marketing, diceva di non occuparsi della carriera ma ne pianificava ogni aspetto, voleva diventare una rockstar ma odiava il successo».
LOS ANGELES,
NORTH SPAULDING AVENUE
GUARDO LA CASA dove si era nascosto mentre tutti lo volevano: all’ingresso c’è una bici da bambino con le rotelle, dall’altra parte della strada stanno facendo un mercatino. Tutto è rimasto come nel 1992, quando Nevermind era l’album più venduto al mondo, Smells Like Teen Spirit era il video più programmato su Mtv, e Kurt Cobain e Courtney Love pagavano 1.100 dollari al mese per vivere al riparo da tutti in questa stradina di Fairfax, nel quartiere ebraico di Los Angeles.
Lei era incinta di Frances Bean, lui si faceva 400 dollari di eroina al giorno e stava chiuso in casa a scrivere canzoni ascoltando in continuazione Norwegian Wood dei Beatles. Spesso in quel periodo pensava di lasciare la musica e diventare un pittore: dipingeva alieni comandati da fili come burattini, rielaborazioni di sonogram, denti sospesi su paesaggi lunari.
Dalla casa esce un’anziana signora con in mano l’elenco della spesa: «Ah sì, Kurt... ogni tanto passa un fan e lascia una candela accesa. La faccio chiamare dal proprietario, che lo conosceva bene». Quando parlo con lui e gli chiedo di quel periodo dannato del rock’n’roll, e della vasca dove Kurt dimenticò tutte le sue chitarre e le sue tele facendo allagare la casa, lui ricorda solo un ragazzo timido e mite: «Era un’anima gentile, educatissimo. Sono sicuro che nella sua seconda vita, ovunque sia ora, ha finalmente trovato la pace».
SEATTLE, EXPERIENCE
MUSIC PROJECT MUSEUM
FA UN CERTO effetto vedere la carriera dei Nirvana beatificata nel museo della musica di Seattle. La mostra si chiama Portando il punk alle masse, ma a me sembra più giusto il sottotitolo del catalogo: From Nowhere To Nevermind (Da un posto che non c’è a fa lo stesso). Esposto c’è il golf verde con le righe orizzontali che Kurt indossava nel video di Smells Like Teen Spirit. Il suo cardigan bucato, la sua Samsonite rosa, il registratore del primo demo con Jack Endino, pagato andando a pulire i bagni del suo liceo. Una foto di prova del bebé che nuota sulla copertina di Nevermind con la nota: «Se qualcuno ha problemi col suo pisello lo possiamo rimuovere».
Jacob McMurray, il curatore, mi dice che la mostra non sarebbe stata possibile senza Krist Novoselic: «Mi ha invitato a visitare il solaio della sua fattoria a Deep Water, un angolo sperduto dello Stato di Washington da dove fa più che altro attività politica: assieme ci siamo messi a guardare ricordi lasciati lì da anni». Nessuno ha sofferto per la scomparsa di Kurt più di Novoselic, che all’inaugurazione della mostra ha rivelato che per anni, dopo la sua morte, entrava nei negozi di strumenti musicali usati di Seattle e quando trovava chitarre per mancini pensava di riaccordarle per darle al suo amico, che ne distruggeva una a concerto. «Solo poi mi ricordavo: “Ah già, non ne ha più bisogno”».
McMurray mi porta nel magazzino del museo, una sala a temperatura controllata dove la storia del rock è catalogata e conservata con la cura di un perito di Csi - Scena del crimine. Su un tavolo, pronta a essere esposta, c’è la «brownie», la chitarra preferita di Eric Clapton ai tempi di Derek and the Dominos. In un cellophane la batteria dei Wailers di Bob Marley. In un angolo tre scatole raccolgono i cimeli dei Nirvana. I testi delle canzoni di Bleach annotati con calligrafia perfetta da Kurt Cobain. Un disegno della band in cui lui si identifica come Kurdt. Un libretto di assegni che sembra uscito da una scatola del Monopoli, intestati con un timbro a inchiostro: Nirvana Llc (Nirvana Spa).
Alcuni oggetti raccolti da McMurray non finiranno mai in mostra: «Un giorno una donna mi ha portato una scatola con dentro il calco di gesso delle mani di Kurt Cobain. Lo aveva fatto su richiesta della madre del cantante, che a un certo punto aveva progettato un mausoleo che non è mai stato costruito. Il marito della donna stava per vendere le mani su eBay: le abbiamo restituite alla madre».
Mi chiedo se ricorda quelle mani Frances Bean, che ora ha 22 anni e su Twitter posta opere d’arte che ricordano i dipinti di suo padre. Penso alla zia Mari, quella che dava i dischi dei Beatles a Kurt, che si è messa a girare i licei americani parlando di come evitare la fine che ha fatto il suo nipote prediletto: «L’isolamento uccide, e Kurt si è totalmente chiuso in se stesso dopo che i suoi genitori si sono separati», dice. «Era come un’aquila che non si ferma mai: continuava a volare perché era convinto che quello che faceva non avesse valore e non bastasse mai. Essere famoso per lui è stato come essere sparato nello spazio senza uno scafandro o una navicella a cui fare ritorno».
NEW YORK, WEST 35TH STREET
DANNY GOLDBERG, EX MANAGER dei Nirvana, è l’uomo che è stato a fianco di Kurt durante quel breve viaggio nello spazio. Mi riceve nel suo ufficio di New York, sui muri i ricordi di una vita nel rock, da quando era l’addetto stampa dei Led Zeppelin a No Nukes, dai dischi d’oro dei Bad Company a quelli dei Sonic Youth. E poi i Nirvana: «Alla prima riunione che abbiamo fatto ha parlato solo Krist, per lo più di politica. Ma quando ho chiesto se pensavano di restare in una piccola casa discografica Kurt ha preso la parola: “Assolutamente no”. E lì ho capito chi comandava nei Nirvana».
All’inizio Kurt non diede grande confidenza a Goldberg, ma tutto cambiò quando si innamorò di Courtney Love, perché il manager fu l’unico a non fare la guerra alla cantante degli Hole. Goldberg era presente al loro secondo incontro, nei camerini di un concerto a Los Angeles, dove Courtney si presentò con un’amica della band Babes in Toyland che faceva il filo a Dave Grohl: «Dopo venti minuti Courtney era sulle ginocchia di Kurt». Kurt e Courtney passarono quella notte a parlare passeggiando, e a un certo punto trovarono per terra un uccello morto. Lui prese tre penne da un’ala e le disse: «Una è per te, una è per me e una per il bambino che avremo». Courtney rise, ma dieci mesi dopo era incinta.
Negli ultimi due anni della sua vita non aveva più amici: gli altri due membri dei Nirvana, Grohl e Novoselic, non vedevano di buon occhio il suo rapporto quasi claustrofobico con Courtney dopo il loro matrimonio alle Hawaii. E anche con lei le cose non andavano sempre bene, specie dopo che Vanity Fair pubblicò l’intervista in cui la cantante ammise di avere usato eroina anche quando non sapeva di essere incinta ma già lo era (la cantante disse di essere stata fraintesa). La nascita della bambina portò Kurt a smettere con la droga per brevi periodi, salvo poi ricaderci. «Kurt diceva che l’eroina gli serviva per combattere il mal di stomaco di cui aveva sempre sofferto, sin da bambino», racconta Goldberg. «Capii la gravità della sua tossicodipendenza la sera in cui i Nirvana suonarono al Saturday Night Live, a New York. Sul palco tutto andò bene, ma prima Kurt si addormentava da tutte le parti: in quel momento ho capito di avere una bomba a orologeria tra le mani».
Quella sera lo vide anche Bruce Pavitt: «Mi disse che voleva aprire un petting zoo, uno zoo per i bambini che lui amava tanto». Continua Goldberg: «Ci furono vari tentativi di farlo smettere con la droga. Organizzammo un primo intervento al Cedars Sinai, l’ospedale di Los Angeles: c’eravamo io, Courtney e tutti i suoi amici, ma lui non la prese bene».
SEATTLE, LAKE WASHINGTON
CI VOGLIONO 15 minuti di macchina per passare dal paradiso all’inferno. Dalla casa sul Lago Washington, dove il vicino di casa di Kurt e Courtney era il fondatore della catena di caffè Starbucks, al motel Marco Polo su Aurora Avenue, dove nella stanza di fianco ci sono i senzatetto. Quando negli ultimi giorni Courtney impediva a Kurt di farsi a casa, lui andava al Marco Polo, dove chiedeva sempre la stanza 226, quella d’angolo al secondo piano.
Una sera tornò e trovò di nuovo tutti i suoi amici ad aspettarlo. Appena un mese prima aveva rischiato l’overdose a Roma. «Fu l’estremo tentativo di farlo smettere, una settimana prima della sua morte», mi racconta Goldberg. «Kurt era, se possibile, ancora più arrabbiato della prima volta. Mia moglie Janet andò nella sua camera, gli buttò via tutte le pillole che usava assieme all’eroina. Kurt venne da me a lamentarsi dicendo che Janet si era impossessata della sua proprietà privata, che tutti gli artisti sono drogati. Citò William Burroughs».
Kurt aveva già comprato l’arma che avrebbe usato per uccidersi. Partì per Los Angeles, il quinto ricovero in una clinica di rehab, da cui scappò il giorno dopo da una finestra. Tornò a Seattle, lo videro dentro alla Linda’s Tavern e il vecchio amico Charles Peterson, fotografo ufficiale della Sub Pop, gli parlò per un attimo: «Kurt mi diede il suo cellulare, era molto agitato». Gli chiedo: ma perché, se sapevate che stava male, non l’avete fermato? «Perché, in qualche modo, tutti stavano male in quel periodo: Kurt stava solo peggio degli altri».
Uno o due giorni prima di togliersi la vita nella sua splendida casa sul lago, Kurt chiamò Danny Goldberg: «Era completamente a terra. Gli passai mia figlia Katie, che allora aveva tre anni: ogni volta che si vedevano giocavano assieme, si adoravano, e lui amava sentirla al telefono». L’ultimo tentativo di cambiare il destino fu affidato a quella bambina: «Sentii mia figlia che gli diceva: “Kurt, perché sei così arrabbiato? Dai, non fare così”. Ma poi mi diede la cornetta: lui l’aveva salutata, e poi aveva messo giù».