Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  marzo 26 Mercoledì calendario

LE MIE URLA NEL SILENZIO


kasper ha ancora il fisico tosto, è uno di quegli uomini con cui ti passa subito la voglia di litigare. Kasper, l’agente Kasper, è stato uno dei più efficaci «operativi» dei nostri servizi segreti, uno di quegli uomini che si infiltrano nelle organizzazioni criminali (fu lui, per esempio, a entrare in contatto con i narcos colombiani e a portare a termine l’operazione Pilota, il più grande sequestro di droga mai effettuato dai Carabinieri). Oggi Kasper ha 55 anni, il volto segnato da rughe profonde come cicatrici, e la barba che si sta facendo crescere non riesce a nasconderle. È stato rapito in Cambogia, ha passato 373 giorni in campi di prigionia più o meno clandestini: ha subito interrogatori, anche duri, è stato picchiato e torturato. Carcerieri ubriachi lo hanno costretto a giocarsi la vita alla roulette russa, come nel film Il cacciatore: ridevano e scommettevano. In un Paese dove se un italiano (cooperante, missionario, per non dire un giornalista) viene rapito all’estero la notizia diventa subito da prima pagina, dei 373 giorni dell’agente Kasper non si è mai saputo nulla. Fino ad adesso. Perché adesso lui è riuscito a fuggire, è rientrato in Italia, e ha deciso di parlare.

Dove e quando è cominciato tutto?
«A Phnom Penh, capitale della Cambogia. Era mercoledì 26 marzo 2008».
Che cosa è successo?
«Un cambogiano molto importante mi ha telefonato: “Lascia il Paese. Ora”. Non mi volle dire di più. Mi bastò».
Che cosa fece?
«Ho riempito di corsa un borsone, ho preso due pistole, ho svuotato la cassaforte di tutto il contante che avevo: 70 mila dollari. Ho detto al mio miglior amico e socio in affari (un americano, agente della Cia) che dovevamo filarcela. È stato probabilmente il mio più grande errore».
Perché?
«Ho il sospetto che c’entri qualcosa in tutta questa storia».
Come vi hanno catturato?
«È stato al posto di frontiera di Koh Keng, un piccolo villaggio fetido, base di contrabbandieri, al confine con la Thailandia».
Vi presero subito?
«No. Ci arrivammo di notte: il mio “amico” mi convinse che era meglio non passare con il buio. Gli diedi retta, e fu il mio secondo errore: la mattina dopo, alla frontiera, li avevo addosso».
Chi?
«Agenti del Cid, un’unità di paramilitari cambogiani specializzata in lavori particolari. I veterani sono tutti ex Khmer rossi».
Ma i Khmer rossi, quelli di Urla del silenzio, non sono ormai scomparsi, morti o in carcere?
«Quando hai bisogno di qualcuno per i lavori sporchi, scegli chi li sa fare: il suo passato non ti interessa. Sembravano Men in black: vestiti scuri, occhiali da sole, armati di pistole Glock, Smith & Wesson e kalashnikov, mi hanno caricato su un Suv nero. Prima mi avevano ammanettato e legato con una catena».
Una catena?
«Loro sanno che, se ti ammanettano soltanto, puoi essere comunque pericoloso».
E il suo «amico»?
«Lo portò via un altro gruppo».
Perché non l’hanno uccisa subito?
«Hanno preso tutto quello che avevo nella borsa. E i 70 mila dollari li hanno molto impressionati: per un cambogiano sono un 6 al Superenalotto. Se qualcuno aveva affidato loro la missione di eliminarmi, ha sbagliato alla grande. I paramilitari cambogiani sono senza scrupoli, ma soprattutto avidi».
Com’è andata?
«Mi hanno chiesto se ero ricco. Ho avuto la prontezza di rispondere che sì, la mia famiglia lo era. E molto. Allora mi dissero di cominciare a camminare in una risaia, fecero una telefonata, in inglese: “Adesso procediamo”. Lasciarono il cellulare aperto, e partì una raffica di kalashnikov. Un metro sopra la mia testa. Chiusero il telefono e mi portarono nella loro caserma, in boulevard Preah Norodom, a Phnom Penh. E lì è cominciato il mio incubo: 373 giorni».
In Italia nessuno sapeva di lei?
«Lo sapevano Patrizia, la mia fidanzata, e Paola, mia madre. Ogni tanto telefonavo loro per dare la prova che fossi vivo e le istruzioni sul denaro da inviare».
E non fecero nulla?
«Denunciarono la mia scomparsa alla Procura, portarono le ricevute dei soldi che inviavano. Si mossero con il ministero degli Esteri e con quello di Grazia e giustizia».
E?
«Niente. In Procura non aprirono nemmeno l’indagine. In compenso abbiamo ancora una lettera firmata dall’allora ministro degli Esteri, Franco Frattini, in cui si impegnava a occuparsi del mio caso. Non è successo nulla».
E i Carabinieri?
«Il mio comandante era nel mezzo di uno scandalo per i metodi che avevamo utilizzato contro i narcos. Era indagato: non aveva grandi possibilità di manovra».
Durante quei 373 giorni ha mai tentato di evadere?
«Due volte. Una dal reparto carcerario dell’ospedale Preah Monivong, a Phnom Penh. Lo chiamano ospedale, ma in realtà è un centro di tortura. L’altra da Prey Sar, un ex lager dei Khmer rossi trasformato (con soldi dell’Onu) in “centro di rieducazione”. Continua, insomma, a essere un lager, gestito dallo stesso genere di persone di allora».
E non ce l’ha fatta.
«Tutti e due i piani fallirono all’ultimo momento. Forse è stata una fortuna: erano piuttosto azzardati. Per non parlare poi dei progetti strampalati, come quelli di un mio amico americano pronto, per esempio, a farmi evadere con un elicottero che né io né lui eravamo in grado davvero di pilotare. Per 373 giorni non ho pensato ad altro che a come evadere».
E alla fine come è fuggito?
«Grazie a Louis Bastien: ritengo fosse un agente operativo dei servizi francesi. È stato lui a farmi evadere».
Come?
«Corrompendo le persone giuste e riuscendo poi a farmi uscire di nascosto dal Paese».
Ci parli della sua famiglia.
«Mio padre era docente universitario. Era nato a Memphis, Tennessee. Buona parte della sua famiglia è in America. Quando mi rapirono non c’era già più. Mia madre era professoressa di matematica. Era gravemente malata. Ha lottato come una leonessa, ha stretto i denti e mi ha aspettato: sapeva che sarei tornato. È morta pochi mesi dopo avermi rivisto».
Sapeva qual era il suo lavoro?
«Sapeva che ero carabiniere, anche perché lo sono diventato anche a causa dei miei. Negli anni Settanta ero un po’ una testa calda, al liceo bazzicavo gli ambienti dell’estrema destra. Quando i miei si accorsero che cominciavo a frequentare brutta gente, mi fecero parlare con un amico di famiglia. Era il giudice Pier Luigi Vigna, quello che poi sarebbe diventato Procuratore nazionale antimafia. Mi convinse a entrare nell’Arma».
E Patrizia, la sua fidanzata?
«Una brava ragazza, una veterinaria: niente a che vedere con il mio mondo. È per questo che mi è piaciuta subito, tanto. Lei era la vita normale».
Ora veniamo al punto: che cosa aveva scoperto di tanto pericoloso?
«Avevo scoperto dove venivano fabbricate le supernotes».
Supernotes?
«Banconote da 50 e 100 dollari false, ma assolutamente perfette. Nemmeno le macchine più sofisticate riescono a identificarle: carta, inchiostri, marcatori sono identici agli originali».
E ce ne sono tante in circolazione?
«Ne ho visto personalmente interi bancali, metri cubi di banconote, nei sotterranei dell’ambasciata nordcoreana a Phnom Penh».
L’ambasciata nordcoreana?
«Certo, perché è in Corea del Nord che opera la zecca clandestina, a Pyongsong: 100 mila abitanti, a nordest della capitale, sotto il controllo dei servizi segreti, è chiamata “la città chiusa”, off limits per tutti gli stranieri. O quasi».
Perché quasi?
«Mi è stato riferito che a Pyongsong bazzicano alcuni americani. Sarebbero loro a dirigere il traffico».
Uomini dei servizi segreti?
«Credo di sì. Userebbero le supernotes per finanziare le wet operations, le operazioni che ufficialmente non fanno».
Da quanto va avanti questo traffico di miliardi di dollari perfettamente contraffatti?
«Non lo so. Posso dirle che le annate 1989 e 1990 hanno qualche problema. Dopo di allora è impossibile identificarle: dunque li hanno stampati almeno per 20 anni».
E questo traffico continua?
«Credo di sì».
Ed è per questo che hanno cercato di eliminarla?
«Una persona che conosce bene tutta questa storia mi ha detto: “Con le supernotes si acquista un biglietto per l’inferno. Ed è un biglietto di sola andata”».
Lei però è tornato. Che cosa ha fatto una volta in Italia?
«Ho sporto una denuncia dettagliata. Non mi risulta che nessuno abbia ancora aperto un fascicolo, in compenso mi mandarono una settimana a Regina Coeli. Ma vediamo se questa volta si muove qualcosa, anche perché è appena uscito un libro, Supernotes, che ho scritto con Luigi Carletti, in cui racconto nei dettagli questa storia».
Perché adesso ha deciso di uscire allo scoperto?
«Arriva un momento, e per me è arrivato tardi, in cui devi cambiare. Non voglio più fare la vita di prima: voglio la vita di Patrizia. Ho anche creato una onlus che aiuti tutti quegli ex agenti segreti che, dopo aver fatto tanto per il loro Paese, si ritrovano ai margini: con una misera pensione, nessuna prospettiva e nessuno con cui poter parlare».
Lei lavora ancora per i servizi segreti?
«Ovviamente no, ho lasciato tutto. Oggi coltivo olivi e ho una palestra di arti marziali con alcuni ex colleghi».
E il suo «amico» americano?
«Vive tra gli Usa e Dubai. Continua a lavorare per l’intelligence».
Ha più incontrato Louis Bastien, il francese che l’ha fatta evadere?
«No. Non vive più a Phnom Penh. O forse ha solo cambiato nome».
E Patrizia?
«Adesso è mia moglie, abbiamo una figlia di un anno. Il libro che ho scritto lo dedico a loro, e a mia madre. Le mie tre donne: quella che non c’è più, e quelle che, ogni giorno, mi fanno guardare avanti».