Diodato Pirone, Il Messaggero 26/3/2014, 26 marzo 2014
LA TELENOVELA DELL’ABOLIZIONE TRA ANNUNCI E FRANCHI TIRATORI
LA STORIA
ROMA Togliamo subito di mezzo ogni equivoco: in Senato, tra qualche franco tiratore, si sta parlando di una riforma delle Province, non della loro abolizione.
Niente illusioni, le Province restano. A dispetto di centinaia di titoli di giornali, restano lì - intonsi - 107 palazzi, migliaia di telefoni, segretarie, dirigenti, qualche auto blu e, soprattutto, 61 mila impiegati e i loro 2,3 miliardi di stipendi (oltre 38 mila euro lordi di media a testa). Non chiuderà neppure la mitica sede dell’Upi, l’Unione Italiana Province. In compenso gli italiani si scrollano dalle spalle - se non ci saranno colpi di scena - indennità e rimborsi pari a un centinaio di milioni assorbiti da circa 3.000 consiglieri provinciali, superstiti di un esercito di 4.014 eletti che, come vedremo, hanno cominciato a scollarsi dalle loro amatissime poltrone da fine 2011. La riforma li spiana senza pietà, anche se nulla impedirà loro di passare a Comuni e Regioni (o alle province e Città Metropolitane che nasceranno nel 2015 senza elezioni popolari).
TWEET POMERIDIANO
Insomma, l’unica abolizione effettiva avviata ieri è quella della classe politica provinciale. Un’abolizione che farà risparmiare (ammesso che i futuri consiglieri non prendano niente davvero) circa 113 milioni di euro. Questa almeno la cifra, l’ultima disponibile, che nel 2010 fu versata ai consiglieri provinciali eletti.
C’è da essere soddisfatti? E’ tutto relativo. Un bel po’ di poltrone in meno non guastano mai in tempi di ”dagli al politico”. Non viene toccata la burocrazia, dirigenti compresi, ma magari l’operazione fa guadagnare qualche voto alle europee. Un bel segnale politico, dicono gli addetti ai lavori, è sempre un segnale politico.
Diverso è il profilo concreto dell’operazione: i 113 milioni - ripetiamo, milioni - sfilati a consiglieri e presidenti contano nulla nella ricerca delle coperture per i 10 miliardi necessari alla riduzione dell’Irpef.
COLPO MORTALE
Fatto sta che con il voto di oggi - che dovrebbe essere seguito a ruota da quello definitivo della Camera - dovrebbe chiudersi una vicenda nata ormai quasi tre anni fa e che ha visto innumerevoli colpi di scena.
Il primo colpo mortale alle Province arrivò il 5 agosto del 2011 - nel pieno della terribile estate dell’esplosione dello spread e delle cinque manovre del governo Berlusconi - con la consegna a Palazzo Chigi della famosa lettera della Banca Centrale Europea. Lettera nella quale una lesta manina italiana infilò anche l’eliminazione (eliminazione, non riforma) delle Province.
I compiti, com’è noto, li fece il successivo governo Monti. Che a metà dicembre, nel gigantesco testo del decreto che avrebbe fatto passare tutti gli italiani al sistema pensionistico contributivo a 15 anni dalla riforma Dini, infilò un comma che le Province non le aboliva ma le svuotava. In pratica quel decreto anticipava quanto sta succedendo in queste ore: si prevedeva lo stop alle elezioni popolari per le Province che, una volta completate le legislature, sarebbero state guidate da un presidente eletto fra i sindaci dei Comuni.
Operazione spericolata. Bocciata mesi dopo dalla Corte Costituzionale perché la parola Province è in Costituzione e dunque modifiche alle Province andavano fatte con legge costituzionale. Possibile che gli alti burocrati infilati nel governo Monti non lo sapessero?
Non andò meglio l’anno successivo quando il progetto di accorpamento fra le Province che avrebbero dovuto ridursi a una cinquantina fu travolto dalla crisi dello stesso governo Monri. Anche qui forse ci mise lo zampino la burocrazia: meno Province voleva dire meno prefetture, meno direzioni provinciali, un sacco di posti in meno.
Ora resta da capire chi chiuderà la luce. «Io no - dice il presidente dell’Upi e della Provincia di Torino, Antonio Saitta - Io sono stato votato dal popolo e quando scadrà il mio mandato me ne andrò e farò posto a un commissario». Capito: anche stavolta nessuno scriverà la parola fine.
Diodato Pirone