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 2014  marzo 26 Mercoledì calendario

IL RACCONTO DI ABE PER L’ECONOMIA


Le fluttuazioni delle economie mondiali dipendono molto dalle storie che sentiamo e che raccontiamo sul loro conto. Sono storie che fanno leva sull’immaginario collettivo e influenzano le nostre emozioni a volte spingendoci a uscire e spendere, avviare attività, costruire nuove industrie e uffici e assumere dipendenti, altre volte mettendoci paura e facendoci stare fermi, risparmiare le nostre risorse, limitare spese e rischi. Possono risvegliare i nostri "spiriti animali" come mitigarli.
Durante un giro in Giappone per un ciclo di conferenze, sono rimasto colpito dall’impatto positivo sul pensiero e il comportamento della gente che hanno le storie riguardanti l’economia, e anche di quanto può essere delicato il cambiamento. Da quando è entrato in carica il premier Shinzo Abe, a dicembre 2012, e ha lanciato il suo programma di stimoli monetari e fiscali e riforme strutturali, l’impatto sulla fiducia dei giapponesi è stato profondo. Secondo il Fondo monetario internazionale, il divario della produzione, ovvero la differenza fra il Pil effettivo e quello potenziale, si è ristretto da -3,6 per cento nel 2011 a -0,9 per cento nel 2013.
Nel resto del mondo manca una "narrazione" comprensibile e a tutto tondo di un cambiamento positivo in stile Abenomics. Il divario della produzione per le economie più avanzate del mondo, come stimato dall’Fmi resta deludente, passando da -5,3 per cento nel 2009, il peggiore anno della crisi finanziaria globale, a -3,2 per cento nel 2013, ovvero nemmeno a metà della strada verso la normalità.
A quanto pare siamo alla mercé delle nostre narrazioni. Dal 2009 la maggior parte di noi ne ha aspettata una che venisse a riempirci i cuori di speranza e fiducia e ritemprare le nostre economie.
Pensate al boom immobiliare degli Stati Uniti e di altri Paesi nella prima metà del 2000. Più che la storiella di una "bolla" era l’apoteosi dell’iniziativa capitalista nel nuovo millennio.
Quelle favolette erano così convincenti perché un gran numero di persone ne era psicologicamente e finanziariamente coinvolto. La maggior parte delle famiglie possedeva una casa, dunque automaticamente facevano parte del boom e molti proprietari, desiderosi di parteciparvi ancora di più e sentirsi esperti capitalisti, hanno acquistato case più costose di quelle che normalmente avrebbero comprato.
Con la fine improvvisa del boom, nel 2006, anche quel capitolo di autoesaltazione si è concluso. In fondo non eravamo tutti dei geni dell’investimento. Era solo una bolla, come abbiamo saputo. La nostra fiducia in noi stessi, e dunque nel nostro futuro, ha subìito un duro colpo scoraggiando il rischio economico.
Poi è scoppiata la crisi finanziaria che ha spaventato il mondo intero. La storiella di opportunità e ricchezza è diventata una storia di istituti di credito ipotecario corrotti, istituzioni finanziarie sovraindebitate, esperti ottusi e regolatori comprati. L’economia stava sbandando come una nave alla deriva e gli operatori privi di scrupoli che ci hanno convinto a salire a bordo - diciamo l’1 per cento - se ne sono scappati sulle uniche scialuppe a disposizione.
All’inizio del 2009 il crollo dei mercati azionari di tutto il mondo ha raggiunto il suo massimo e il timore di una grande depressione, secondo l’inchiesta sulle opinioni dei consumatori condotta dall’Università del Michigan, ha toccato il livello più alto dalla seconda crisi petrolifera dei primi anni 80. Le storie sulla Grande Depressione del 1930 sono riaffiorate nella nostra memoria o in quella dei nostri genitori o dei nostri nonni, e sono state raccontate.
Per capire come mai la ripresa economica (se non quella del mercato azionario) è stata così debole dal 2009, dobbiamo capire quali sono le storie che stanno influenzando la psicologia collettiva. Un esempio è la vertiginosa avanzata degli smartphone e dei tablet. L’iPhone della Apple è stato lanciato nel 2007 e i telefonini Android di Google nel 2008, proprio all’inizio della crisi, ma da quel momento la loro crescita è stata verticale. L’iPad della Apple è stato presentato nel 2010. Da allora, quei prodotti sono praticamente entrati nella coscienza di tutti, li vediamo ovunque, per strada, in albergo, al ristorante e all’aeroporto.
Questa dovrebbe essere una storia rassicurante: stanno emergendo tecnologie straordinarie, le vendite vanno a gonfie vele e l’imprenditorialità è viva e vegeta e gode di ottima salute. Ma l’effetto rassicurante del precedente boom immobiliare è stato ben più forte perché interessava direttamente molte più persone. Stavolta, infatti, la storiella degli smartphone e dei tablet è associata alla sensazione che la ricchezza generata da quei dispositivi sia concentrata nelle mani di un gruppetto di imprenditori della tecnologia che probabilmente vivono in un Paese lontano.
Sono storie che risvegliano le nostre paure di essere scavalcati nella scala economica e i telefonini parlanti (nel 2010 Apple ha lanciato Siri, la voce artificiale che risponde alle domande sugli iPhone), alimentano la paura di essere rimpiazzati come le prime ondate di automazione hanno reso obsoleto il capitale umano.
Ho avuto il piacere di incontrare Abe nel corso di questo viaggio. Lui si attiene al suo copione di misure aggressive e risolute contro il malessere economico che ha afflitto il Giappone per secoli. Abe ispira fiducia, l’ho percepito subito.
Si dice che il premier giapponese abbia ravvivato il patriottismo nazionale, se non addirittura il nazionalismo. Anche se durante il mio incontro non ho sentito niente di tutto questo, credo che possa essere il fulcro della sua storia. Il nazionalismo dopotutto è intrinsecamente legato all’identità individuale, crea una storia per ogni singolo membro di una nazione, su quello che lui o lei possono fare come cittadini di un Paese solido. Alcuni dei passi controversi di Abe, come visitare il santuario Yasukuni Shrine nonostante le obiezioni cinesi e coreane, non fanno che aumentare l’impatto della storia.
Eppure, non è facile per i leader nazionali, anche per quelli con il talento di Abe, gestire storie del genere, proprio com’è difficile per un regista fare di ogni film un successo di incassi. Nessun leader può trovare sempre la narrazione giusta, ma questo non significa che non vi debba provare.

Robert J. Shiller ha vinto il premio Nobel per l’Economia nel 2013 e insegna Economia alla Yale University
(Traduzione di Francesca Novajra)