Giovanni Ruggiero, Avvenire 26/3/2014, 26 marzo 2014
PUNTATE, MIRATE, CLIC
«Su pei monti, su pei monti che noi saremo/ pianteremo, pianteremo l’accampamento./ Brinderemo, brinderemo al reggimento...», e molti soldati lo hanno anche fotografato.
In tanti partirono per il fronte con il moschetto e con macchine fotografiche molto pratiche e maneggevoli come quelle che la Kodak aveva da poco messo in commercio. Questi fotografi-soldati, per lo più ufficiali, ci hanno reso le immagini della Grande Guerra per come è stata: lunga, estenuante, crudele, sterminatrice, faticosa. Una visione, quindi, ben lontana da quella che offriva in quegli anni la propaganda bellica.
La prima guerra che la fotografia incontrò lungo la sua parabola fu quella di Crimea. Un fotografo in particolare, l’avvocato Roger Frenton, fu arruolato con il compito di tranquillizzare l’opinione pubblica inglese. Dal fronte l’inviato del Times, William Howard Russel, aveva scritto articoli su questo conflitto che falcidiava la migliore gioventù inglese. Il duca di Newcastle, David Lloyd George, segretario di Stato per la guerra, con l’aiuto dell’editore Thomas Agnew organizzò la missione del fotografo con il compito di fornire immagini rassicuranti.
Fotografie d’azione, all’epoca del collodio umido che richiedeva tempi di posa da 10 a 20 secondi (un’eternità in fotografia!), erano impensabili. Frenton compone le sue immagini: l’accampamento, gli ufficiali che preparano piani di battaglia, soldati che si riposano. La Guerra di Crimea sembrava un’innocua esercitazione militare. Eppure solo in combattimento costò 128 mila morti (anche italiani). Tanto lutto non c’è nella fotografia, che non svolse né il ruolo di documento né quello di testimonianza, ma una funzione politica, anche dicendo il non vero.
L’ altra guerra che vide scendere in campo una schiera di fotografi fu quella di Secessione americana, mossi questa volta da un sincero scrupolo di obiettività. Il Gardner’s Photographic Sketch Book of the War di Alexander Gardner non censura né i morti né il dolore.
Dell’«inutile strage», come nel 1917 papa Benedetto XV definì la Prima guerra, abbiamo solo in Italia oltre 150 mila lastre e pellicole fotografiche a opera di 600 fotografi, tra quelli arruolati con questo preciso compito nel Servizio fotografico dell’Esercito italiano (Sfei) e gli ufficiali che fotografavano per proprio conto, benché la cosa fosse ufficialmente proibita. Stessa cosa avveniva sull’altro fronte con il Kpq ( Kriegspressequartier ), il servizio fotografico dell’esercito austro ungarico. Anche sull’altro fronte, molti soldati andarono in trincea con il moschetto e la macchina fotografica. Abbiamo così due album ideali della Grande Guerra: uno ufficiale in cui compare anche per la prima volta la fotografia aerea, e un altro realizzato su iniziativa dei soldati che inviavano le fotografie a casa assieme alle cartoline postali illustrate.
Se ne stamparono a milioni in tutta l’Europa in guerra, da e per il fronte, unico mezzo possibile di comunicazione tra il focolare domestico e la trincea. La stragrande maggioranza di questi fotografi è rimasta anonima. Qualche nome però si ricorda: il maggiore Alberto Albertacci, il tenente medico Floriano Ferrazzi, il maresciallo Aldo Locatelli, il bersagliere Gino Venuti che invia «all’amata Clara» due album con 500 positivi. Lo stesso fa l’austriaco Adolf Nyulta con la divisa di un altro colore, che ci ha tramandato un album di ricordi di guerra. Questi militari riprendono la morte, i feriti, i soldati straziati, l’attività nelle retrovie.
La fotografia ufficiale della Grande Guerra, però, come facevano del resto le cartoline con immagini edulcorate, «non ebbe un semplice ruolo documentario – scrive Diego Mormorio – ma, finalizzata alla propaganda patriottica, divenne anch’essa strumento militare». Del resto, le foto scabrose o troppo forti non avrebbero trovato spazio nei giornali illustrati. Rimangono nei cassetti le immagini dei feriti e quelle che svelavano le indicibili condizioni in cui i soldati vivevano la trincea. «Con il controllo della circolazione delle immagini – scrive lo storico George L. Mosse – si voleva fornire all’opinione pubblica e agli stessi combattenti un’accettabile immagine della guerra, per forza di cosa limitata da precise forme di censure».
Avviene quella che lo storico del fascismo chiama la «banalizzazione della guerra», necessaria per affermare il consenso dei Paesi al conflitto. Il consenso si era levato in termini entusiastici specie in Francia e in Germania, dove viene costruito il mito dell’esperienza della guerra. Questo mito, nota sempre Mosse, «fece buon uso dei materiali visivi allo scopo di depurare, drammatizzare e romanzare la guerra». L’Italia non fu da meno, con i futuristi che esaltavano una virilità militante che glorificava la guerra («sola igiene del mondo»), mentre in Germania faceva da sponda, sebbene con argomentazioni diverse, l’espressionismo con l’elogio dell’eccezionale e dell’orrido e l’esaltazione della guerra.
La fotografia, alla fine del conflitto, darà due immagini della Grande Guerra: quella ufficiale, filtrata da un processo di banalizzazione, mostra una guerra senza tragedia e senza dolore, e quella di una guerra non detta, quella reale, che dice dello strazio dei corpi, della disperazione e della morte che rappresentò il suicidio dell’Europa civile.