Giuseppina Manin, Corriere della Sera 26/3/2014, 26 marzo 2014
DANIELE POLLINI: AMAVO LE SCIENZE MA HA VINTO IL FASCINO DELLA MUSICA
«Qui è dove studio e lavoro». Una mansarda nel cuore della vecchia Milano, una finestra sui tetti, un tecnigrafo su un cavalletto. Se il padrone di casa non si chiamasse Daniele Pollini potrebbe essere l’atelier di un architetto. «In realtà, viste le dimensioni extra large della partiture di oggi, mi è molto più agevole comporre la musica su questo tavolo da disegno», spiega Daniele. «Però — aggiunge sorridendo — è vero che questa era la casa di un architetto. L’aveva disegnata mio nonno Gino, pioniere del razionalismo italiano. Ma anche un buon violinista, uno innamorato della musica».
Passioni che scorrono nel sangue da una generazione all’altra. Da Gino a Maurizio, lo straordinario pianista che tutto il mondo ammira, da Maurizio a Daniele, suo figlio. Che prosegue nella tradizione di famiglia con successo, anche se muovendosi da un’ottica più ampia. Oltre alla tastiera, Daniele si dedica infatti anche alla composizione e alla direzione d’orchestra. «Tre tappe necessarie per approfondire la mia ricerca. Amo la musica nei suoi vari aspetti, anche se dovrò decidermi a restringere il campo».
Scegliere non è facile. Specie se le tentazioni sono tante. «Sono cresciuto in un ambiente ricco di stimoli — ricorda —. Fin da bambino ho conosciuto i musicisti più famosi, artisti di ogni tipo…». Eppure la musica non è stata per lui il primo amore. «Da ragazzo andavo pazzo per le scienze naturali — confessa —. Raccoglievo fossili, portavo a casa pesciolini, gechi, serpentelli… Mi sarebbe piaciuto un boa, ma mia madre Marlisa si oppose». E suo padre? «Ah, lui non se ne sarebbe neanche accorto…».
Poi è arrivata la pittura. «E anche qui c’entra il dna. Fausto Melotti era mio zio, il Novecento visivo mi era familiare fin da piccolo. Quei quadri li ho dipinti io, avevo 13 anni», svela indicando due tele molto colorate, di gusto astratto. Dalla musica invece continuava a sgusciare. «Mia nonna insisteva perché suonassi il piano. Iniziai a prendere qualche lezione, ma di malavoglia. Finché un giorno esplosi: basta! Non voglio avere nulla a che fare con la musica! Nessuno mi forzò più, ma da lì a poco fu io ad accostarmi alla classica. Con crescente passione».
A 17 si diploma in pianoforte sotto la guida di Franco Scala, poi i corsi di perfezionamento all’Accademia di Imola. Dedicarsi a quello strumento con tale padre alle spalle non dev’esser stato facile. «Vero. Ma lui non ha mai cercato di influenzarmi. È stato un riferimento inevitabile, ma non il solo. Tra i pianisti che più apprezzo ci sono anche Richter, Benedetti Michelangeli, Schnabel, Horowitz. E tra i viventi Radu Lupu e Alfred Brendel».
Solo dopo anni, raggiunta la necessaria maturità interpretativa, Daniele accetta l’offerta del padre: suonare con lui nell’ambito di quel «Pollini Project» che accosta brani classici e contemporanei. Prima a Lucerna, poi a Tokyo e a Parigi, i due Pollini si esibiscono uno dopo l’altro nei due repertori. Ultima tappa, più recente, alla Scala. Dove Maurizio, 72 anni, ha eseguito i Preludi di Debussy e Daniele, anni 36, gli ultimi tre pezzi di Carnaval di Salvatore Sciarrino. Due mondi musicali così lontani da sventare assurdi confronti. «Ho avuto la sensazione di avere un coltello alla gola… Poi tutto è filato liscio. Penso sia arrivato il momento di venir giudicato per quel che sono. So bene che le aspettative su di me sono alte, avere alle spalle un tale padre è stato un privilegio ma anche un onere».
La sua lezione migliore? «Affrontare la musica dentro un contesto culturale più ampio, con rigore estetico e morale. Forse un tempo si era esagerato nell’essere duri e puri, nel non tener conto della comprensione del pubblico. Oggi però si rischia l’errore contrario, di scrivere musica per piacere ad ogni costo. Con il pericolo di omologare i linguaggi e perdere la propria identità».
E un tempo, parliamo sempre del post ’68, l’arte si coniugava con la politica. Suo padre ne è stato un esempio, mai ha esitato a prendere posizioni scomode. «Erano anni più vivi dal punto di vista sociale. Lui, Luigi Nono, Claudio Abbado, andavano a tenere concerti nelle fabbriche… Al Conservatorio mio padre venne fischiato perché aveva osato leggere una dichiarazione contro i bombardamenti americani su Hanoi. Apprezzo il loro impegno ma ora sono altri tempi. Oggi conta più quel che fai che quel che proclami. È l’arte il messaggio. Si possono dire cose ribelli e fare arte conformista, e viceversa. In tempi in cui Internet ha scompigliato tutto e riflettere è diventato sempre più difficile, il compito più “rivoluzionario” per un musicista sarebbe impegnarsi per sviluppare nei giovani l’attitudine all’ascolto».
Giuseppina Manin