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 2014  marzo 26 Mercoledì calendario

LA RAGNATELA DEI MANDARINI

Nel presentare il suo governo al Senato Matteo Renzi, parlando dei dirigenti pubblici, non ha usato mezzi termini: «Non può esistere la possibilità di un dirigente a tempo indeterminato che fa il bello e il cattivo tempo». Dopo le parole sono arrivati i fatti. Nei suoi primi trenta giorni, il governo ha cambiato dieci capi di gabinetto su sedici: Economia, Sviluppo, Istruzione, Giustizia, Affari regionali, Riforme, Lavoro, Funzione pubblica, Ambiente e Cultura. Ma le conferme hanno riguardato sei ministeri fra i più pesanti: Interno, Esteri, Difesa, Infrastrutture, Salute e Agricoltura. È presto per dire se è una vera svolta, come vorrebbe il premier, ma almeno sono stati sostituiti due terzi dei capi gabinetto: non era forse mai accaduto.
Non basta però cambiare un alto funzionario: tutto dipende da chi si sceglie per sostituirlo. Per ora, con i capi gabinetto, Renzi ha proceduto come nel gioco delle sedie. Quando parte la musica tutti si alzano, per poi sedersi in un altro posto non appena la musica si interrompe. Ma, diversamente dal gioco delle sedie, qui c’è sempre posto per tutti. All’Economia, è arrivato Roberto Garofoli, fino a ieri alla segreteria generale di Palazzo Chigi. Il nuovo capo gabinetto dell’Ambiente, Guido Carpani, svolgeva lo stesso incarico alla Funzione pubblica, dove al suo posto è arrivato Bernardo Polverari, fino a ieri «consigliere segretario» alla Camera. Il precedente capo gabinetto dell’Istruzione, Luigi Fiorentino, ora svolge lo stesso compito agli Affari regionali.
Questo gioco delle sedie dipende dal fatto che le informazioni che consentono a un ministero di operare sono patrimonio di un ristretto numero di funzionari pubblici. Queste informazioni sono custodite gelosamente perché costituiscono l’essenza del loro potere. Se un nuovo ministro assume un alto dirigente esterno alla nomenklatura, costui non saprà da dove cominciare e il ministro non riuscirà a fare alcunché per molti mesi. Un lusso che il governo Renzi non può permettersi. E così la discontinuità annunciata dal presidente del Consiglio finora si è ridotta a spostare funzionari da un ministero all’altro.
E dove sta scritto che un giurista sia sempre il miglior capo gabinetto? Fra i sedici di questo governo i non giuristi sono solo quattro. Uno (Giampaolo D’Andrea, ora alla Cultura dopo i Rapporti con il Parlamento) è un professore universitario di Storia contemporanea, due (Alessandro Fusacchia, ora all’Istruzione dopo gli Esteri e lo Sviluppo, e Roberto Cerreto, ora alle Riforme dopo la presidenza del Consiglio) sono dottori di ricerca in Scienze politiche. Uno solo (Ferdinando Ferrara, confermato all’Agricoltura) è laureato in Economia. Nessun ingegnere, ad esempio, neppure al ministero per le Infrastrutture, dove il capo gabinetto, Giacomo Aiello, è anche lui un giurista.
Chiusa, in modo un po’ deludente, la partita dei gabinetti, il governo ha tempo fino al 22 maggio per confermare, ed eventualmente sostituire, i capi dipartimento, cioè i responsabili del funzionamento dei ministeri. Senza discontinuità più marcate nella provenienza e nella cultura di chi occupa questi posti, le riforme del governo rischiano di rimanere lettera morta.
Il modello italiano di selezione della dirigenza (il 92 per cento dei dirigenti è selezionato dall’interno, con concorsi pubblici e rapporti di lavoro a tempo indeterminato, e dunque soggetti a limitata mobilità interna) produce inamovibilità, proprio ciò che Renzi vorrebbe correggere. Per farlo si potrebbe cominciare, come suggeriscono Bellè e Valotti in I manager pubblici che vogliamo (Ebook Rcs, collana «Idee per la crescita»), creando una sola lista di idonei a essere dirigenti (invece delle due fasce attuali) all’interno della quale le amministrazioni potrebbero trovare i candidati adatti per svolgere incarichi triennali descritti in modo esplicito. La selezione degli idonei dovrebbe avvenire accertando le competenze manageriali più che le conoscenze giuridiche. Il tutto accompagnato da una «pagella per dirigenti», cioè meccanismi di valutazione che leghino una parte della remunerazione al raggiungimento degli obiettivi prefissati, con forme di rotazione e mobilità obbligatoria tra un incarico e l’altro in funzione dei risultati ottenuti negli incarichi precedenti. Significherebbe muoversi verso il modello anglosassone, dove i dirigenti pubblici sono scelti secondo modalità analoghe a quelle del settore privato, con contratti e incarichi a tempo determinato. Il risultato è una maggiore mobilità, che rende il confine tra pubblico e privato più facilmente valicabile. Il rinnovamento profondo attuato al ministero del Tesoro negli anni Novanta fu il risultato della lungimiranza di Guido Carli, il ministro di allora, che sostituì il vertice del Dipartimento del Tesoro con dirigenti tutti assunti dall’esterno (compreso chi scrive, Giavazzi) .
Sostituire i capi dipartimento non garantisce leggi meglio scritte e soprattutto applicate. Ma almeno, cercandoli al di fuori della nomenklatura dei consiglieri di Stato, si ridurrebbe l’impropria coincidenza di identità fra chi scrive le norme e chi è poi chiamato a verificarne la legittimità. E forse avremmo codici e testi unici meno farraginosi, oggi miniera di cause, ricorsi e contenziosi.
Insomma, se non si cambia radicalmente la cultura dei funzionari pubblici le riforme non si fanno, e se anche si fanno difficilmente verranno attuate. Lasciare la gestione dello Stato e l’attuazione delle leggi a chi per decenni ha dimostrato di non saperlo o, più probabilmente, non volerlo fare non è il modo per cambiare il Paese. Ci sono solo otto settimane per farlo.
Francesco Daverie
Francesco Giavazzi