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 2014  marzo 26 Mercoledì calendario

EGITTO, CORRUZIONE E MISERIA AL SISI SULLE ORME DI MUBARAK – [SCIOPERI E MALCONTENTO MENTRE LA MACCHINA DELLA REPRESSIONE SCHIACCIA I FRATELLI MUSULMANI]


Verdetti di massa a Minya contro i Fratelli Musulmani, scioperi a raffica al Cairo e Alessandria contro il governo.
L’Egitto attende l’annuncio delle elezioni presidenziali oscillando fra due conflitti. Quello dei militari di Abdel Fattah Al Sisi con i militanti islamici ha come epicentro il tribunale del governatorato di Minya che, dopo le 529 condanne a morte di lunedì, ha annunciato per fine aprile la sentenza collettiva nei confronti di Mohammed Badie, leader della Fratellanza, e altri 682 «estremisti» sotto processo per i disordini avvenuti dopo il rovesciamento del presidente Mohamed Morsi.
Lo strumento dei verdetti di massa trasmette l’impressione di una resa dei conti con i Fratelli Musulmani destinata a coincidere con le elezioni che vedono Al Sisi nel ruolo di vincitore annunciato. Ma il feldmaresciallo che viene dall’intelligence teme oggi soprattutto un avversario diverso: lo scontento sociale espresso da una raffica di scioperi nelle maggiori città, riproponendo il malessere diffuso simile a quello precedente la rivoluzione che depose Hosni Mubarak nel 2011. A evidenziarlo sono le unità della polizia che presidiano l’ospedale Imbaba sulla piazza Ibn Khaldun per arginare la rabbia dei pazienti. «Siamo ridotti così - spiega Mohammed Shaqi, direttore sanitario, allargando le braccia - dallo sciopero dei medici, è a tempo indeterminato e c’è chi protesta». Dottori, dentisti e farmacisti incrociano le braccia per ottenere un aumento della spesa sanitaria del 10 per cento, a cominciare dal salario minimo. Mentre i postini del Cairo non lavorano da ieri per protestare contro l’arresto di alcuni colleghi «portati via dalle case» come dice il sindacato.
Sono gli ultimi tasselli di un mosaico di agitazioni dei dipendenti delle aziende pubbliche iniziate con i 20 mila lavoratori di Mahalla, il settore tessile nel Delta del Nilo, e continuate con guidatori di autobus e notai. L’esercito ha affittato piccoli bus al Cairo ed Alessandria per consentire a migliaia di alunni di andare a scuola. La genesi delle proteste è nelle richieste economiche, a cominciare dal salario minimo - equivalente a 172 dollari mensili - garantito ai 4,6 milioni di dipendenti del governo ma non ancora ai 1,5 milioni di operai di 9 grandi aziende e 50 autority che compongono il settore pubblico. L’esecutivo sostenuto dai militari ha accusato i sindacati di «collaborazione con i Fratelli Musulmani» ma poi il premier Ibrahim Mahlab ha proposto una «tregua d’onore» di 365 giorni in cambio di investimenti sull’occupazione.
Le agitazioni tuttavia continuano perché a nutrirle è l’aumento della povertà dovuto ai rincari dei beni di prima necessità: il formaggio più diffuso è passato da 2 a 20 sterline al kg. Per un Paese di oltre 90 milioni di anime con le entrate in valuta polverizzate dal crollo del turismo e un deficit pari al 13 per cento del pil, significa trovarsi alle prese con una miscela di povertà e scontento che evoca la rivolta anti-Mubarak. Per disinnescare il domino fra povertà e ribellione, Al Sisi ha compiuto alcune mosse: con il rimpasto di governo ha insediato alle Finanze Hany Dimian, ex negoziatore con il Fmi, affidandogli le trattative sugli aiuti, e poi ha attinto agli ingenti fondi donati dalle monarchie del Golfo per annunciare la costruzione di un milione di appartamenti per poveri, con la conseguente prospettiva di migliaia di posti in più nell’edilizia, motore della crescita. E poiché gli scioperi non cessano, Dimian si è rivolto direttamente alla popolazione assicurando impegno per estendere il salario minimo «a tutti» e promettendo l’aumento della tassazione - dal 25 al 30 per cento - dei super-ricchi, a cominciare dalle famiglie dei tycoon Sawairis e Monsour sostenitori di Al-Sisi.
L’intento è contenere lo scontento e attutire l’impatto della prossima brutta notizia: l’aumento dell’Iva al 10-12 per cento. È proprio la necessità di neutralizzare l’ondata di insoddisfazione sociale a spiegare le esitazioni di Al Sisi nell’annuncio della candidatura.
Il generale regista della deposizione di Morsi usa il pugno di ferro contro i Fratelli Musulmani - gli arrestati sarebbero almeno 20 mila - e cerca una vittoria a valanga nelle urne per legittimarsi: da qui il timore per proteste che possono metterla in dubbio. A confermare il desiderio di ridurre al minimo le incognite è il decreto che impedisce ai candidati di «fare appello dopo i risultati». Per l’opposizione è una «lampante violazione della nuova Costituzione» emanata proprio dai militari, ma ciò che conta per Al Sisi è scongiurare ogni possibile crisi durante e dopo il voto. L’altro pilastro della sua strategia è l’uso massiccio della propria immagine. Foto, ritratti e murales sono ovunque al Cairo contribuendo a creare un’atmosfera di inevitabilità attorno a lui. Ma i Fratelli Musulmani non si sono dissolti nel nulla. Le cellule clandestine sono in grado di organizzare attacchi ai soldati e contano proprio sugli scioperi per reclutare nuove leve.