Michele Bocci; Fabio Tonacci; Gilberto Corbellini, la Repubblica 26/3/2014, 26 marzo 2014
LA LOBBY DI BIG PHARMA – [I PADRONI DELLA NOSTRA SALUTE]
«Egregio onorevole... ». Comincia così la lettera che deputati e senatori italiani si sono ritrovati nella posta elettronica 24 ore dopo la batosta della maxi multa da 180 milioni di euro inflitta dall’Antitrust a Novartis e Roche per lo scandalo Avastin. «Tengo a condividere con Lei, nell’attesa di poterlo fare di persona, che ci troviamo in forte disaccordo con i presupposti di quell’inchiesta...». Big Pharma aveva bisogno di parlare, di spiegare, di convincere. E il Parlamento è solo uno dei luoghi dove “premere”. Forse il più importante, ma non l’unico.
Corsie degli ospedali, ambulatori, convegni, aule di università: ogni luogo è utile quando si deve promuovere un nuovo flacone, una molecola innovativa, una lozione.
Basta individuare le persone o gli enti la cui voce ha un certo peso al momento degli acquisti. Prima di tutto i medici. Dalla borsa di studio pagata per dare uno stipendio al professore associato all’appuntamento scientifico in estate in località turistica. «I dottori vengono tutti studiati e schedati — racconta a Repubblica, con la garanzia dell’anonimato, un dirigente di una delle più grandi aziende del settore — per individuare quelli su cui fare pressione. Ci sono gli “autorevoli”, che hanno capacità di persuasione sugli altri, “gli inutili”, i “sensibili alle novità”, che basta presentargli le stesse gocce con un nome diverso e li hai già convinti ». Poco male se, come nella vicenda Avastin-Lucentis ,ci sono studi che ne hanno dimostrato l’eguale efficacia.
«Egregio onorevole...», scrive Novartis. Due cartelle firmate dall’amministratore delegato Georg Schroeckenfuchs per dire che «il nostro operato è sempre stato corretto» e che è «a disposizione per dare tutte le risposte necessarie ». Arrivando addirittura al mite consiglio di evitare ogni riforma della prassi dell’off label «fatta su basi emotive». Proprio così, su basi emotive. Insomma, una vistosa excusatio non petita. Diretta ai parlamentari, acquista un sottotesto che suona più o meno così: avete affossato quel comma 3 del decreto Balduzzi che modificava il regime dell’uso “fuori etichetta” dei medicinali, eccone le conseguenze. La lobby del farmaco lo sa. Chi votò quegli emendamenti, pure.
L’Avastin, per esempio. Prodotto dalla Roche per alcune forme di cancro del colon. Dal 2005 gli oculisti di tutta Europa cominciarono a utilizzarlo off label, cioè fuori dall’indicazione dell’etichetta, perché funzionava anche per le maculopatie. La legge lo permetteva. Oltretutto costava poco, 80 euro a dose. Poi però arrivò sul mercato il più costoso Lucentis della Novartis, 1.000 euro a fiala, specifico per quella patologia.
Il Parlamento si accorse che qualcosa non andava già nel 2007, quando cioè — come riporta il quotidiano La Notizia— una senatrice dell’Udc, Sandra Monacelli, presentò una dettagliata interrogazione all’allora ministro della Salute Livia Turco per chiedere di autorizzare ufficialmente l’uso di Avastin per gli occhi. Si discusse, si fecero prospetti, si snocciolarono dati. Sembrava fatta, ma l’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, il 18 ottobre del 2012 decise di escludere il prodotto della Roche dall’elenco di quelli rimborsabili dal sistema sanitario. Paradossalmente su spinta proprio della Roche che, come testimoniano le decine di email interne recuperate dall’Antitrust e alla base della sua sanzione, aggiornava costantemente Novartis sullo stato della pratica.
Ma di maculopatie, in quello stesso periodo, si parlava anche nella commissione Affari Sociali della Camera, dove era in discussione il decreto Balduzzi. Il comma 3 dell’articolo 11, infatti, permetteva l’uso off label «qualora il farmaco sia in possesso del medesimo profilo di sicurezza di quello autorizzato e ci sia una convenienza economica». Un passaggio disegnato apposta per l’Avastin che avrebbe permesso al ministero di risparmiare qualche centinaio di milioni di euro, con buona pace degli interessi di mercato — legittimi, naturalmente — della Novartis, che del costoso Lucentis detiene il brevetto. Ma un emendamento proposto da Laura Ravetto e Giancarlo Abelli, allora entrambi nel Pdl, e passato con i voti di Pdl, Lega e Udc, lo cancella del tutto. «Il trionfo delle lobby», commentò un’infuriata Livia Turco, che di quel testo era relatrice.
Qualcuno resiste, nonostante tutto. E fa di testa propria. Alfredo Pazzaglia, oculista della oftalmologia del Sant’Orsola di Bologna, racconta: «Avremo fatto 9-10 mila iniezioni di Avastin e non abbiamo mai visto complicanze nei pazienti. Così per chi è già in trattamento firmo un foglio di assunzione di responsabilità e continuo ad usarlo».
Altra leva per convincere i medici, da sempre, sono i convegni. Silvio Zuccarini, oculista fiorentino della clinica privata Villa Donatello è un professionista che ha usato l’Avastin «migliaia di volte». E racconta: «Ai congressi trovavo luminari dei trattamenti della retinopatia che attaccavano violentemente chi continuava ad usarlo, sostenendo che era illegale. Sono sicuro che hanno le spalle coperte da gruppi potenti».
Big Pharma, del resto, sa come farsi amici quelli che contano. Non è un caso che l’unica donna imprenditrice accanto al presidente del consiglio Matteo Renzi durante l’ultimo vertice bilaterale italo-tedesco di Berlino fosse Lucia Aleotti, capo di Menarini, colosso da 3,27 miliardi di fatturato all’anno, che con il premier condivide le origini toscane. Una delle donne più potenti dell’economia italiana, però, è anche un’imputata. Nel giugno scorso è stata rinviata a giudizio insieme al fratello Giovanni e al padre Alberto Aleotti, che di Menarini è il patron storico. Per 20 anni l’azienda — sostengono i pm fiorentini — avrebbe sistematicamente gonfiato il prezzo dei suoi farmaci, causando un danno di 860 milioni di euro allo Stato. In questa faccenda, Lucia Aleotti deve rispondere di evasione fiscale, riciclaggio e corruzione (quest’ultimo reato insieme al padre). Al processo si sono costituite parte civile tutte le Asl d’Italia.
«Il sistema pubblico deve emanciparsi dall’industria, avviando ricerche autonome». Lo pensa e lo dice Pier Giuseppe Pelicci, il condirettore dell’Istituto oncologico europeo di Veronesi. Oncologoefarmacologo,haun’idea ben definita sui rapporti perversi che possono nascere tra le multinazionali e il sistema pubblico. «Il caso Avastin — spiega — insegna che le leggi le devono rispettare tutti, indipendentemente dal loro potere. Ma la domanda fondamentale che dobbiamo porci è un’altra: come è possibile che i farmaci costino così tanto?». Esatto, come è possibile? «Ci fanno pagare anche i fallimenti delle ricerche. Possiamo uscirne solo in un modo, facendo anche noi ricerca sui medicinali. Non siamo innocenti, abbiamo delegato gli studi in questo campo a Big Pharma e non si può pensare che loro lavorino senza orientarsi al profitto. Contemporaneamente però il pubblico investe poco in ricerca e finiamo in una situazione di sudditanza». La strada, secondo Pelicci, è segnata. «Ci costa di più comprare i farmaci o investire per produrli? Secondo me acquistarlo, per questo lo Stato deve aumentare gli investimenti nella ricerca: in prospettiva risparmierà per l’acquisto dei farmaci, perché se li farà da solo». Una maggiore autonomia scientifica potrà portare anche a emancipare la politica dall’attività di lobby e dagli interessi delle case farmaceutiche.
Michele Bocci; Fabio Tonacci
LA LOBBY DI BIG PHARMA – [MA L’INDUSTRIA NON È IL MALE ASSOLUTO]–
Da un paio di decenni l’industria farmaceutica ha sostituito quella degli armamenti nel cosiddetto immaginario collettivo, come paradigma della malvagità e dell’egoismo di cui gli uomini sono capaci quando si lasciano ammaliare dal profitto economico. L’epiteto Big Pharma diventato sinonimo di un Moloch che sfrutta i bisogni umani di salute.
Probabilmente è anche perché di mestiere studio e insegno Storia della medicina e Bioetica, che questo luogo comune non mi ha mai convinto. Non è di sicuro un’invenzione che prima dell’avvento dei metodi sperimentali per studiare le cause delle malattie, e per controllare le procedure di produzione, sviluppo e valutazione della sicurezza ed efficacia dei farmaci, la salute umana era peggiore.
Vaccini e farmaci sono stati i principali mezzi a disposizione della sanità pubblica per ridurre malattie e morte. Ancora nel corso del decennio scorso l’innovazione farmaceutica ha contributo per circa metà all’allungamento dell’attesa di vita nei Paesi occidentali, e si stima per un sesto alla riduzione della mortalità per cancro — parliamo sempre solo di farmaci innovativi. In Occidente farmaci o trattamenti avanzati sostengono concretamente anche la speranza di una vita qualitativamente apprezzabile per centinaia di milioni di malati.
Questi successi richiedono un costante miglioramento di conoscenze e tecnologie, e controlli adeguati per incrementare la sicurezza, cioè ridurre gli effetti avversi, e per valutare l’efficacia dei principi o dei preparati. Quindi gli esami a cui deve essere sottoposto un qualunque nuovo principio, che si pensa possa diventare farmaco, sono articolati, incerti, costosi, e richiedono in media più di 10 anni. Si parte da oltre 5mila composti per ottenerne uno che entrerà sul mercato, e l’investimento medio per ogni farmaco innovativo, calcolando anche gli insuccessi, è dell’ordine di 1,2 miliardi di dollari.
Attraverso questi investimenti l’industria farmaceutica sostiene sia la ricerca di base sia l’innovazione tecnologica, cioè aiuta il progresso economico e sociale. Anche se chi guida l’industria, si preoccupa prima di tutto di fare profitto, senza questi ricavi non vi sarebbero le risorse finanziarie che alimentano la spirale di vantaggi generalizzati di cui tutti godiamo. I farmaci rimangono i prodotti industriali con il più elevato valore aggiunto dal punto di vista scientifico, tecnologico e sociale. Circa il doppio rispetto agli altri prodotti industriali. Per inventare e portare sul mercato farmaci innovativi servono ricercatori scientificamente eccellenti e tecnologie sofisticate, nonché un sistema gestionale molto complesso. Stante la necessità di tempi lunghi di sviluppo ed elevati investimenti, i ricavi non sono così certi e stabili — anche se possono essere ingenti — come farebbe credere la vulgata mediatica. Di fatto sono influenzati da un periodo relativamente breve di sfruttamento reale del brevetto. Dopo il lancio, è mediamente di poco superiore a 10 anni. Questo significa che nel giro di 10 anni un farmaco importante va in qualche modo sostituito da uno equivalente o migliore, a fronte del fatto che esistono dei competitori e non sempre i margini di miglioramento ci sono. Si può decidere di cambiare area di intervento clinico, ma è un rischio non da poco.
Qualcuno pensa che ci libereremmo di una minaccia facendo scappare l’industria farmaceutica verso i Paesi asiatici? O che vi sia denaro pubblico a sufficienza per far fronte alle disastrose conseguenze di un’eventuale contrazione dell’industria farmaceutica occidentale? Forse pensiamo che alimentando le paranoie anti-industriali e anti-mercato, che si sono manifestate in tutto il loro candore di fronte all’ipotesi di un cartello farmaceutico nella vicenda Avastin/Lucentis risolveremo più rapidamente i problemi economici dell’Italia?
Coltivo anche una visione naturalistica della psicologia umana, per cui ho imparato e verificato che invidia e ipocrisia sono tratti umani innati, da cui viene quella forma di autoinganno che induce a credere che possa sempre esistere una soluzione ottimale per un problema — se non si trova è perché qualcuno sta complottando ai nostri danni — e che le persone siano ragionevoli, cioè che possano mai davvero accontentarsi di soluzioni solo vantaggiose. Se poi è in gioco la salute, men che meno. Quando le cose vanno relativamente male, è una tendenza innata anche dire che non sono mai andate peggio di così. Ma, in questo caso, non è vero.
Gilberto Corbellini
(l’autore è docente di Storia della medicina e Bioetica all’università di Roma Sapienza)