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 2014  marzo 25 Martedì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - OBAMA IN EUROPA ( E DOMANI IN ITALIA)


CORRIERE.IT
«Sta alla Russia agire in modo responsabile dimostrandosi disponibile a rispettare le norme internazionali: se non lo farà dovrà aspettarsi costi ulteriori». Così il presidente Usa Barack Obama parlando all’Aja in una conferenza stampa a margine del summit internazionale sulla sicurezza nucleare degli sviluppi della crisi in Ucraina. Se la Russia «andrà oltre» sono pronte sanzioni settoriali che possono colpire l’energia, la finanza ed il commercio, ha aggiunto il presidente Usa, nella prima conferenza dopo l’espulsione della Russia dal G8, avvenuta lunedì.«Se il popolo ucraino potrà prendere una decisione credo che sarà quella di avere rapporti sia con la Russia e che con l’Europa, in un gioco in cui tutti possono guadagnare qualcosa», ha proseguito Obama, che ha ammesso che sarebbe disonesto ritenere “semplice” la soluzione della crisi ucraina. Il premier olandese Mark Rutte, in conferenza stampa con Obama, ha ribadito che le sanzioni occidentali saranno fatte in modo «da colpire in modo mirato soprattutto la Russia» ed evitare conseguenze per gli altri paesi, in particolare Europa e Canada.
Il ruolo della Nato
«Ci stiamo organizzando in modo ancora più intenso per fare in modo che ci siano piani di emergenza e tutti gli alleati abbiano delle garanzie. Agiremo in loro difesa qualunque cosa accada: questa è la Nato», ha detto Obama. «Ogni alleato della Nato ha la rassicurazione che tutti noi, inclusi gli Stati Uniti, ribadiamo pieno sostegno al concetto di difesa collettiva previsto dall’art.5 del Patto Atlantico». Lo ha detto Barack Obama a proposito di possibili minacce sui paesi baltici. «Ci sono momenti in cui l’azione militare può essere giustificata».
Preoccupato dall’avanzata russa
Il presidente Obama è «preoccupato per gli ulteriori sconfinamenti russi in Ucraina» e ha ribadito di non riconoscere l’annessione della Crimea. Per quanto riguarda le truppe schierate al confine con la parte orientale del paese, ha ricordato che «per il momento sono sul territorio russo e finché rimangono lì è solo un atto di intimidazione ma è legalmente accettabile».
Berlusconi: «Sbagliato escludere la Russia dal G8»
«Trovo antistorica e controproducente la decisione dei leader riuniti a all’Aja di escludere la Federazione Russa dal G8 di ieri»: così Silvio Berlusconi in una nota. «Trovo davvero avventate e lontane dallo «spirito costruttivo tutte le decisioni prese in queste ore dalle diplomazie occidentali».«Questo contraddice il lungo e ponderoso lavoro diplomatico portato avanti dall’Italia e dai Governi da me presieduti per includere a pieno titolo la Russia nel consesso delle democrazie occidentali», prosegue Berlusconi. «Sono stato io, infatti, nel ‘94 - sottolinea - a invitare per primo il Presidente Eltsin al G7 di Napoli e nel 2001 a trasformare il G7 in G8 con il Presidente Putin a Genova». «E ancora nel 2002 - conclude - a volere e a concludere l’alleanza strategica tra la Nato e la Russia celebrata al vertice di Pratica di Mare».

PEZZO DI MASSIMO GAGGI SUL CORRIERE DI STAMATTINA
DAL NOSTRO INVIATO L’AIA (Olanda) — Russia condannata dall’Occidente all’isolamento. Il vertice dei Grandi riunitosi ieri sera all’Aia, in margine alla Conferenza per la sicurezza nucleare, ha deciso: niente G8 di Sochi. Il summit che avrebbe dovuto tenersi ai primi di giugno nella città russa sul Mar Nero è annullato. Il documento finale del G7 è molto duro: invadendo la Crimea Mosca ha violato tutti i principi basilari sui quali è fondato l’ordine internazionale: una minaccia che va, quindi, ben oltre quello scacchiere e che tocca tutti. Il G7 si sforza di mostrare a Vladimir Putin che non solo gli Usa ma anche il Giappone e l’Europa (nell’organismo sono rappresentati Gran Bretagna, Italia, Germania e Francia) sono compatti e decisi ad andare fino in fondo con le sanzioni se la Russia non arresterà la sua aggressione nei confronti dell’Ucraina.
Quella della Russia non è, però, ancora una vera espulsione. Piuttosto una sospensione: «Lasciamo una porta aperta» ha spiegato durante un incontro con alcuni giornalisti Ben Rhodes, il numero due del Consiglio per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca. «Se la Russia accettasse di avviare un processo di “de-escalation” tornando nell’alveo della legalità internazionale, il dialogo potrebbe ricominciare».
Ma per ora il clima resta quello di un confronto durissimo: il vertice di Sochi viene sostituito con un G7 che si riunirà a giugno a Bruxelles, città sede anche della Nato che ha appena mandato altre squadriglie di caccia in Polonia e nei Paesi Baltici, rafforzando anche la presenza navale nel Mar Nero con incrociatori lanciamissili. In quell’occasione verranno studiate (o adottate) ulteriori contromisure qualora nel frattempo la Russia non abbia allentato la sua morsa sull’Ucraina.
«Non si può parlare di una nuova Guerra fredda» spiega ai giornalisti Rhodes. Questo non perché la situazione non sia grave, ma perché, «a differenza di quanto avvenuto ai tempi dell’Urss e della cortina di ferro, stavolta la Russia non è a capo di un blocco ma è, anzi, totalmente isolata»: all’Onu la risoluzione di condanna non è passata perché Mosca ha il diritto di veto, ma la votazione in Consiglio di Sicurezza si è conclusa con un clamoroso 13 a 1. Gli americani danno un forte valore simbolico anche alla decisione della Cina di astenersi, accentuando la solitudine di Mosca.
Ma nell’incontro bilaterale avuto ieri con Barack Obama, il presidente cinese Xi Jinping, pur disteso e desideroso di rilanciare la collaborazione economica, non ha preso impegni per quanto riguarda le sanzioni contro Putin, mentre ha chiesto al presidente americano la fine dello spionaggio cibernetico Usa di aziende cinesi come Huawei.
E, sempre ieri, è stata pubblicata una dichiarazione dei «Bric» (Brasile, Russia, India e Cina), le potenze emergenti che hanno trascinato l’economia internazionale negli ultimi anni, che rifiutano di unirsi alle sanzioni contro Mosca, lasciando così all’Occidente tutta la responsabilità di un’offensiva economica.
Nonostante ciò e nonostante l’atteggiamento irridente delle autorità russe, Obama resta convinto che le misure finanziarie e, in prospettiva, anche commerciali, siano uno strumento di dissuasione efficace.
Certo, se andrà avanti l’aggressione nei confronti dell’Ucraina, l’Europa dovrà essere pronta a inasprire le sanzioni che a quel punto potrebbero toccare anche la sfera strategica dell’energia. E qui l’Occidente già si prepara a uno sforzo collettivo per ridurre la dipendenza dei Paesi europei (soprattutto Germania e Italia) dal gas russo: il comunicato finale del G7 annuncia solennemente che entro poche settimane (nel mese di aprile) si riunirà anche un G7 dei ministri dell’Energia con all’ordine del giorno una serie di iniziative miranti ad aumentare la sicurezza energetica. Gli Usa si dicono pronti ad aiutare i processi di diversificazione dell’accesso alle fonti di energia. Con la tecnologia di recupero dello «shale gas» e, probabilmente, anche con la vendita di petrolio e gas se il Congresso modificherà la legge che oggi vieta l’esportazione di idrocarburi.
Massimo Gaggi

M.GA.

La definitiva rimozione dell’uranio arricchito e del plutonio dei reattori nucleari sperimentali italiani — venti chili di combustibile trasferiti dal nostro Paese agli Usa, 100 in totale se si tiene conto anche degli accordi precedenti — bastano per confezionare un comunicato trionfale alla conferenza sulla non proliferazione iniziata ieri all’Aia. E’ il terzo di una serie di appuntamenti — il primo a Washington nel 2009, il secondo a Seul due anni dopo, il prossimo, l’atto finale, di nuovo nella capitale Usa, è previsto nel 2016 — organizzati proprio su iniziativa del presidente americano, Barack Obama, deciso a fare tutto il possibile per evitare che materiale radioattivo non più utilizzato nelle centrali atomiche o a scopi militari finisca nelle mani di qualche organizzazione terroristica. Un’altra iniziativa americana che oggi appare parzialmente azzoppata dal revanscismo russo: non solo perché l’aggressione all’Ucraina e la risposta dell’Occidente hanno fatalmente fatto spostare l’attenzione dal Nuclear Security Summit al G7 che si è riunito ai suoi margini, ma anche perché da tempo l’irrigidimento di Putin ha bloccato ogni iniziativa comune Usa-Russia per riprendere il cammino del disarmo. Ma, anche se ieri gli accordi principali annunciati all’Aia riguardano Paesi a basso rischio di proliferazione (Giappone e Belgio, oltre all’Italia), l’iniziativa lanciata nel 2009 alcuni risultati li ha raggiunti: da allora i Paesi che hanno ancora sul loro territorio materiali che, se cadono in mani sbagliate, possono materializzare l’incubo del terrorismo nucleare sono scesi da 39 a 25.
Certo, non è un esito soddisfacente: in questo campo basta un solo Paese-canaglia o un solo deposito mal custodito per far rischiare al mondo eventi apocalittici. Ma, anche se il marchio di questa conferenza è indelebilmente americano (Putin a queste iniziative non è mai venuto, nemmeno quando i rapporti Mosca-Washington erano distesi), i passi in avanti ci sono: a L’Aja sono venuti i capi di Stato e di governo di ben 53 Paesi, a cominciare dal presidente cinese Xi Jinping. E vale la pena di sottolineare che in questi anni, lontano dai riflettori e dalle dichiarazioni politiche che possono creare imbarazzi, anche Paesi come il Pakistan, l’India e la stessa Cina hanno cominciato a neutralizzare il loro materiale fissile non più utilizzato. Quasi sempre consegnandolo agli Stati Uniti che si assumono onere della sua riconversione o dello smaltimento.
M. Ga.

PEZZO DI SARCINA SUL CORRIERE DI STAMATTINA
DAL NOSTRO INVIATO DONETSK — C’è chi giura di aver visto una colonna di blindati russi non più tardi di dieci giorni fa a Yasinovataya, 40 minuti di macchina da Donetsk. Qualcun altro, invece, è sicuro che l’Armata di Putin sia rintanata in casa, ad Aleksandrovka, 100 chilometri dal confine orientale dell’Ucraina sulla strada che porta a Rostov sul Don.
Ombre russe e qualche evidente miraggio nei discorsi degli attivisti pro Maidan qui nella città del carbone e dell’acciaio, dell’industria e del football: la nuova linea di resistenza politica e psicologica dopo la perdita della Crimea. Chiaramente non risulta alcuna scorribanda di tank russi (un miraggio appunto), mentre è un dato di fatto che le truppe del Cremlino stiano manovrando ormai da settimane lungo il corridoio di frontiera.
In realtà sta diventando giorno dopo giorno più difficile filtrare e leggere gli avvenimenti al netto di una doppia propaganda. Quella di Mosca e, potrà dispiacere ma è così, quella di Kiev. Certo occorre distinguere. La messa in scena delle autorità russe è addirittura surreale. Le popolazioni di etnia russa o russofona sarebbero intimorite, minacciate da «provocatori» mandati dagli «impostori di Kiev», perché questo è il messaggio goffamente falso diffuso dal Cremlino.
Ma anche l’allarmismo di Kiev, che è una cosa diversa dalla distorsione dei fatti, non aiuta. Da ormai tre settimane il presidente Olexander Turchynov, il premier Arsenij Yatsenyuk e, soprattutto il responsabile del Consiglio per la difesa Andriy Paruby affermano con sicurezza che gli stivali di 100 mila militari russi marceranno presto lungo le strade di Donetsk e degli altri centri dell’Ucraina orientale.
Ci sono però alcuni punti fermi che, almeno per ora, sono verificabili sul campo da qualunque osservatore. Primo: a differenza della Crimea, Donetsk non è in armi. Non ci sono i segnali di una guerra civile imminente. Secondo: il sentimento popolare che anima le manifestazioni pro Russia non può essere liquidato come una provocazione fomentata dai servizi segreti di Mosca.
Nell’ultimo fine settimana si sono ritrovate cinquemila (sabato) e diecimila persone (domenica) tra la piazza Lenin e il Palazzo del governatorato. Il movimento è orientato, più che guidato, da un paio di forze blandamente organizzate: il Partito comunista e il blocco russo. Dopo l’arresto del leader Pavlo Gubarev, sta emergendo un nuovo piccolo gruppo dirigente in grado di predisporre il minimo indispensabile: un servizio d’ordine e una scaletta per la protesta, neanche tanto originale. Due ore in piazza stretti intorno a un palco ad ascoltare oratori improvvisati. Poi tutti in corteo fino al palazzone del potere locale, presidiato in forze dalla polizia.
Eppure fioriscono le leggende diffuse dai militanti pro Kiev e qualche volta raccolte anche dalla stampa internazionale. Su un quotidiano inglese, per esempio, sono comparsi articoli che danno per certo il ruolo della criminalità locale. I boss seguirebbero acquattati nelle Mercedes nere le mobilitazioni, impartendo istruzioni ai “quadri” sul terreno. Dopodiché uno guarda verso le piazza e vede una serpentina di giovani vestiti di nero o in tuta mimetica: sono criminali? Sono agenti russi camuffati? Oppure, come risulta dopo qualche verifica, sono semplicemente i militanti più convinti di Donetsk? Ma in ogni caso questo gruppo di agitatori non conterebbe nulla né socialmente né politicamente se non fossero circondati in maniera assolutamente spontanea da migliaia di persone pacifiche: anziane con la borsa della spesa e i nastrini arancioni e neri (il simbolo della vittoria nella Seconda guerra mondiale), ragazze che si tengono a braccetto, giovani coppie con il bimbo nella carrozzina e i palloncini colorati.
Il neogovernatore, l’oligarca Sergej Taruta (vicino a Julia Timoschenko), ha adottato la tattica del contenimento, mandando poliziotti senza armi a controllare la piazza. Da Kiev, però, almeno fino adesso non sono arrivati segnali di apertura. Il governo provvisorio sembra voler cancellare i connazionali di etnia russa che vivono a Donetsk o Kharkiv e in altri luoghi dell’Est. Un principio di discussione sull’ipotesi di costruire una repubblica federale viene stroncato senza appello da Svoboda, il partito nazionalista molto attivo nel post Yanukovich. In questo modo, inevitabilmente, la capitale finisce con il fornire argomenti alla propaganda filorussa che vorrebbe un referendum separatista come in Crimea.
In parallelo si sviluppa la sindrome dell’assedio. Le notizie in arrivo dalla penisola di Yalta sono dure da accettare per l’orgoglioso gruppo dirigente formatosi tra le tende di Maidan. I presidi militari ucraini sono costretti alla resa, uno dopo l’altro. Ieri mattina è toccato alla base navale di Feodosia: qualche ferito, un’ottantina di prigionieri. La comunicazione di Kiev diventa ancora più ansiogena: presto toccherà a noi. E la guerra di parole con Mosca continua.
Giuseppe Sarcina
gsarcina@corriere.it

OFFEDDU SUL CORRIERE DI IERI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BRUXELLES — L’ombra si allarga. E adesso la Nato lo dice apertamente, dal suo quartier generale di Bruxelles, a Barack Obama e ai 52 altri leader del mondo che convergono sull’Europa per una serie frenetica di vertici: dopo la Crimea la Russia minaccia anche la Trasnistria, repubblica in maggioranza russofona staccatasi dalla Moldavia, e confinante con l’Ucraina. Ha già chiesto da tempo l’annessione a Mosca, ora Mosca ammassa truppe alle sue porte. E dietro la Transnistria, c’è subito la Moldavia, che però il russo lo parla e lo ama molto meno: Vladimir Putin gioca al risiko con i pezzi dell’ex-impero sovietico? Il generale Philip Breedlove, comandante supremo della Nato, non usa giri di parole: «La forza militare russa che si trova ora al confine dell’Ucraina verso Est è molto ingente, e molto, molto preparata ad agire. Se decidono di muoversi, sono in grado di farlo, e questo è assai inquietante: il Cremlino sta agendo più come un nemico che come un alleato».
Eco puntuale dalle fonti del Pentagono: «Siamo molto preoccupati. Le forze russe si stanno rafforzando al confine orientale del paese. E riteniamo che si stiano preservando tutte le opzioni, incluse ovviamente ulteriori incursioni. Se decidessero di farlo, non riceveremmo alcun avvertimento». Il Cremlino ribatte di non avere «nulla da nascondere» e che le sue forze in zona sono nei limiti degli accordi. Ma perfino Vladimir Lukashenko, il dittatore della Bielorussia, dice che la Crimea è stata «un brutto precedente». Mentre per Andrii Deshchytsia, ministro degli esteri ucraino: il rischio di una guerra fra Mosca e Kiev «sta aumentando, non sappiamo che cosa abbia in mente Putin. Questo perché la situazione sta diventando sempre più esplosiva rispetto alla settimana scorsa». E’ vero, e infatti la Nato progetta ormai di ridisegnare le sue strategie all’Est: «Abbiamo bisogno di riflettere sui nostri alleati — dice ancora il generale Breedlove — sulla posizione delle nostre forze nell’alleanza, e sul grado di preparazione di queste forze, così che possiamo essere là a difendere, se necessario, specie nei Paesi baltici e in altre zone».
Tutto questo avviene mentre, come si diceva, l’Europa politica si ritrova di colpo al centro del mondo: i leader di vari continenti si sono dati appuntamento per parlare di tanti temi più o meno ufficiali che ne velano uno ben concreto, appunto la crisi russo-ucraina. Si comincia oggi, all’Aja in Olanda, con il G7 rafforzato dal vertice sulla sicurezza nucleare. Non vi sarà Putin, ma il suo ministro degli Esteri Sergei Lavrov che potrà incontrare faccia a faccia il segretario di Stato americano John Kerry. In compenso vi sarà il presidente cinese Xi Jinping, atteso da un colloquio con Barak Obama organizzato solo all’ultimo istante (e delicatissimo: la Cina si astenne, alla seduta del Consiglio della sicurezza dell’Onu sulla Crimea, marcando così la sua distanza da Mosca che aveva bloccato con suo veto la condanna delle Nazioni Unite). Mercoledì, a Bruxelles, primo vertice ufficiale di Obama con la Ue: oltre che di libero scambio e di Datagate, si parlerà ancora molto dell’Ucraina. Infine, vertice Ue-Cina con la prima visita di Xi-Jinping alle istituzioni europee, il 31 marzo. Ma forse lo sguardo di tutti sarà ancora rivolto a Est, al fiume Dniestr.
Luigi Offeddu

OFFEDDU SUL CORRIERE DI SABATO 22

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BRUXELLES — Truppe di altri Paesi dell’Unione Europea potrebbero essere presto inviate nelle nazioni baltiche dove forti minoranze russe si agitano, chiedendo aiuto e protezione a Mosca come già avvenuto in Crimea. La notizia trapela da fonti al massimo livello della Ue. E ha particolare rilievo se si considera che, a differenza dell’Ucraina appena mortificata dal Cremlino, Paesi come l’Estonia, la Lettonia, la Lituania e la Polonia sono membri della Nato, oltre che dell’Ue. Anzi: tutti e tre i Paesi baltici avrebbero già chiesto alla Nato, in coincidenza con la crisi in Crimea, l’invio di postazioni missilistiche e truppe di terra. La risposta della Nato, ovviamente, non la si conosce. Le stesse fonti citate ai vertici della Ue precisano che si parla ora di una nuova «presenza fisica militare». L’idea potrebbe essere già discussa durante la visita di Barak Obama a Bruxelles, mercoledì prossimo. L’ipotesi sul tavolo potrebbe essere quella di manovre militari congiunte, richieste da uno dei Paesi baltici alla Ue e alle nazioni «sorelle» confinanti; secondo altre fonti ufficiose, una candidata plausibile potrebbe essere la Lettonia, intimorita dalla possibile reazione di Mosca alle sanzioni occidentali.
Del resto, molte voci sono già confermate da fatti: la Francia ha comunicato ieri che invierà 4 suoi caccia (due «Rafale» e due «Mirage») nel quadro di un’altra operazione Nato, al fine di «rassicurare i nostri fratelli polacchi e baltici, vicini della Russia». E la Polonia, già sotto protezione degli aerei spia americani Awacs, fa sapere che accelererà «di parecchi mesi, a causa della situazione ucraina», la messa in opera del suo scudo stellare. La tensione in tutta l’area baltica cresce ormai da settimane: in Estonia, dove la minoranza russa è circa un quarto della popolazione, volantini e giornaletti del sottobosco ultranazionalista parlano già di «persecuzioni contro i patrioti», mentre altri fogli dal versante russo confermano queste voci e chiedono un «intervento fraterno» come quello già offerto alla Crimea. Lo stesso avviene in Lettonia, con minoranze russe pure vicine al 27%, dove però la situazione è aggravata da un’altra presenza, decisamente la più sinistra di tutte: sparuti drappelli di ex membri delle squadre lettoni delle Ss, accompagnati da gruppi molto più folti di simpatizzanti più giovani e organizzati, hanno sfilato per le strade di Riga ostentando i loro simboli e dicendosi pronti a riprendere la «loro» guerra contro la Russia. Agli uni e agli altri, le armi non mancherebbero. Potenzialmente meno esplosiva è invece la situazione in Lituania, dove la minoranza russa si aggira intorno al 6%. Ma anche lì, le parole volano e abbondano le ricostruzioni storiche più o meno manipolate a favore dell’una o dell’altra parte.
Non è solo il Baltico, però, a preoccupare. Il «modello Crimea» sembra affacciarsi anche in aree più interne e meno note dell’Est, dove pure la Russia si è presentata nei giorni scorsi con mezzi blindati, elicotteri, paracadutisti, per quelle che sono state definite pudicamente «esercitazioni difensive»: è il caso della Transnistria, o Prednestrovia, repubblica russofona confinante con la Moldavia. Indipendente almeno sulla carta –lo divenne con l’appoggio della «mitica» quattordicesima armata sovietica guidata dal generale Lebed, ancora ai tempi di Gorbaciov e Eltsin - non dovrebbe aver motivo di accogliere i carri armati altrui. Ma lo ha fatto, terrorizzando così i vicini moldavi: anche da quelle parti ci sono giacimenti di petrolio, e comunque la povertà diffusa non cancella il valore strategico dell’area.
Paura e tensione si estendono di confine in confine, seguendo i contorni di quello che fu l’impero sovietico, e giungono perfino a ritoccare i bilanci della difesa nei singoli Paesi. Così, nella Repubblica Cea, il ministero della Difesa ha progettato un aumento delle proprie risorse fino all’1,5% del prodotto interno lordo. La Lituania, Paese tradizionalmente «pacifista» perché spende meno dell’1% del suo Pil nel settore militare, progetta anch’essa di elevare questa somma il più possibile, forse di raddoppiarla. Putin sconfigge anche l’austerità.
Luigi Offeddu

IVO CAIZZI SUL CORRIERE DI VENERDI
DAL NOSTRO INVIATO BRUXELLES — Un botta e risposta a base di sanzioni individuali simili, tra la Casa Bianca e il Cremlino, ha reso il caso Ucraina e l’annessione della Crimea alla Russia ancora più centrale nel Consiglio dei 28 capi di Stato e di governo dell’Ue, che originariamente era convocato solo sui temi economici. Già prima di iniziare i lavori nel palazzo Justus Lipsius di Bruxelles la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese François Hollande hanno annunciato l’estensione delle sanzioni ad altri esponenti della nomenklatura di Mosca, la cancellazione del vertice Ue-Russia in programma a giugno e la sospensione delle riunioni del G8 a cui partecipa il presidente russo Vladimir Putin.
Il presidente Usa Barack Obama ha incluso nella lista nera delle sanzioni Yury Kovalchuk, considerato «il banchiere di Putin», l’oligarca Gennady Timchenko e due amici personali del presidente russo come i fratelli Arkady e Boris Rotenberg. La replica del Cremlino ha colpito il portavoce della Camera dei rappresentanti Usa John Boehner, il leader dei repubblicani John McCain, insieme ad assistenti e consiglieri per la comunicazione di Obama.
I leader Ue sono apparsi ancora una volta divisi sul livello delle ritorsioni contro l’apparato di Putin. La discussione a Bruxelles si è estesa nella notte. Germania, Italia e Belgio hanno guidato lo schieramento più prudente, mentre Regno Unito, Polonia e altri Paesi dell’Est hanno chiesto di seguire Obama nell’estendere le sanzioni varate lunedì scorso dal Consiglio dei ministri degli Esteri Ue contro 21 personaggi di livello medio-basso.
Merkel ha limitato l’azione dell’Ue alla fase 2 (ulteriori sanzioni individuali con limitazioni dei visti e congelamento di beni) e si è opposta al passaggio al livello massimo, che coinvolgerebbe le attività bancario-finanziarie e il settore energetico. «In caso di escalation siamo pronti in qualsiasi momento a passare alla fase 3 delle sanzioni, che saranno economiche», ha minacciato Merkel facendo capire l’intenzione di privilegiare le trattative con Putin. Germania e Italia considerano attentamente la loro dipendenza dal gas e dal petrolio russo. Pesa anche l’ingente interscambio complessivo con Mosca. La Bulgaria, che importa dalla Russia la quasi totalità dell’energia, ha annunciato di non voler appoggiare eventuali sanzioni su larga scala contro il Cremlino. Il presidente francese François Hollande ha parlato di «sospensione delle relazioni politiche» con Putin e ha sostanzialmente seguito la linea della Merkel. Anche perché la Francia, che ha maggiore autosufficienza energetica grazie al nucleare, non intenderebbe bloccare le sue forniture militari alla Russia. «I più importanti leader europei devono andare a Mosca e Kiev per aiutare il dialogo», ha suggerito il premier belga Elio di Rupo.
Il Regno Unito ha invitato a seguire l’esempio Usa. «Quello che la Russia ha fatto è inaccettabile — ha affermato il premier britannico David Cameron —. I Paesi Ue devono parlare con una voce chiara e unita, cioè più congelamenti di beni e divieti nei viaggi». Sulla stessa linea si sono espressi il premier svedese Fredrik Reinfeldt e la presidente della Lituania Dalia Grybauscaite. Un po’ tutti hanno convenuto sulla necessità di ridurre la dipendenza dell’Ue dal gas e dal petrolio russo. Una specifica discussione su questi problemi energetici è attesa oggi, giornata conclusiva del summit Ue.
Ivo Caizzi

GAGGI SUL CORRIERE DI MARTEDI 18 MARZO
Negli Usa c’è chi si chiede se la diplomazia sia l’unica via per risolvere la crisi tra Russia e Ucraina e se l’isolamento avrà effetto.
«La Russia ha da perdere assai più degli Stati Uniti da una prolungata condizione di isolamento politico». Le parole pronunciate ieri durante un briefing per la stampa da un alto funzionario della Casa Bianca illustrano il calcolo politico che circola in queste ore a Washington assai meglio di qualunque analisi delle nuove sanzioni decise ieri dal governo americano e di un confronto con le analoghe misure adottate dall’Unione Europea. E quando Barack Obama, poche ore dopo un altro teso confronto telefonico notturno col presidente russo Putin, scende nella sala stampa della Casa Bianca per spiegare in dettaglio le nuove sanzioni appena varate, insiste sull’immagine di una «Russia isolata dal resto del mondo». Che le cose stiano davvero così è ancora tutto da vedere, come sospettano quelli che scavano nelle differenze di accenti tra Washington e Bruxelles. Tanto più che esponenti di vari governi (compreso quello italiano) sottolineano la temporaneità dei provvedimenti appena adottati che dovrebbero restare in vigore per non più di sei mesi. Eppure le sanzioni decise sulle due sponde dell’Atlantico sono in larga misura sovrapponibili. Certo, nel caso americano c’è già l’elenco completo dei dirigenti che verranno colpiti, compresi alcuni personaggi molto vicini a Putin come Vladislav Surkov, Sergey Glazyev e il vicepremier Dmitry Rogozin. Ma, al di là della durezza delle dichiarazioni, Washington si sta sforzando di lasciare ancora aperto un margine per il negoziato diplomatico: Mosca replica con irritazione, probabilmente adotterà misure di rappresaglia, ma nella capitale russa c’è anche sollievo perché gli Usa non hanno colpito personalmente né Putin né le figure chiave del mondo economico russo e del suo sistema bancario. Quelli sanzionati sono personaggi importanti, certo, ma, a quanto si sa, nessuno ha patrimoni rilevanti negli Usa o nei Paesi dell’Unione Europea. Il valore delle misure di ieri sta soprattutto nell’annuncio che la platea dei personaggi e delle imprese colpite crescerà di molto, ai ritmi di una vera escalation, se Mosca non fermerà la sua aggressione dell’Ucraina. Ma Obama per ora parla solo di sanzioni economiche e di isolamento diplomatico mentre il Wall Street Journal chiede un rafforzamento dei dispositivi militari e il dispiegamento di nuove forze Nato in Polonia e nei Paesi baltici per contrastare il revanscismo di una Russia che cerca di riportare le lancette della storia al Diciannovesimo secolo: era di conquiste napoleoniche e di imperi costruiti con la forza delle armi. E ora anche il progressista New York Times comincia a chiedersi quanto sia praticabile la strategia del presidente basata sul multilateralismo e la preferenza per la forza dello sviluppo economico rispetto alla forza militare, visti i modesti risultati fin qui conseguiti, dalla Siria all’Ucraina passando per la Libia. Ma Obama per ora non cambia rotta. Convinto che ci vorrà tempo per far emergere l’alto costo politico ed economico che la Russia dovrà pagare per la sua aggressione, pur accentuando la pressione sul Cremlino, continua a parlare di una possibile soluzione diplomatica a una settimana dal vertice dell’Aja e della sua visita all’Unione Europea.

CAIZZI SUL CORRIERE DI MARTEDI’
DAL NOSTRO INVIATO BRUXELLES — L’annuncio di sanzioni economiche e sui visti di espatrio fa salire la tensione tra Ue, Usa e Russia nella crisi in Ucraina. Il Consiglio dei ministri degli Esteri dell’Ue, pur giudicando «illegale» il referendum di domenica scorsa per l’annessione della Crimea a Mosca, ha però varato ritorsioni temporanee solo su 21 personaggi minori: per continuare a lasciare aperti tutti gli spazi di soluzione diplomatica con il presidente russo Vladimir Putin. A Bruxelles non hanno seguito la linea dura del presidente Usa Barack Obama, che poco prima aveva annunciato sanzioni contro alti esponenti della nomenklatura più vicina a Putin e non ha escluso un successivo intervento fino al vertice del Cremlino.
Tra i ministri Ue ha prevalso la linea prudente promossa dalla Germania con l’appoggio di Italia e Francia. Il ministro degli Esteri tedesco, Franz-Walter Steinmeier, ha detto che l’obiettivo Ue è «lasciare la porta aperta al negoziato» e inviare subito in Ucraina «700-1.000» osservatori non armati dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) per verificare se la Russia stia destabilizzando le zone a Est e a Sud. La Germania vuole la conferma di quanto Putin ha sostenuto nelle continue telefonate con la cancelliera tedesca Angela Merkel, che ieri ha ribadito la necessità di una «soluzione diplomatica» in Ucraina.
«Non possiamo andare verso un conflitto ai confini dell’Europa — ha affermato il ministro degli Esteri Federica Mogherini —. Bisogna evitare che la Russia cada nella tentazione dell’isolamento internazionale». Le forniture di gas e di petrolio russo giocano un ruolo importante nella posizione di Berlino e Roma. L’Eni ha ventilato aumenti dei prezzi per Italia e Sud della Germania in caso di blocco del gas russo. Mogherini ha richiamato specificamente «la stretta interconnessione tra le nostre economie» e ha confermato l’intensa discussione tra i ministri Ue sulla «tenuta interna» del nuovo governo di Kiev (accusato dal Cremlino di essere emerso da un colpo di Stato) e sulla necessità di renderlo «inclusivo» con le altre componenti nazionali. La responsabile della Farnesina ha precisato che «la parola passa a Mosca e la decisione politica spetta a Putin». L’Ue valuterà nel Consiglio dei capi di Stato e di governo in programma giovedì e venerdì prossimi a Bruxelles. «È possibile aggiungere altre sanzioni — ha minacciato il ministro degli Esteri inglese William Hague, che con Polonia e altri Paesi dell’Est guida il fronte filo-Usa —. Dipende da come reagirà la Russia». Venerdì i 28 leader considereranno anche un accordo di apertura a Kiev.
Il Consiglio dei ministri ha poi reso noti i nomi dei 13 russi (8 parlamentari e 3 comandanti militari) e degli 8 leader ucraini filo-Mosca, sottoposti alla sospensione dei visti e al congelamento di fondi all’estero perché accusati dall’Ue della destabilizzazione separatista della Crimea. Di ben altro peso politico risultano alcuni degli 11 notabili filo-Putin (7 russi e 4 ucraini) attaccati dalla Casa Bianca con sanzioni economiche e nei viaggi. Spiccano la presidente della Camera alta del Parlamento di Mosca Valentina Matviyenko, il vicepremier russo Dimitri Rogozin e due consiglieri molto ascoltati da Putin come Vladislav Sourkov e Sergei Glaziev. Tra gli ucraini figurano il presidente Viktor Yanukovich, deposto dopo le rivolte popolari a Kiev, e Viktor Medvedchuk, un politico e ricco oligarca molto ben visto anche dal premier russo Dimitri Medvedev. Ma a Mosca, dopo l’esito del referendum, hanno dichiarato la Crimea indipendente. E Rogozin ha replicato alle sanzioni Usa ironizzando provocatoriamente: «Camerata Obama, cosa deve fare chi non ha conti o proprietà all’estero?».
Ivo Caizzi