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 2014  marzo 25 Martedì calendario

DE ROSSI E L’AMORE PER LA MAGLIA

Assieme a Francesco Totti, sei il simbolo dell’As Roma. Solo che lui viene dal centro della città e tu da Ostia. C’è differenza?
«Ostia è il mare di Roma. È li che la gente di Roma viene a fare il bagno l’estate. Circa trenta minuti dal centro della città. D’altronde la maggior parte delle cose che ho, le ho a Roma: i miei amici, i miei conoscenti, la famiglia della mia compagna, il mio avvocato, il mio notaio... Ma se posso restare lontano dal centro di Roma non posso restare lontano da Ostia a lungo. Il mare mi manca troppo. Noi Lidensi viviamo lì, il mare è fondamentale, come ti giri lo vedi, lo senti, lo respiri... L’inverno il mare è mosso, c’è la schiuma, le spiagge sono deserte. In questo momento dell’anno il mare ci appartiene veramente».
Com’è stata la tua adolescenza lì?
«Le persone del mio liceo erano dei ragazzi per lo più di sinistra. Io ero con loro, ma non ero come loro. Scrutavo, osservavo, ascoltavo, cercavo anch’io di comprendere qual era la mia identità ma ero meno interessato alla politica. Nella mia scuola c’erano sempre delle autogestioni, dei blocchi, delle occupazioni e devo dire che non ero di quelli che si piantavano con le bandiere ma piuttosto di quelli che ne approfittano per restare a casa a dormire. Non avevo neanche lo stesso tempo libero. La maggior parte dei miei amici erano dei surfisti che ascoltavano i Red Hot Chili Peppers e i Range Against the Machine. Ostia non sarà come le Hawaii ma è piena di surfisti. Con il surf ci ho provato ma ero davvero imbranato e non sono neanche il tipo da grondare sotto il sole, anche perché ho una carnagione chiara e non mi abbronzo. Di solito finisco a giocare a carte con gli anziani. C’è un chiosco ad Ostia che appartiene alla mia famiglia, allo Sporting Beach. Ci sono cresciuto. Ancora oggi ci passo del tempo a giocare a carte con persone di 60-80 anni. Questi signori si ricordano tutte le carte che passano, anche se ci sono 20 mani e ogni nuova carta che esce porta una battuta, la stessa battuta da trent’anni. L’asso di bastoni è quella battuta, l’asso di denari è quell’altra battuta. Non c’è maniera per loro di non fare battute».
In quale momento l’As Roma è entrata nella tua vita?
«Da quando ne ho memoria sono sempre stato tifoso della Roma. La prima volta allo stadio è stata con mio padre. La Roma giocava allo stadio Flaminio perché all’Olimpico c’erano dei lavori per la coppa del mondo del ‘90. Sarà stato nell’88-89. Eravamo in Tribuna Tevere, la curva era accanto. Non mi ricordo per niente la partita e in fondo credo che quello che succedeva nel campo non mi interessasse proprio. Passai la partita, racconta papà (che lavora per le giovanli della Roma, ndr) a guardare la curva. Vedevo queste persone che giravano la schiena al terreno di gioco e mi dicevo “Ma perché non guardano la partita?! Sono venuti a vedere la partita, i loro idoli sono proprio davanti a loro e loro non li guardano!!” . Non capivo cosa succedeva ma è stata una grande emozione, comparabile alla prima volta quando più tardi ho fatto il raccattapalle. Un’esperienza che non scorderò mai, forte quanto la mia prima partita in Campionato o in Champions».
Com’era?
«Un Roma-Inter. Se la Roma avesse vinto, avrebbe giocato la Coppa Uefa, cosa rara all’epoca. Vittoria 1-0 con gol di Di Biagio su rigore. Carlo Mazzone, l’allenatore di allora, si è precipitato a festeggiare la vittoria sotto la curva. Ho corso dietro a lui. Ho corso molto quando ero raccattapalle… L’anno scorso è uscito un dvd con tutti i gol di Totti. In questo video mi sono visto più volte corrergli dietro vestito con la tuta da raccattapalle, che fargli un passaggio decisivo o festeggiare un gol con lui in veste di compagno di squadra. Ho 14 anni in questo video, non mi si riconosce ma io mi sono riconosciuto. So ogni volta dov’ero, mi ricordo perfettamente i gol e mi ricordo perfettamente cosa ho fatto dopo i gol. Ma devo essere onesto: se un giocatore famoso della squadra avversaria passava davanti a me, ero ugualmente affascinato come se fosse stato un giocatore della Roma. Mi ricordo per esempio che un giorno, Buffon mi ha dato i suoi guanti. A me e al raccattapalle che mi era accanto e che ancora oggi è il mio migliore amico. Eravamo innamorati di questi grandi giocatori perché rappresentavano quello che volevamo diventare».
Totti era un modello più degli altri?
«Quando Francesco ha cominciato c’erano tanti romani nella squadra: Scarchilli, Di Biagio, Petruzzi… Tra loro, Francesco era il più talentuoso, ma all’inizio, almeno per me, passava quasi inosservato in questo gruppo. Poi ho visto gli altri perdersi, cambiare squadra, fare altre scelte di carriera. Ma lui è rimasto. E’ diventato un simbolo. Avevo 16-17 anni quando mi sono ritrovato seduto accanto a lui. Era per me metà idolo metà compagno di squadra. Rientrare nello spogliatoio e sentirlo dire “De Rossi passami la bottiglia” è stato uno choc. E c’erano anche gli altri “De Rossi, mi passi una mela?”. Ti giravi e vedevi Batistuta. Era lui a farmi più effetto d’altronde. Quando arrivava Batistuta, aveva una luce intorno… Una luce meravigliosa».
Lo chiamavano il Re Leone.
«Mi affascinava, trasudava carisma, eleganza, fascino... Necessariamente a un certo punto ho cominciato a parlargli, a ridere con lui. Ma non ho mai considerato questo come una cosa normale. Ho saputo misurare ciò che mi succedeva».
In quale momento sei diventato uno di loro, allora?
«È grazie a Capello (allenatore della Roma dal ‘99 al 2004). Ci sono degli allenatori che prendono un giovane e lo fanno allenare con la prima squadra perché gli manca un giocatore per l’allenamento. Così, senza preavviso: “Oggi vieni, ti alleni con noi”. Capello non faceva cosi. Ti dava veramente un posto nella rosa. Ti dava una maglia, un calzoncino, un numero. Una volta che hai questo, vuol dire che, anche se sei il più piccolo, hai il tuo posto. Era così perchè Capello non lo faceva con il primo che capitava. Lui, prima di dare spazio ad un ragazzo, lo considerava come un giocatore di calcio…».
La tua prima partita in campionato nel 2003, l’hai giocata grazie a Pep Guardiola, allora alla Roma.
«Sì. Aveva trovato un accordo per andare via dal club, allora il mister disse: “Domani Guardiola va via, allora faccio giocare il ragazzo”. Se non fosse partito quel giorno avrebbe giocato lui. Guardiola era un uomo particolare. Vedevo che Roma non era nel suo mondo, sembrava spaesato. Veniva da un calcio con una mentalità differente e si ritrovò qui, dove si pensava soprattutto al risultato e molto poco al bel gioco. Gli italiani poi dicono che l’importante è giocare bene… (ride, ndr). Qui, anche tra mille anni, l’importante sarà sempre vincere, non giocare bene. E malgrado tutto, Guardiola provava con noi giovani – io, Aquilani e gli altri – a trasmetterci la sua idea di calcio, i suoi principi, che erano già quelli che ha messo in pratica a Barcellona».
Il 26 maggio scorso, la Roma ha perso la finale di Coppa Italia contro la Lazio. Come hai vissuto tu che sei giocatore/tifoso quel momento?
«Per fortuna i nostri avversari non hanno festeggiato in maniera troppo indecente. Nel tragitto di ritorno dallo stadio a casa, ho visto appena qualche scooter con un tifoso sopra che teneva una sciarpa, una bandiera avversaria, ma non cose sproporzionate che mi avrebbero fatto ancora più male. Il resto della serata… Ti dirò, mi fa male ricordare. Ero con la mia compagna e le ho fatto vivere una serata... E una settimana... Poverina, è stato brutto, veramente brutto. Mi sono chiuso a casa. Non è che ero triste, ero distrutto. Pensavo di non poter rimarginare mai questa ferita».
Durante l’estate ci sono state parecchie voci a proposito della tua partenza dalla Roma.
«Ci sono state parecchie voci perché per la prima volta si era capito che ero disposto ad andarmene. Il mio legame con la Roma è molto forte e profondo. So che se dovessi partire un giorno molti tifosi sarebbero tristi. Allora partire, non partire… Ti poni le domande mille volte, esiti. E questo finisce sempre alla stessa maniera: “De Rossi non vuole andare via”. Ma questa estate è stato differente. Mi ero quasi convinto – non totalmente, ma quasi – che fosse la miglior cosa da fare per me e per la Roma. Un po’ a causa del 26 maggio, ma anche a causa di come le cose erano andate con Zeman, l’allenatore della scorsa stagione. Se una buona squadra fosse arrivata con una buona offerta, prima di una certa data, sarei andato via. Avevo fatto un patto con il nuovo allenatore, dopo una certa data non potevo più partire. La squadra buona (Manchester United, ndr) è arrivata in ritardo rispetto a questo patto. Se questa offerta fosse arrivata prima forse non saremmo qui a parlare. O saremmo a parlarne altrove».
Qual era il problema con Zeman?
«Non lo so. Francamente non lo so. Non ho mai litigato con lui. A Roma si scrivono molte fantasie. È quello che fa vivere un sacco di personaggi da due lire, degli pseudo-giornalisti. Queste persone hanno raccontato mille cose. Che ero stato maleducato, che ero stato violento. Ma non ho mai litigato con Zeman. Quanti anni ha Zeman? 65? Io mostrarmi violento con il mio allenatore di 65 anni? Siamo seri. Non ho mai litigato con un allenatore, non ho mai detto “mi devi far giocare così” o “fammi giocare senno faccio un casino”. È qualcosa che va contro i miei principi. Rispetto i miei allenatori, che mi facciano giocare o no, che propongano degli allenamenti che mi piacciano o no. Zeman, credo semplicemente che in fin dei conti, non mi ritenesse il suo tipo di giocatore, e sono certo che ci saranno altri allenatori che la pensano come lui».
Come hai reagito all’arrivo di Rudi Garcia?
«Non lo conoscevo. Sapevo che il Lille aveva vinto il campionato e la Coppa di Francia qualche anno fa, ma se tu mi avessi domandato qual era all’epoca l’allenatore non avrei saputo dirti il nome. Di colpo, quando ho appreso che sarebbe stato lui ammetto che ho avuto qualche dubbio. Si aveva l’impressione che lo avevano preso perché non erano riusciti a far venire Mazzarri o Allegri... Si poteva pensare che fosse la quarta scelta. Mi ricordo che sono andato su internet e ho scritto “Rudi Garcia” e lì la prima cosa che ho visto è un video di lui e la sua chitarra mentre canta “Porompompero”».
E lì cosa ti sei detto?
«Mi sono detto “Guarda chi cazzo abbiamo preso?”. Ero in nazionale quel giorno. Mi rivedo ancora col computer sulle ginocchia e questo tizio con la chitarra. Ero in camera con Pirlo, gli mostrai la cosa e dissi: “Guarda chi cazzo abbiamo preso?!”. Neanche Pirlo lo conosceva. Non dico che pensavo che le cose sarebbero andate male, eh. È che non lo conoscevo e che la prima immagine che ho avuto di lui è stata di un tizio con la sua chitarra. Ma oggi, sinceramente, ringrazio Dio che abbiamo preso “Pompompero”. Quante volte si è preso un allenatore affermato per poi andare male? Fortunatamente Garcia è qui. Quello che fa qui può essere un punto di svolta nella storia della Roma».
Quando uno straniero arriva alla Roma, che consigli gli dai?
«L’ultimo arrivato è Bastos. Finora ho parlato 6-7 volte con lui, di banalità. Nello stesso tempo ha passato 90 minuti in tribuna, in mezzo ai tifosi per vedere Roma-Juventus. Un quarto di finale di Coppa Italia, non di Champions League, eh, di Coppa Italia. 65.000 spettatori, che hanno fatto un chiasso assordante per 90 minuti, che hanno festeggiato la vittoria (1-0, ndr) come se avessimo vinto non so che. Bene. Credo che Bastos abbia capito dove ha messo piede. E sono certo che ha già capito che se perdiamo le prossime partite 5-0, questo amore, questo fuoco, ci possono ritornare contro. Questo fuoco può bruciarti. Ambienti così caldi come Roma in Europa quanti ce ne sono? Ambienti capaci di darti e di prendere altrettanto? Pochi, molto pochi. Questo non si spiega, bisogna vederlo con i propri occhi».
Si dice che per cogliere l’anima di Roma, bisogna essere straniero alla città, come lo erano Fellini e Pasolini, uno di Rimini, l’altro del Friuli...
«Se avessi vissuto all’epoca di Pasolini, la sua Roma, senza dubbio l’avrei vista io pure, l’avrei osservata anche io. La differenza è che non sarei stato capace di descriverla, di farne un poema, un romanzo, uno scenario, un film. Lo stesso per Fellini. È una questione di talento. Io vi dirò: i romani posso guardarsi indietro per guardare loro stessi. Citerò il nome di Trilussa, un grande poeta romano di fine ‘800. È meno conosciuto all’estero di Fellini e Pasolini ma è uno che Roma l’ha saputa descrivere. Ogni suo poema è corto, a volte troppo corto. Tutto scritto in dialetto romanesco. Prendi un libro, aprilo: respiri l’odore di Roma. Le parole traspirano romanità. Scrivere in dialetto non gli ha permesso di essere conosciuto e celebrato all’estero. Ma Trilussa è un grande artista. E non era del nord Italia».
Ad un certo punto della tua carriera sei andato ad abitare nel pieno centro di Roma.
«Uscivo da una separazione all’epoca e avevo comprato ad Ostia una casa davanti alla quale passavo quando ero bambino e mi dicevo sempre “Quando sarò grande la comprerò”. Ma non è stata pronta subito, bisognava fare dei lavori. Al tempo stesso avevo questo appartamento nel centro storico di Roma a Campo de’ Fiori che affittavo o prestavo ad amici. E poi un giorno mi sono detto “allora perché non io? proviamoci”. Mi dicevo che sarebbe stato un inferno, che avrei avuto una pressione colossale. Le prime settimane è stato effettivamente così. La gente era sbalordita quando mi vedeva. Soprattutto alla vigilia di una partita. Si dicevano “ma che fa questo, si fa un giro tranquillo in pieno centro quando ha una partita domani?” e invece no, rientravo a casa per riposare (risata). Passato questo momento di sorpresa ho cominciato a fare conoscenza con le persone che lavoravano in piazza. I ristoratori, i pub, i bar, quelli che lavorano al mercato quando c’è il mercato. E sono diventato uno di loro. Un tizio del loro quartiere, niente di più. Non dico che passavo inosservato ma quasi. La mattina a Campo De Fiori quando c’è il mercato, si vede la vera Roma uscire fuori. Famiglie che lavorano ai loro banchi da secoli, che sono di Roma da secoli, che abitano il quartiere da secoli. E questa gente, questo quartiere si è presa cura di me. Soprattutto la sera delle sconfitte. Siccome la piazza è pedonale, dovevo attraversarla a piedi per tornare a casa. 100 metri da camminare in mezzo a una piazza gremita, perché a Campo de Fiori la notte la gente fa festa mentre io non avevo che una voglia, quella ritrovarmi solo su una montagna. Non era l’ideale, ma nessuno mi ha mai importunato».
Dall’inizio dell’intervista quando parli della Lazio, tu dici “i nostri avversari” ma mai la parola “Lazio”. È una parola che non pronunci mai?
«Sì sì, lo dico (risata), dire la parola Lazio non è un problema per me. La gente che viene da Roma sa che è un odio calcistico, una rivalità che ti si impone appena scegli una delle due squadre. Non è proprio una “scelta” diciamo, ti è trasmesso in eredità da uno dei tuoi genitori. Un odio calcistico ed eterno dunque. Ma c’è del rispetto. Durante il derby, allo stadio, mi insultano ma io trovo ciò del tutto normale. E finisce lì. Non ho mai avuto problemi con dei tifosi della Lazio passeggiando per Roma. In nessun quartiere. E questo lo rispetto. Alcuni miei amici sono della Lazio, gente che amo profondamente è della Lazio. Mi scoccia quando vincono e quando perdono li prendo in giro, non si va oltre. Questo è il mio rapporto con la Lazio. Non migliorerà mai, non peggiorerà mai».
Giocare in una città dove ci sono due club rende la vita più intensa?
«Sì. È una cosa affascinante. A volte fai una brutta stagione, finisci ottavo in campionato, ma se la Lazio termina decima, va bene, puoi respirare. È una cosa che non puoi capire se vieni da Parigi. Allo stesso tempo mi fa dire anche che se Roma avesse avuto una sola squadra come Napoli o Parigi allora la città avrebbe la più grande tifoseria del mondo. Senza alcun dubbio. Parlo del numero di persone interessate al calcio. Parlo di malattia per il calcio. Immagini? Se tutta la città tifasse la stessa squadra, se tutta la città tifasse la Roma? E’ evidente che la squadra si sarebbe chiamata Roma e non Lazio...».
Se non fossi stato calciatore, saresti diventato quale tipo di tifoso della Roma?
«Ho degli amici che fischiano, insultano, diventano pazzi. Io anche da ragazzino non sono mai stato così. Non mi sono mai arrabbiato con un giocatore perché giocava male o perché se ne andava. Forse perché ho sempre saputo che faceva parte del mestiere (suo padre era un giocatore di serie C, ndr)».
Parliamo ora della nazionale. Sei uno dei pilastri.
«Quando ero ragazzino, tifavo poco o niente per la Nazionale. La seguivo quando c’erano i mondiali, gli europei. Ma un Italia-Azerbaigian di qualificazione non lo guardavo mica e non m’importava di sapere come era finito. Io ero “Roma, Roma, Roma”. Quando sei di qua credi che Roma sia la più grande e la sola squadra del mondo. Sei in una bolla. Poi cresci e diventi calciatore, vai in nazionale, hai 17 anni, entri a Coverciano e vedi quella sala con le foto di tutti i campioni che sono passati da lì e che hanno indossato quella maglia. La maglia azzurra. E a poco a poco cominci a comprendere dove sei. Comincia ad essere qualcosa a cui tieni. Poi gli anni passano, e quella maglia non hai più voglia di lasciarla. Non vuoi che qualcuno la indossi al posto tuo. Ecco cosa mi è successo. Oggi starei male, molto male, se non dovessi partecipare al Mondiale. Abbandonerò la maglia della Nazionale solo quando un selezionatore mi dirà “non sei più all’altezza, selezionerò un giovane al posto tuo”. Spero sarà il più tardi possibile. La mia idea è di fare l’Europeo in Francia».
In nazionale hai presto avuto dei problemi: quella gomitata all’americano McBride nel mondiale 2006 per esempio che ti è costata una espulsione.
«Non so come spiegarlo. È stata una gomitata, ecco. Era una bella bestia che saltava alto, robusto, ed io ci sono andato carico per farmi rispettare e ho esagerato. Era giusto criticarmi ma certi giornali ne hanno approfittato per buttare un po’ di merda sui romani e su Roma, sulla brutta gioventù di Roma e considerazioni politiche che non avevano niente a che vedere col gesto. Fortunatamente, Pirlo, con cui dividevo già la camera, e che posso dire oggi che è un mio amico, è stato grande. Ha continuato a trattarmi come un compagno di squadra normale, a scherzare, a portarmi a cena con il fratello. Questo mi ha permesso di non pensare troppo a quelle 4 giornate di squalifica che in un Mondiale sono un’enormità. C’era anche Nesta con noi, perché si era infortunato presto in. Eravamo spesso tutti e tre insieme. È stata dura ma così ci ho pensato di meno».
E Lippi, il commissario tecnico?
«Prima di conoscerlo, in quanto tifoso della Roma, Lippi non mi era simpatico. Non tifavo per la sua squadra. Ero andato a Roma a vedere la finale di CL 95-96 Juventus-Ajax e vi posso dire una cosa: non tifavo Juventus. Poi mi ha selezionato per la nazionale ad appena 21 anni e ho imparato a scoprire l’uomo. Succede spesso. Sono sicuro che anch’io a tante persone che seguono il calcio non sto simpatico, ma so che se mi conoscessero penserebbero il contrario. Lippi con me è stato meraviglioso. Dopo quattro partite di squalifica al Mondiale, mi ha fatto giocare la finale. A mio avviso, nessun altro selezionatore al mondo l’avrebbe fatto. Francamente, rimettere in campo quello che ha dato una gomitata... Non avrei sentito mio il Mondiale se non avessi più giocato».
Non solamente entri in corso di gioco, ma riesci a segnare. E questo dopo che Trezeguet prende la traversa. Se sbagli anche tu...
«Mi ricordo che appena mi sono candidato volontario, Vincenzo Iaquinta mi ha detto “Ma tu tiri?”. “Sì”, ho risposto. “Ma sei matto? Se sbagli ti massacrano”. Non proprio un incoraggiamento (ride, ndr). Gli ho risposto: “Senti, se sbaglio, sbaglio ma se segno mi risollevo”. Per me sarebbe stato più grave vederli dalla panchina con animo tranquillo senza essermi assunto la responsabilità. So cosa sono i rigori, so tirarli. Un giorno in Coppa Italia giocavamo contro la Triestina, stadio mezzo vuoto, rigori. Ero molto giovane. Avevo detto a Capello “lo tiro” se mi chiedi di tirare un calcio di punizione da mezzo campo con una benda sugli occhi, non lo faccio perché non è nelle mie corde. Ma un rigore, posso segnarlo. E l’ho segnato. Lippi anche lì è stato perfetto. Quando ho detto che volevo andarci ha detto solamente “Tu tiri? Ok”, poi si è girato verso gli altri. “Ok De Rossi, poi ?”. Ad ogni modo, in quel momento della partita, ci si guarda dritto negli occhi, eravamo sicuri di vincere. A tal punto che anche Buffon era disponibile a tirarlo».
Altre polemiche in nazionale. Settembre 2008 durante un Italia-Georgia tu dedichi un gol al tuo ex suocero che è stato appena assassinato. Ti hanno criticato dicendo che non era il genere di persona da prendere come esempio.
«(Silenzio) Penso che tra tutte le cose che i genitori dovrebbero trasmettere ai figli ci dovrebbe essere: onorare le persone della tua famiglia, non difenderle sempre a tutti i costi, ma onorarle, rispettarle e ricordarle sempre. È una cosa che io, come padre, insegnerò alle mie figlie. Allargo il discorso, ma ecco dove voglio arrivare: il ricordare una persona che amiamo e rendergli omaggio non vuol dire ai bambini e al mondo che è giusto fare quello che ha fatto. Non si tratta di copiare dei comportamenti sbagliati né di incoraggiarli. Quel gesto era semplicemente un omaggio a qualcuno a cui ho voluto bene. Non mi sono pentito di quella dedica. Ecco».
Come ti senti nel mondo del calcio oggi?
«Faccio il confronto tra lo spogliatoio, i miei amici, le persone che frequento, in breve, il mio mondo calcistico e il resto. Intorno al mondo del calcio e forse a Roma più che altrove, gravita tanta “mondezza”. Dei giornalisti, dei dirigenti, dei calciatori. Ci sono molte cose che non mi piacciono ma sono certo che quando non sarò più nel mondo del calcio questo mi mancherà, mi mancherà talmente che vorrò tornarci. Come allenatore, dirigente, non lo so ancora».
Ora hai 30 anni. Se dovessi fare un bilancio della tua carriera?
«Fondamentalmente mi sento un giocatore importante per l’Italia per quello che ho fatto con la Nazionale e con la Roma. Quando ero ragazzo, Buffon mi ha dato i suoi guanti, correvo dietro a Francesco, ora li conosco alla perfezione, sono degli uomini con cui sono in confidenza, degli amici. Ma quando sento un complimento di un giocatore che conosco unicamente come avversario, mi colpisce sempre, come ai miei esordi. Un giorno un giornalista ha fatto una domanda a Iniesta sul calcio italiano e lui ha risposto citando due giocatori: me e Pirlo. Mi ha colpito essere riconosciuto come un suo pari. È troppo forte. A volte leggo interviste di giovani calciatori di 18 anni che esordiscono in serie A ai quali il giornalista domanda: “Qual è il tuo giocatore preferito? Qual è il tuo idolo?” e succede che il ragazzo risponda “De Rossi” e lì non ho neanche bisogno che sia Iniesta che lo dica, in effetti».
Ci sono delle cose che rimpiangi?
«Se non avessi tanto amato la Roma, avrei adorato giocare all’estero. Viaggiare mi ha sempre affascinato. Scoprire altre città, imparare altre lingue è qualcosa che mi manca un po’. Avrei voluto avere la carriera che hanno avuto certi miei colleghi: due anni qua, due anni là, conoscere la Germania, l’Inghilterra, la Spagna... Questo deve arricchirti enormemente. Ma nello stesso tempo, questi colleghi avrebbero senza dubbio voluto ottenere quello che ho ottenuto senza muovermi da casa mia, con i miei genitori, i miei compagni, a casa. Alla fine so che ho qualcosa che molti dei miei colleghi avrebbero voluto avere».