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 2014  marzo 22 Sabato calendario

GABRIEL PALETTA – (QUASI) TUTTO D’UN PEZZO


Com’è che si dice? Quello lì è uno “tutto d’un pezzo”. Ecco: Gabriel Paletta – 28 anni, difensore del Parma, argentino naturalizzato italiano, esordio in Nazionale il 5 marzo nell’amichevole persa 0-1 con la Spagna e migliore in campo nel naufragio generale – è esattamente un tipo così. Anche seduto, fa onore ai suoi 190 cm scolpiti sotto una faccia squadrata ingentilita da occhi chiari, ma della quale è meglio non immaginare l’effetto che fa quando la mascella è serrata. In campo presidia l’area con modi pratici, sbrigativi, rudi quanto basta: «Ma io con gli attaccanti non litigo mai». Forse perché capiscono che da lui è preferibile prenderle senza poi mettersi a discutere.
Con la penuria di difensori affidabili che c’è in Italia, uno così farebbe la fortuna di parecchie squadre con obiettivi più ambiziosi del Parma, e infatti lo hanno cercato in tanti e ancora lo faranno in estate. Di fronte alle voci che gli ronzano intorno, lui resta imperturbabile. Così come, scoprirete leggendo, davanti ai nomignoli più o meno maliziosi che gli sono stati affibbiati («Palettone? È per l’altezza, fa niente») e ai commenti su Facebook che hanno per oggetto i suoi capelli, radi e disposti sui due lati della testa da una riga centrale che lascia scoperta gran parte del cranio («Mi chiamano “pelato”? E allora?»). Cosa volete che turbi uno che, la prima volta che ha indossato la maglia azzurra, è rimasto impassibile come una statua di marmo?
Com’è che si dice? Proprio così: tutto d’un pezzo.

Pensieri e parole dei momenti precedenti al fischio d’inizio della partita contro la Spagna.
«Parole poche, pensieri tanti. Nel pullman che ci portava allo stadio ero vicino a Marco Parolo, mio compagno di squadra al Parma. Era la mia prima volta in Nazionale, nei tre giorni di ritiro sono sempre stato con lui. Ho mandato un messaggio a mia moglie Paula: “Gioco”. Nient’altro. Nello spogliatoio gli altri mi hanno detto “in bocca al lupo”, ma io ero tranquillissimo. Forse sono diverso dagli altri, di sicuro sono fatto così. So cosa posso dare, perciò non scendo mai in campo nervoso».
Ma neanche al momento dell’inno si è emozionato?
«Piuttosto ho visto nella mia testa tutte le persone che hanno fatto sacrifici per me: i miei genitori, mia moglie... Mi sono tornati in mente i viaggi con papà quando ero ragazzino per andare all’allenamento. In casa non c’erano abbastanza soldi perché usassi i mezzi pubblici, così mio padre mi accompagnava col suo camion. Ha fatto il camionista tutta la vita. Non ce la siamo passata male, a Longchamps, nella periferia di Buenos Aires dove sono nato, ma eravamo 4 maschi e mia madre era a casa».
E ripensando a tutto questo, sulle note di Mameli non le è venuto il lacrimone?
«No».
Neanche quando sei mesi fa è nato Sebastian, il suo primo figlio?
«Neanche. Però mi sono emozionato. Magari col secondo non succede (ride). È stato bello assistere al parto».
E del nostro inno, che cosa dice?
«È bellissimo. Non capisco come si possa dire che sia brutto. Quella frase – “siam pronti alla morte” – è straordinaria. Cosa ci può essere di più grande e onorevole che morire per il proprio Paese? Fatte le debite proporzioni, mi ci riconosco».
In che senso?
«Nel senso che, quando entro in campo per la mia squadra, sia il Parma o l’Italia, sono pronto a tutto, nei limiti del lecito. Mi sento forte, coraggioso, determinato. Sento di combattere per una buona causa. La mia».
Lei ha cantato l’inno. Camoranesi, un altro argentino naturalizzato che è stato in Nazionale prima di lei, non lo ha mai fatto. Per non parlare degli stessi giocatori interamente italiani che restano rigorosamente a bocca tappata.
«Io ho avuto piacere a cantarlo. Appena ho saputo della convocazione, a casa l’ho cercato su YouTube, ho messo su le cuffie e l’ho ascoltato e cantato tante volte finché non l’ho imparato a memoria. Penso che se uno rappresenta il proprio Paese è giusto che conosca l’inno e lo canti. Farlo, indica il tuo senso di appartenenza».
E lei, quanto italiano si sente?
«Io non posso dimenticare le mie origini argentine. Ho passato là più della metà della mia vita. Ma ho realizzato il desiderio del mio bisnonno paterno Vincenzo, che lasciò Crotone da ragazzo per cercare fortuna in Argentina e che prima di morire espresse il desiderio che qualcuno della famiglia – un figlio, un nipote – tornasse in Italia, meglio se con qualche soldo in tasca. Io ho realizzato il suo sogno. E questo mi fa sentire italiano».
È qui da quattro anni: che idea si è fatto del nostro Paese?
«Nel calcio, dovete ripartire dalla cura dei settori giovanili. Soldi non ce ne sono e i campioni non vengono più».
E fuori dal calcio? Legge i giornali?
«No, neanche quelli sportivi».
Ma almeno sa chi è Matteo Renzi?
«Sì, ma non parlo di politica».
Invece, di papa Francesco aveva già sentito parlare in Argentina?
«Sì, ed era così come lo avete conosciuto: umile, al servizio degli altri. Col Parma abbiamo avuto un incontro privato: Gargano gli ha offerto una tazza di mate, bevanda tipica argentina, e lui non finiva di ringraziare».
Nel 2005 lei vinse il Mondiale Under 20 con l’Argentina. Uno dei suoi compagni era Messi. Che effetto le fa pensare alla carriera di Leo paragonata alla sua?
«Nessuno, perché in quella squadra c’era gente che sembrava destinata a grandi cose e che adesso gioca nelle serie minori o addirittura ha smesso. Io mi ritengo fortunato, non so se potevo meritare qualcosa in più di quello che ho avuto».
Eppure a vent’anni era al Liverpool. Che cosa non ha funzionato?
«Il fatto che fossi molto giovane, appunto. Arrivai in una squadra che aveva appena vinto la Champions e passai un anno ad allenarmi».
Cosa perderebbe lasciando Parma?
«La tranquillità: qui vogliono bene agli argentini in modo speciale, forse perché prima di me hanno avuto campioni come Crespo e Veron. Poi, un gruppo speciale e un allenatore come Donadoni: come me, preferisce i fatti alle parole. Non è abile a farsi pubblicità. Non ama le pubbliche relazioni. Ma è concreto. Molto».
È riuscito pure a gestire Cassano...
«Antonio è un personaggio particolare, ma si sta comportando bene».
La prende mai di mira per uno dei suoi scherzi, anche pesanti?
«No (risatina furba). Sta addosso ad Acquah, che è giovane: un po’ lo sfotte, un po’ lo incoraggia».
E questi benedetti capelli che su Facebook hanno fatto scrivere: la testa di Paletta usata come portaerei Nato?
(ride) «Non è un problema. Mia moglie non voleva che li tagliassi a zero, così per ora li tengo come sono. Vedrò se è possibile farli ricrescere in qualche modo».