Carlo Canzano, SportWeek 22/3/2014, 22 marzo 2014
CLAUDIO COSTA – IL DOTTORE NON OPERA PIÙ
Il comandante cede il timone, resta a terra, ma la sua nave continua a navigare. Il dottor Claudio Costa – anzi, Dottorcosta, tutto attaccato, come un marchio di fabbrica – ha deciso di non seguire più, se non occasionalmente, le gare del Motomondiale. Ma la sua creatura, la Clinica Mobile, da 37 anni presenza fissa nelle corse di moto, continuerà a svolgere il prezioso compito di assistenza per i piloti e tutti gli abitanti del paddock. Dottorcosta lascia, un po’ per stanchezza, anche per qualche non confessata delusione e, come ammette, a causa del peso degli anni (ne ha compiuti 73 il 20 febbraio) e per la consapevolezza che un maestro deve designare un successore quando l’allievo è ancora giovane, «quando il cuore è ancora nutrito dalle passioni». E spiega: «Michele Zasa, il medico che prenderà la guida della Clinica, ha l’età che avevo io quando inventai questa “figlia”. Pensavo che il giorno in cui avessi lasciato, la Clinica avrebbe “chiuso” assieme a me il suo viaggio. Invece deve andare avanti». Una scelta contraria all’egoismo, da parte di quest’uomo che è medico, rivoluzionario, innovatore, filosofo, visionario, anche istrione un po’ teatrale nelle sue dichiarazioni. Come in certi interventi, spettacolari perché miracolosi nello svolgimento e nell’esito. Certamente Costa è un innamorato delle corse e, soprattutto, dei loro interpreti: i piloti. Tutta “colpa” del padre Francesco “Checco” Costa, bravissimo agronomo divenuto celebre come ideatore dell’autodromo di Imola, inventore e organizzatore di corse epiche. Nell’edizione di una di queste, la Coppa d’oro 1957, il sedicenne Claudio si esibisce nel primo soccorso in pista. «Disobbedendo a mio padre mi intrufolai alle Curve delle Acque Minerali. Lì cadde Geoffrey Duke. Saltai in pista, trascinando prima il pilota poi la moto fuori dall’asfalto». Intervento da manuale per efficacia e tempestività ma colto dall’obiettivo di un fotografo. Le immagini finiscono sul Resto del Carlino. “Checco” vede il giornale e riconosce il giovane Claudio che rimedia una ramanzina. «Non so andare in moto. È frutto di un divieto. O meglio, di un patto con mio padre che mi chiese di non fumare mai e di non andare in moto. In cambio mi aprì le porte del mondo delle corse, della conoscenza con i piloti». Anche se la carriera di Claudio nello sport pareva destinata a evolversi in un’altra disciplina. «Facevo l’arbitro di calcio. Così, col patentino, potevo andare gratis in tribuna a vedere anche le partite di Serie A. Ma in campo mi piaceva prendere decisioni personali, un po’ spettacolari. Capii che il pubblico non gradiva...».
Claudio non precisa né dove né quando rimase asserragliato negli spogliatoi... Erano gli anni dell’Università in cui brillava negli studi e anche nel dopo studio. «Alle feste che organizzavamo non mancavano mai ragazze diverse», ci ha riferito un imolese di cui rispettiamo l’anonimato. «Merito della fornitissima agendina di Claudio». Lui però faceva prevalere il richiamo dell’altruismo su quello del fascino femminile. «Una sera stavo andando in auto all’appuntamento con una ragazza. Sulla strada trovai un incidente nel quale era rimasto coinvolto un motociclista. Lo avevano già ricoperto con un lenzuolo: capii che era ancora vivo, lo rianimai sul posto». Dottorcosta gli salva la vita e nell’operazione, naturalmente, dimentica l’appuntamento galante e la necessità di avvisare la fanciulla...
Oltre a quell’intervento su Duke nel ’57 ci sono altri episodi importanti sulla strada che porta alla nascita della Clinica. Come quello, in occasione della prima 200 Miglia di Imola, della creazione di uno staff medico in pista, guidato da Costa: innovazione rivoluzionaria per l’epoca. E successivamente un altro, ancora più coinvolgente sul piano personale. L’incontro con Jarno Saarinen nel marzo 1973. A Imola il finlandese si infortuna a un ginocchio. Costa lo cura e, condizionato dal prepotente desiderio del pilota di non rimanere inattivo tre mesi, secondo i canoni della “medicina tradizionale”, gli consente di anticipare il rientro in pista permettendogli di vincere 7 gare nell’arco di meno di due mesi. E anche di prendere il via in quel GP a Monza che gli sarà fatale. Un pensiero che tormenta a lungo Claudio, che comincia a seguire le corse anche al di fuori della “sua” Imola assieme ai colleghi. È in embrione la Clinica mobile... senza clinica. Che nasce nel 1977 e subito, all’esordio a Salisburgo, dimostra la sua importanza, quando nella velocissima curva Fahrerlager c’è un mostruoso mucchio nel quale muore Hans Stadelmann. Franco Uncini viene rianimato sull’asfalto e salvato da Costa che si arrampica sulla scarpata per precipitarsi in pista eludendo l’assalto dei poliziotti austriaci spalleggiati da ringhiosi pastori tedeschi che, in effetti, bloccano azzannandolo a una mano il dottor Lello Rubbini, braccio destro di Costa. Uncini non solo si salva, una settimana dopo corre e conquista il podio. Nasce così la leggenda della Clinica mobile e di Dottorcosta. «Lo stesso anno la Clinica salvò la vita a Philippe Coulon in Svezia, dove le strutture del circuito erano quasi inesistenti, a differenza di quelle eccellenti del Paese che garantirono poi efficaci cure al pilota svizzero».
La Svezia croce e delizia per Claudio, che in un’occasione rischia persino la galera. «Finita la gara, quando non si sarebbe più potuta concretizzare la minaccia di non correre da parte dei piloti se mi avessero impedito di lavorare, mi venne contestato l’esercizio abusivo della professione di medico. Venni salvato dall’abilità diplomatica dell’avvocato Zerbi, presidente della Federmoto italiana». Sempre in Svezia, in un’altra occasione, Costa è autore di un intervento di successo, non su un pilota, ma sulla bellissima fidanzata di Randy Mamola, colpita da un violento attacco di appendicite. Costa ne uscì con gli occhi illuminati «Il mio intervento più “bello”», disse con ironia anche se oggi in modo più politically correct afferma: «L’importante fu che l’intervento ebbe buon esito. Amo i piloti e sinceramente non mi sono mai posto il problema di come avrei reagito se il motociclismo fosse stato uno sport al femminile».
Centinaia, anzi migliaia di miracoli, ma quello che rimane simbolo della meravigliosa follia di Costa è del 1992, dopo l’incidente di Mick Doohan ad Assen. Il pilota viene operato a una gamba all’ospedale di Groningen: un intervento scellerato. Costa rapisce letteralmente Doohan portando con sé anche un altro infortunato, Kevin Schwantz. Viaggio su un aereo attrezzato, ricovero in Italia. Costa interviene unendo le due gambe di Mick in modo che quella sana alimenti quella malata. Ospita nella sua casa l’australiano, lo cura sino a consentirgli di tornare in pista. Doohan perde il Mondiale per due punti, ma grazie alle cure di Costa torna pilota vero e vince cinque Mondiali della 500. «Una favola che per me ha un significato particolare perché per la prima volta non era solo il pilota protagonista del recupero ma lo diventavo “pubblicamente” anche io».
Un briciolo di legittima vanità per un uomo che ha consacrato la sua vita al servizio dei piloti. Che non rimarranno soli. Anche se Dottorcosta non sarà fisicamente in pista sarà idealmente presente attraverso sua figlia, la clinica.