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 2014  marzo 23 Domenica calendario

COTTARELLI, IL REVISORE SECCHIONE SCARICATO DA RENZI

Ieri lodato da Letta, oggi bacchettato su pubblica piazza da Renzi. La sua spending review serve come il pane per dare copertura alle riforme, ma rischia di avere il gusto amaro dello sciroppo per la tosse. Per capire meglio i cinque mesi di lavoro affrontati dal supercommissario Carlo Cottarelli è necessario fare qualche passo indietro. Il curriculum è quello del top player italiano all’estero. Economista classe 1954, nato a Cremona e laureato a Siena, poi un master alla London School of Economics. Per Cottarelli la carriera esplode a Washington dove dal 1988 scala il Fondo Monetario Internazionale, diventando direttore del dipartimento Affari Fiscali. Negli States c’è anche la famiglia: una moglie che lavora alla Banca Mondiale e due figli sul sentiero universitario, il maschio a Princeton e la femmina a Ucla. Amico di Ignazio Visco con cui ha lavorato alla Banca d’Italia, per l’attuale commissario alla spending review c’è stato anche un passaggio all’Eni dove ha diretto l’ufficio studi. Collaboratore dell’Huffington Post americano, la sua biblioteca è impreziosita da decine di saggi su politiche fiscali, monetarie e inflazione. Poi la grande chiamata in Italia, nominato da Enrico Letta e fortemente voluto da Saccomanni per fare il revisore della spesa pubblica. Oltreoceano la chiusura delle valigie è accompagnata dal commiato di madame Christine Lagarde, direttrice generale dell’Fmi: «I colleghi di Carlo e molti amici del Fondo saranno molto tristi di vederlo lasciare ma la sua nomina a un posto di rilievo nel governo italiano è testimonianza delle superbe qualità che hanno contraddistinto il suo lavoro in questi anni».
Capelli brizzolati, erre moscia, fede calcistica rigorosamente interista. Sbarcato a Roma, ad attenderlo non c’era il comitato di benvenuto ma uno scetticissimo direttamente proporzionale al logoramento della formula spending review, italicamente sbandierata e inattuata. «Curriculum ineccepibile, ottimo nome ma rimarrà bloccato nei soliti meccanismi», sussurravano gli insider di Palazzo, mentre Renato Brunetta chiosava alla luce del sole: «È stato messo a fare una cosa impossibile, nei suoi panni mi sentirei male». Il diretto interessato rispondeva pacato, ma ottimista: «Non vedo una sola ragione per essere refrattari». Il 23 ottobre assume le funzioni di commissario con un incarico di tre anni e un compenso di 258.000 euro lordi annui «senza altri benefit» (niente autoblu), al di sotto del tetto fissato dal governo Monti. Per il suo incarico la legge 98/2013 prevede infatti un «limite massimo di 150.000 euro per l’anno 2013, di 300.000 euro per ciascuno degli anni 2014 e 2015 e di 200.000 euro per l’anno 2016». Soglia ampiamente rispettata, con buona pace dei quotidiani Il Tempo e Libero che diffondono la leggenda, presto diventata virale, di un Cottarelli «che guadagna 2.200 euro al giorno».
Mister Forbici ha uno staff di dieci persone, istituisce venticinque gruppi di lavoro servendosi di tecnici, professori universitari e funzionari dei ministeri, ma cerca anche la collaborazione di quei mandarini di Stato che bizzarrie e sprechi li conoscono a menadito. «Cerchiamo di responsabilizzare l’intera macchina»: una rivoluzione dall’interno con la supervisione del commissario esterno, cui spetta l’ultima parola. «Voglio essere non l’uomo che taglia le tasse ma quello che consente di tagliare le tasse», ha detto a Stefano Cingolani su Panorama, accettando di essere definito un «keynesiano pragmatico». Confermato da Matteo Renzi, non solo rappresenta l’ennesimo tassello di continuità con le larghe intese lettiane ma incarna il profilo del tecnico, figura demodè dopo la stagione montiana. Il neopremier decide di tenerlo per scalare le sabbie mobili della pubblica amministrazione, primo vero biglietto da visita del programma renziano. Sin dall’inizio nessun endorsement nè eccessi di entusiasmo, ma Cottarelli continua senza drammi: ieri manager, oggi servitore dello Stato con la schiena dritta e un carattere mite, tabella di marcia rigorosa. Chiamato a snellire un apparato elefantiaco dove spadroneggiano boiardi e sindacati, sulla lista della spesa include dall’inizio (e non ne fa mistero nelle interviste) settori nevralgici come sanità e sicurezza, oltre a questioni di fuoco relative agli esuberi di dipendenti pubblici o al maxiportafoglio delle pensioni.
A Cottarelli viene affidato un incarico chiacchierato, già scivolato dalle mani di volenterosi come Bondi e Giarda: quella spending review eternamente annunciata tra resistenze dei palazzi, capricci delle categorie e veti in chiaroscuro. Il revisore d’Oltreoceano prova a mettere il turbo: 7 miliardi di euro di tagli alla spesa pubblica nel 2014, 18 nel 2015 e 34 nel 2016. Troppi o troppo pochi? Dal suo insediamento fa sapere che «le risorse recuperate serviranno a ridurre le imposte sul lavoro», aprendo la strada che oggi percorre Matteo Renzi. Poi arriva qualche guasto al motore. Grazie all’opera di un corvo nell’ultima riunione del comitato interministeriale della spesa, Il Tempo ha potuto pubblicare le slide di Cottarelli con la proposta sui tagli che scatenano le reazioni dei sindacati e fanno saltare i nervi a Palazzo Chigi, costretto a frenare: «È ancora una bozza». Il suo è un mezzo tsunami: tagli alle pensioni, blocco del turnover per 85.000 dipendenti pubblici, una sforbiciata alle spese della politica e agli emolumenti dei manager, alle sedi regionali Rai, ai trasferimenti inefficienti dallo Stato alle imprese. E ancora riduzione delle centrali di appalto e acquisto, abolizione degli enti inutili, dimagrimento del corpaccione della difesa, cercando di non toccare cultura e istruzione.
Definito «il cacciatore di tagli» da Maurizio Crozza («Se Clint Eastwood incontra Cottarelli se la fa addosso»), l’ex dirigente Fmi riesce nell’impresa di scontentare tutti, dal governo con Madia in primis ai vertici delle forze dell’ordine, passando per i supermanager di Stato capitanati da Mauro Moretti che minaccia l’espatrio. Si irrita pure la Camera dei Deputati che bolla come «sbagliate» le slide sui costi di Montecitorio, mentre Il Mattinale di Brunetta chiede di «fermare il soldato Cottarelli prima che sia troppo tardi». Luca Ricolfi su La Stampa incalza: «Per tagliare senza ridurre i servizi ci vogliono gli studi di settore articolati territorialmente per individuare le migliori pratiche e stimare il tasso di spreco in ogni territorio. Non è questo, a quel che è dato conoscere, il lavoro che sta facendo Cottarelli». Infine il giornalista del Tg3 Maurizio Mannoni avrebbe telefonato alla deputata e componente della segreteria Pd Alessia Morani per promettere l’invio di un contropiano Rai che scongiuri la chiusura delle sedi regionali. Così prende piede la destrutturazione del progetto di Cottarelli, «destinato a perdere pezzi» e ad essere «pesantemente rivisto» da un Renzi pronto a salire in plancia di comando.
Il tecnico e il politico. Uno prova a ottimizzare, l’altro a smussare. Il primo usa la calcolatrice, il secondo fa i conti con la base elettorale. Renzi lo dice chiaro e tondo: «La presentazione della spending review non mi ha entusiasmato». Il riferimento corre alle pensioni, tema intoccabile in vista delle europee. Si limita a definire il report «una buona fotografia», ma arriva a rinnegare le slide di Cottarelli perché «fanno apparire la spending come un mero documento ragionieristico». Dal canto suo il commissario non fa trapelare reazioni, paziente e taciturno, schivo ai microfoni e chino sul lavoro. «Accetta» le considerazioni del premier «senza sorpresa» perché lui propone «scenari» ma l’ultima parola spetta alla politica. Eppure quelle redatte dall’ex uomo Fmi non sono tabelle qualsiasi. Osservava Paolo Pagliaro a Otto e Mezzo: «Più che un elenco della spesa sembra un impegnativo manifesto politico». Pochi giorni dopo gli fa eco Stefano Folli sul Sole 24 Ore: «Se le cifre di Cottarelli verranno accolte in toto costituiscono una sorta di rivoluzione in stile Thatcher, un salto in avanti rispetto alla vecchia architettura politico-sociale». Un modus operandi opposto all’anagramma del suo nome confezionato da Stefano Bartezzaghi su Repubblica: «Carlo Cottarelli = tacer il tracollo».
Ora si profila una doppia partita per Renzi, che dal ministero dell’Economia ha fatto trasferire l’ufficio del commissario a Palazzo Chigi. Una cabina di regia per studiare il dossier spalla a spalla intervenendo in prima persona perché «la colpa dei tagli se la prende il presidente del Consiglio», ma anche un filo diretto per raddrizzare una comunicazione fin qui prodiga di fraintendimenti. Davanti alle telecamere Renzi non fa nulla per nascondere il suo scetticismo sul «metodo Cottarelli», ne congela una fetta del progetto e lo abbandona a un’assordante solitudine mediatica. Allo stesso tempo ha bisogno di lui, della sua spending review che diventa la principale cassaforte per le coperture di riforme annunciate in tutta Europa. Dei 6,6 miliardi necessari per mettere gli 80 euro nelle buste paga di 10 milioni di italiani, almeno tre dovrebbero arrivare dai risparmi di spesa. Stando a quanto dice il viceministro dell’Economia Enrico Morando, la revisione della spesa «è la madre di tutte le riforme, se riesce questa il nostro castello di cambiamento dell’Italia sta in piedi, se dovesse fallire allora c’è il rischio che l’intero castello precipiti».
Ecco di nuovo il derby Cottarelli-Renzi. Il rigido tagliatore di teste contro il premier ricucitore, che non vuole bruciarsi a tempo di record con scelte impopolari. Il finale di partita è già scritto, tutto nelle mani Renzi, incline all’ascolto ma decisore assoluto, pronto a caricarsi onori ed oneri di un’operazione a rischio boomerang. Cottarelli non potrà che prenderne atto, mentre qualcuno è arrivato a evocare le dimissioni del supercommissario «demansionato» dopo il gelo degli ultimi giorni. Per entrambi l’orizzonte è la presentazione del Def, il documento di economia e finanza in cui dovranno essere inseriti i risultati della revisione di spesa. Dalle bozze alla realtà il rischio, come sottolinea ironicamente qualcuno, è che «alla fine Cottarelli sarà stato più renziano e rottamatore del premier stesso».