Bernardo Milano, Corriere Economia 24/3/2014, 24 marzo 2014
I MIRACOLI DI BUFFETT DATEMI UNA LEVA E SUPERERÒ (QUASI) SEMPRE LA BORSA
A chi gli chiede quale sia stato il suo investimento peggiore, risponde indicando quella Berkshire Hataway con cui nel 1962 – fino ad allora soltanto una media industria tessile – avrebbe dato vita ad uno dei colossi indiscussi della finanza internazionale. A quanti, invece, gli chiedono di quello migliore, ammiccando, cita un libro letto nel 1949, quand’era poco meno che ventenne e che ne segnerà il destino di grande finanziere: The intelligent investor di Benjamin Graham.
Battute
Sarebbe, ovviamente, riduttivo sintetizzare in queste due battute le vicende professionali di Warren Buffett, probabilmente il più grande investitore di tutti i tempi e, grazie ai suoi successi manageriali, oggi tra gli uomini più ricchi al mondo. La sua ormai lunghissima storia (è nato il 14 agosto del 1930 in quell’Omaha, che ha dato i natali anche a Malcom X a Marlon Brando e a Fred Astaire) è tanto ricca di aneddoti quanto di insegnamenti; e tratteggiarne il profilo è un’impresa al limite dell’impossibile.
Modelli diversi
Tuttavia, a differenza di George Soros che per sbarcare il lunario da giovane filosofo squattrinato fu costretto a darsi (con altrettanto successo) alla finanza, Buffett, fin dai primi anni della sua vita, disvela un marcatissimo fiuto per gli affari ed una straordinaria passione per la Borsa. Per certi aspetti è un enfant prodige del denaro. A undici anni soltanto comprò le sue prime tre azioni. Nel 1951, dopo aver studiato alla Columbia University con Benjamin Graham, conseguì un master al New York Institute of Finance e nel 1954 iniziò a lavorare nella casa d’investimento di Graham che, paradossalmente, lo aveva caldamente sconsigliato di darsi a questo mestiere, in sintonia con quanto sosteneva suo padre, politico di professione. Entrambi, però, si sbagliavano e nel più clamoroso dei modi. A parlare per lui sono, infatti, i numeri prodotti in quarantotto anni di un lavoro condotto in egual misura con passione e determinazione.
Tra il 1965 ed il 2013, a valore della sua Berkshire, calcolato sulla base del patrimonio contabile, è cresciuto in media del 19,7% annuo, contro il 9,9% medio realizzato dall’indice Standard & Poor’s 500. Tra il novembre del 1988 (quando iniziò ad essere trattata al Nyse) e il marzo del 2014 la sua quotazione è passata da 4.700 a 186.000 dollari con un incremento complessivo del 3.865% (15,66% medio annuo) contro il 586% dell’indice Standard & Poor’s 500 (7,91% medio annuo).
Analisi
Un risultato tanto strepitoso non poteva non diventare oggetto di analisi scientifiche tese a disvelarne i segreti che, ovviamente, il Saggio di Omaha, come pure viene definito Buffett, si guarda bene dal rendere pubblici. Anzi, divertendosi, è solito banalizzare la ricetta dei suoi guadagni con affermazioni argute come quella secondo cui «negli investimenti non è necessario fare cose straordinarie per ottenere risultati straordinari».
Sul piano della teoria dei mercati finanziari quella di Buffett è un’anomalia spiegabile soltanto con il caso perché, posto che i mercati tendono all’efficienza, nessun investitore su intervalli di tempo sufficientemente lunghi può sistematicamente batterli, guadagnando più degli indici di borsa. Non, però, nel caso del grande saggio degli investimenti. Nel 1984, in occasione del cinquantesimo anniversario dell’uscita del volume Security Analysis di Dodd e Graham, il professore Michael Jensen, proprio alla presenza di Buffett, sostenne che i suoi successi erano null’altro che l’equivalente di una felice serie di lanci di una monetina. L’accusato, però, si difese sostenendo che i mercati sono solo parzialmente efficienti e che le sue non erano semplici prodezze di un giocatore fortunato, ma la concreta espressione del pensiero nato in quel villaggio intellettuale di Graham e Dodd ( Graham-and-Doddsville ), dove l’investimento finanziario diventa profittevole soltanto se condotto sulla base della ricerca del valore.
Ricette
Buffett è, infatti, il miglior interprete di quel value investing secondo cui occorre puntare esclusivamente su azioni che siano sicure (cioè che abbiano un beta basso), a sconto rispetto ai loro valori fondamentali, che generino flussi di utili stabili e prevedibili, che siano poco indebitate e che siano ben gestite.
«Che si parli di calze o di azioni, preferisco comprare merce di buona qualità quando è a sconto». Questo perché, «il prezzo è ciò che paghi, il valore è ciò che ottieni». Ma soprattutto bisogna saper essere pazienti e non perdere mai la calma: «se qualcuno oggi è seduto all’ombra è perché molto tempo fa qualcun altro piantò un albero».
E’ in questa sua sintesi poderosa che si ritrova, infatti, il pensiero di Graham ed è interessante notare come molte ricerche condotte sull’argomento hanno dimostrato che anche altri portafogli selezionati con gli stessi criteri utilizzati da Buffett, ma composti da titoli diversi avrebbero ottenuto risultati altrettanto migliori di quelli degli indici di borsa.
Ragioni
Dove si cela allora la ricetta del grande guru? Probabilmente in un ingrediente che viene citato poco e che è stato oggetto di un recente studio svolto da tre economisti, Andrea Frazzini, David Kabiller e Lasse Heje Pedersen. Questi ricercatori hanno concentrato la propria attenzione sul sapiente uso della leva finanziaria (il ricorso al debito per poter investire in borsa risorse addizionali) da parte di Buffett, scoprendo che mediamente il suo portafoglio è stato investito con un fattore leva di circa 1,6.
Buffett, infatti, in questi quasi cinquant’anni ha potuto contare sulle ingenti liquidità che gli venivano dal business assicurativo nel quale aveva lanciato la Berkshire. I premi incassati periodicamente, a fronte del risarcimento di sinistri che non necessariamente si verificheranno e che comunque si distribuiscono nel corso del tempo, hanno svolto, infatti, il ruolo di finanziamento aggiuntivo (a bassissimo tasso d’interesse) con cui il grande finanziere ha potuto realizzare, espandere e proteggere nei momenti difficili i suoi investimenti borsistici (ed anche quelli diretti, perché Buffett opera parallelamente nel settore del private equity).
Ovviamente anche i grandi sono umani come tutti gli altri e, dunque, possono restare impigliati nelle reti dell’errore o della cattiva sorte. E’ questo quanto accadde tra il 30 giugno del 1998 ed il 29 febbraio del 2000, quando la Berkshire vide le sue quotazioni dimezzarsi (-44%), mentre la borsa americana guadagnò il 32%. Non meno complesso fu il biennio l’ottobre 2007-ottobre 2009, quando il crollo fu del 51%. Un qualsiasi altro gestore avrebbe perso il posto, ma l’autorevolezza, la pazienza e la credibilità gli consentirono di ribaltare la canoa e riprendere il suo rafting tra le impetuose correnti dei mercati.
Sebbene in questi dieci lustri abbia creato un’eccellente squadra di professionisti, tra i quali emergerà il suo successore, sono in molti a chiedersi che cosa diventerà la Berkshire quando l’Intelligent Investor deciderà di raggiungere il suo mentore ed ispiratore Benjamin Graham. Ma per questo c’è ancora molto tempo, se si pensa che il suo socio di sempre, Charles Munger, di anni ne ha novanta e continua a lavorare accanto al giovane ed irrefrenabile ottantatreenne Buffett che, oltre ai segreti del buon investimento, sembra custodire anche quelli dell’eterna giovinezza.