Il Sole 24 Ore 25/3/2014, 25 marzo 2014
DA MODELLO A MALATO D’EUROPA FRANCIA IN CRISI DI COMPETITIVITÀ
PARIGI. Dal nostro corrispondente
La conclusione di quella che era stata annunciata come una trattativa storica tra le parti sociali sul cambiamento radicale del sistema delle indennità di disoccupazione è emblematica dei mali di cui soffre la Francia. Per l’ennesima volta, in nome della pace sociale, la montagna ha partorito il topolino. Nonostante i roboanti annunci della vigilia, il compromesso raggiunto (nella notte, ovviamente) prevede tagli di spesa per soli 400 milioni all’anno a fronte di un deficit di quattro miliardi.
Ed è, appunto, la cartina di tornasole di un Paese che non riesce a cambiare. Che non vuole cambiare. Che ha paura di cambiare. E si aggrappa disperatamente - in una battaglia persa in partenza perché il mondo va più veloce, molto più veloce - alle sue conquiste sociali, che spesso sono anacronistici privilegi di intere categorie. Di potenti lobby sindacali.
Lo stesso discorso vale per i conti del Paese. E i macigni che pesano sull’attività delle sue imprese. Il Medef, la Confindustria francese, ha appena diffuso un "bollettino sulla salute della Francia" che verrà pubblicato ogni trimestre e i cui numeri sono più efficaci di tante parole. Rispetto al 100 del 2007, la produzione manifatturiera è a quota 83,8, da paragonare al 100,4 della Germania, al 90,5 della Gran Bretagna e all’89,4 medio dell’Eurozona. Il margine delle aziende (non finanziarie) è del 28,9, a fronte del 39,3 in Germania, del 33,3 in Gran Bretagna e del 38,1 nella zona euro. La disoccupazione è al 10,8%, rispetto al 5,3% tedesco e al 7,6% inglese. Il deficit della bilancia commerciale oscilla intorno ai 60 miliardi e quello del bilancio pubblico fatica a stare al di sotto del 4% del Pil. Il debito, ancora in crescita, è al 96,1%, la pressione fiscale al 46,1% della ricchezza nazionale (41,1% la media eurozona) e la spesa pubblica al 57,1% (record europeo dopo la Danimarca, che potrebbe però essere superata).
In presenza di questo scenario desolante, che richiederebbe cure coraggiose e drastiche, François Hollande non ha saputo inventarsi altro che un credito d’imposta per le imprese da venti miliardi (a parziale copertura del più importante inasprimento fiscale) e una futura riduzione di oneri contributivi impropri a carico delle aziende per 10 miliardi (meno di un terzo del totale effettivo). Quando il gap di oneri - fiscali e contributivi - tra le imprese francesi e tedesche è di oltre 110 miliardi.
Certo, Hollande ha anche promesso tagli alla spesa pubblica per 50 miliardi in tre anni (su 1.300!). Che però sono tutti da verificare e comunque rappresentano nella quasi totalità un rallentamento dell’aumento automatico della spesa, piuttosto che una vera diminuzione in volume.
Di fronte a tanta timidezza, la stessa Commissione - che sul deficit aveva concesso due anni di deroga alla Francia - ha avvertito Parigi con parole inusualmente dure: «costante perdita di competitività», «difficoltà evidenti a sostenere un modello di crescita», «costo del lavoro troppo alto che pesa sui margini delle imprese», «rigidità retributiva che non consente alle aziende di adattarsi alla congiuntura», «salario minimo così elevato da contribuire alla disoccupazione».
Tutto da rifare, insomma. Anche se questo presidente e questo Governo non sembrano avere il coraggio, politico, di spiegare ai francesi che una storia è finita e ne va costruita un’altra. Quindi si tira a campare, nella speranza che l’ombrello tedesco continui a tenere bassi i tassi e che la crescita internazionale prima o poi faccia ripartire anche la Francia.
Intanto si aspettano ogni mese con sempre maggiore ansia i dati sulla disoccupazione. Quelli di febbraio arrivano domani. A cinque giorni dal secondo turno delle elezioni amministrative. E all’Eliseo si incrociano le dita.