Gabriele Romagnoli, la Repubblica 25/3/2014, 25 marzo 2014
IL POTERE IN DUE TOCCHI LA DIVINITÀ DELL’ARBITRO E IL SUO PECCATO MORTALE
Dio c’è. E fa l’arbitro. O, almeno, così si crede. Nel doppio senso che genericamente lo si pensa e che qualcuno lo pensa di sé. Le prove? Senza scomodare il vangelo secondo Pairetto, basta osservare due attimi della scorsa domenica in serie A. Nel primo Calvarese incarna il deus ex machina, nel secondo Gervasoni inscena l’ira di Zeus sfiorato, oltraggio, da mano umana.
Si parte da Genova, dove giocano Sampdoria e Verona. I padroni di casa battono un corner. Ora, la circostanza è a lungo preparata in allenamento. Signori della strategia d’attacco come Mihajlovic impongono ai propri uomini disposizioni precise. Tipo, schema 1: Soriano sulla bandierina, Sansone e Mustafi in area a fare blocco, Gabbiadini sul primo palo per la spizzata, Gastaldello e Maxi Lopez a buttarsi dentro, Regini pronto per il tap-in, due a centrocampo per fermare l’eventuale contropiede. Schema 2: batte Regini, fuori per Soriano, che la mette sul secondo palo per Maxi Lopez. Poi c’è la vita, che se ne frega degli schemi. C’è il disegno delle intelligenze superiori e inarrivabili che scompagina il corso delle umane traiettorie. C’è lo schema: ma pensa te questo dove si va a cacciare, detto anche del biliardo umano. Quello di cui soltanto Mourinho potrebbe dire: “Io l’avevo calcolato”. L’arbitro Calvarese si piazza in area di spalle, il giocatore dalla bandierina gli tira addosso, ma rasoterra, provocando una deviazione perfetta come ogni intervento soprannaturale. Renan, destinatario del passaggio, è già in corsa. Se la palla non cambiasse traiettoria se la troverebbe sul piede al momento prescelto e avrebbe davanti un muro giallo di difensori veronesi. Invece la sponda di Calvarese non solo gli libera la visuale, ma lo costringe a cambiare passo, caricando meglio per il tiro. È il fattore sovrumano, l’imprevedibile, la calata dal-l’alto, come nelle scene del teatro greco, di un elemento divino capace di sconquassare la trama e portarla dove le volontà degli uomini, da sole, non sarebbero approdate mai. Perfino la divinità, a volte, è immemore di sé e del proprio potere, per cui Calvarese, dopo aver deciso i destini dell’incontro, torna a metà campo domandando ai colleghi dell’Olimpo nell’auricolare: “Ma vale?”. Risposta: “Sia fatta la tua volontà”. Consapevole, annuisce e convalida.
Ben più conscio della propria natura è Gervasoni in Bologna-Cagliari.
Anzi, dopo Bologna-Cagliari. Quando le armi son deposte, morti e feriti si contano, il sipario lascia soltanto uno spiraglio inquadrando il rientro ai camerini e l’inarrestabile rotella dell’eternità che macina se stessa e solo agli dei concede di tenere il conto del tempo e delle offese. Gervasoni ne patisce e ne riserva. Come ogni divinità minore è più permalosa dei Grandi assisi sopra le nubi a dimostrar clemenza. Gervasoni la piglia male, spesso vede viola. Gli capita se Mario Gomez cade in area: il suo labiale, decrittato negli studi Mediaset, poteva essere considerato una bestemmia, ma anche un’autocritica, vista l’opinione che rivela di sé. Gli capita se Borja Valero lo assale. Tanto che poi non ci vede più e considera aggressione perfino la mano posata sulla spalla dal cagliaritano Dessena. Rosso diretto, a partita chiusa. Tocca in effetti alle divinità e a loro esclusivamente punire nell’altra vita, dopo il fischio finale per questa. Durante il suo corso non si dovrebbe mai perdere il senso della misura e del ruolo, che si sia arbitri, giocatori o cronisti: si fa semplicemente parte del gioco e pensare di condizionarlo è peccato mortale o compito di Moggi. La deità degli arbitri è già stata ampiamente negata da una massima dell’ex centravanti Stoichkov, lo stesso che ha negato valore al pallone d’oro e che ebbe a dire: «Dio è bulgaro, ma l’arbitro purtroppo era francese».
A un esame più attento né Calvarese né Gervasoni rivelano qualità superiori: il primo incide appena su una partita dall’esito segnato (la Samp già conduceva e poi ha dilagato fino al 5 a 0), il secondo rivela una suscettibilità umana, troppo umana.
Molte critiche gli arbitri hanno ricevuto per errori che è quasi impossibile non commettere, compresi quelli di sudditanza. A tratti fanno di peggio: si assegnano un ruolo che non hanno conquistato, reagiscono alla critica con la riaffermazione del potere. Il più celebrato di loro, Concetto Lo Bello, tentò la strada della politica, fu deputato e sindaco. L’attuale presidente del consiglio ed ex sindaco di Firenze è stato un arbitro.