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 2014  marzo 25 Martedì calendario

DOSSIER ERRORI GIUDIZIARI

[Salvatore Gallo, Maria Andò, Giovanni De Luise, Daniela Barillà, Domenico Morrone, Melchiorre Contena, Antonio e Michele Ianno, Vittorio Pisani, Giuseppe Gullotta, Donato Privitelli, Luciano Rapotez, Elena Romani, Gigi Sabani, Irene Grandi, Lelio Luttazzi, Gianfranco Blasi, Vittorio Emanuele di Savoia, Franco Marini]

DOMANI POTREBBE CAPITARE A VOI –

Essendo Mediaset un accrocchio del secolo scorso, capita che svolga funzioni storiografiche. Una replica, forse casuale forse no, di un non meglio precisato approfondimento degli anni Ottanta, rimanda una lunga intervista a Enzo Tortora, a casa sua e a buriana appena spenta, di cui si stampano nella memoria lo sguardo, purtroppo già giallo, e sopra ogni cosa l’ammonimento: «Oggi è toccato a me, domani potreste essere voi» (ripetuto due-tre-sei volte). Immagino che il telespettatore del tempo abbia risposto: «Triste, sì sì». Niente biasimo, era il decennio dei cocktail di gamberetti e delle pennette alla vodka. Semplicemente questo tema in quel momento non era un tema. L’appello sarà stato recepito come pura disperazione: un’ennesima declinazione del volemose bene, ma con il corollario: «Fatemi tornare a lavorare». Non lo so, non c’ero. Ma non era così. Diceva il vero, Tortora, ora lo sappiamo bene. Di tutte le castronerie che si sono susseguite sull’esserci, sul prendersi la responsabilità, sullo sbaglia soltanto chi fa, una è vera: qualcuno deve decidere. È così. E chi più di te stesso? Il giudice. Ah certo, il potere giudiziario! Vediamo: non può essere unito agli altri due, garante sull’arbitrio, dà attuazione al comando legislativo, risolve equamente la controversia. Oppure no. C’è l’errore – dell’uomo nel ruolo, giammai del ruolo nell’uomo – ma è accettabile. Fisiologico in fondo, capita ovunque. Sì, è vero, ma in parte. E questi quattro milioni di italiani dal Dopoguerra a oggi vittime a vario titolo – assolti, prosciolti – di errori giudiziari? È esattamente il compito della magistratura: sondare, scandagliare, impartire (prima di pubblicizzare), dice chi conta fino a 101 ma ha difficoltà ad arrivare a 111. Due giornalisti, Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi, hanno messo insieme un database formidabile – errorigiudiziari.com – che alla fine altro non è che il libro di storia che non avreste mai voluto leggere. Tutti gli errori giudiziari sono semplicemente rappresentati e raccontati uno via l’altro, e l’unico commento che si sussegue a mano a mano è: «Nooo!». Provateci, alla fine quasi diverte. Dice Maimone che «dal 1991 a oggi lo Stato ha speso circa 576 milioni di euro tra riparazioni per ingiusta detenzione e indennizzi per errori giudiziari. Quasi tutto, 545 milioni circa, per risarcire le decine di migliaia di ingiuste detenzioni in carcere o arresti domiciliari scontati da innocenti». Ma che cosa risponde il difensore della forca che si beve da anni il giornalista manettaro? Sempre la stessa cosa, e cioè che tutto il mondo è paese, che succede dappertutto. E però tutto il mondo non è affatto paese, perché i numeri dicono che i casi di errori giudiziari e di ingiusta detenzione accertati in Italia dal 1991 a oggi sono oltre 22.300. Circa mille l’anno. Nello stesso intervallo, 22 anni, quelli accertati negli Stati Uniti sono 1.304. Ripetiamo: 22.300 contro 1.304; 60 milioni di persone contro 300 milioni. E poi ci si stupisce delle carceri sovraffollate e si inorridisce a ipotesi di amnistia. Ma forse è una cosa nostra, anzi deve essere una cosa nostra, di noi europei, di noi sofisticati che la separazione dei poteri mentre loro arco e frecce. Infatti ecco la Francia. Dice Lattanzi che «la spesa dello Stato francese per risarcire gli errori giudiziari nel 2009 è stata di 1,6 milioni di euro. Poco più, 1,7, nel 2008. Italia: 40,9 milioni di euro nel 2009; 37,8 milioni nel 2008». Aggiunge Maimone: «Gli ultimi dati che abbiamo contabilizzato su errori giudiziari e ingiusta detenzione risalgono al primo semestre 2013. I numeri non cambiano: Italia 1.021; Usa 87. Anche sui risarcimenti la storia è la stessa. In Francia, ultimo dato accertato, nel 2010 le richieste di riparazione sono state 90. Le sole richieste. Da noi le liquidazioni sono state 1.309». Che cosa significa? Non è che qui si osa mettere in discussione il ruolo, l’importanza, l’indipendenza, la sacralità? Sì, la sacralità.

ECCO LO STRANO CASO DEL MORTO CHE ERA VIVO –

La madre di tutti gli errori giudiziari risale all’alba della Repubblica. Siamo nel 1954 ad Avola, piccolo centro agricolo in provincia di Siracusa, dove i fratelli Gallo, Salvatore e Paolo, sono conosciuti da tutto il paese per non potersi reciprocamente sopportare. Anzi, l’8 ottobre è prevista la prima udienza in tribunale per una causa che li vede contrapposti per questioni legate al lavoro. Invece nulla, colpo di scena, la causa non si celebra perché il giorno precedente Paolo Gallo scompare. Una perquisizione dei carabinieri alla masseria del Gallo fa rinvenire un berretto impregnato di sangue. Subito si pensa al fratello Salvatore, e in effetti a casa sua vengono ritrovati svariati indumenti ricoperti di sangue del medesimo gruppo sanguigno. Il filotto è servito: arresto, processo, ergastolo. Omicidio. A nulla vale la testimonianza di due mediatori di cavalli che testimoniano di avere visto Paolo Gallo a una fiera in un paese vicino. Nel 1958 si celebra l’appello: ergastolo confermato. I difensori richiedono il terzo grado di giudizio: negato. Enzo Asciolla, giornalista della Sicilia di Catania, ritrova un quaderno di esercizi di italiano in un doposcuola a 50 chilometri da Avola. L’insegnante assicura appartenere a un contadino vagabondo che ha frequentato la scuola per qualche settimana e poi è sparito. La grafia è quella di Paolo Gallo. Un altro testimone giura di averlo visto consumare una granita al bar la sera prima. Gallo viene ritrovato in una casa di un centro vicino al paese natale, Ispica. Sta dormendo. Dice che non ha particolari rancori contro il fratello ma che ha deciso di scomparire per timore della causa in tribunale. Passano altri due anni, in Italia non si può concedere la grazia a un innocente, e il fratello Salvatore ha totalizzato 7 anni di carcere. Ora è anche in sedia a rotelle per via dell’artrite. Il Parlamento legifera secondo il modo che lo contraddistinguerà anche nei decenni successivi, e cioè in via emergenziale, stabilendo la possibilità di revisione del processo anche quando si scopre che «la morte di una persona non si è verificata». Salvatore Gallo può tornare a litigare col fratello.

Nome: Salvatore Gallo
Luogo: Avola
Anno: 954
Reato: Omicidio
Errore: Altro

RAPINA A CATANIA, ARRESTANO L’UNICA SICILIANA CHE NON C’ERA MAI STATA –

Maria Andò è una studentessa palermitana iscritta a Giurisprudenza. Una mattina di settembre del 2008 i carabinieri bussano alla sua porta consegnandole un’ordinanza di custodia cautelare in carcere. La portano a Pogliarelli dove rimane 9 giorni in cella con una duplice accusa: rapina e tentato omicidio ai danni di un tassista catanese. Maria prova a difendersi con quello che parrebbe un buon argomento: «Non sono mai stata a Catania in vita mia». Niente da fare, rimane dentro. Anche la descrizione dei colpevoli data dal tassista – un ragazzo e una ragazza senza fissa dimora, due disperati che dormono in stazione a cui il tassista, prima di essere aggredito, ha dato una mano per alcuni giorni – non sembra esattamente collimare con il profilo di una studentessa di legge di Palermo, con casa, genitori e tutto. Ma non fa nulla, il Gip è irremovibile: è lei. C’è una scheda telefonica a inchiodarla. Una scheda intestata alla sorella di Maria, Federica; una scheda che aveva chiamato il tassista poco prima dell’aggressione. E dato che Federica non assomiglia alla descrizione fisica della rapinatrice e invece Maria un po’ sì, ecco trovato la colpevole.

Nome: Maria Andò
Luogo: Catania
Anno: 2008
Reato: Rapina, tentato omicidio
Avvocato: Fabrizio Foderà
Errore: Scambio di persona

DE LUISE, O DEL DIVERSO PESO TRA ACCUSA E DIFESA –

Otto anni e otto mesi di carcere per niente. Scampia: l’11 dicembre 2004 viene ucciso Antonio De Luise. È Giovanni, il fratello, che si incarica di riconoscerne il corpo all’obitorio. Al suo fianco c’è Cinzia Marino, sorella di Massimo. È lì per lo stesso motivo: il fratello è appena stato ammazzato. La donna è certa: a uccidere Massimo Marino è stato Giovanni De Luise. Una vendetta. A nulla vale la sfilata di testi a favore di Giovanni, spedizioniere incensurato, in tribunale. Dicono che era con loro, a lavorare. Niente. Colpevole fino in Cassazione, fino a quando il vero killer, Gennaro Puzella, confessa tutto. Tardi.

Nome: Giovanni De Luise
Luogo: Napoli
Anno: 2013
Reato: Omicidio
Avvocato: Carlo Fabbozzo
Errore: Testimonianza

ATTENTI ALLA MACCHINA DANIELE BARILLÀ, IL PUSHER DELLA TIPO ROSSA –

La vicenda di Daniele Barillà è un cocktail di pressapochismo investigativo e sfortuna. Siamo nel 1992 e Barillà, allora trentenne, è un imprenditore di discreto successo con 15 dipendenti a Nova Milanese. L’11 febbraio, sulla tangenziale Nord di Milano, le auto civetta dei Ros di Genova e Milano, sotto il comando del capitano Ultimo e del maggiore Michele Riccio (successivamente promosso colonnello), stanno seguendo a debita distanza una Fiat Uno con 50 chili di cocaina e una Fiat Tipo rossa, di scorta al carico. Anche Barillà è alla guida della sua Tipo rossa, e proprio sulla Nord di Milano. Il risultato è evidente: i carabinieri bloccano l’auto sbagliata e l’imprenditore finisce in carcere (peraltro ci arriva mezzo morto, pestato brutalmente dalle forze dell’ordine). Ci rimarrà 7 anni e mezzo. I soliti pentiti, anni dopo, lo scagionano: Barillà non c’entra nulla, avete sbagliato Tipo. Ops. Il tribunale di Genova, nel 2003, emette una sentenza risarcitoria record: 4 milioni di euro. Il commento di Barillà: «Mi serviranno per andare via dall’Italia».

Nome: Daniele Barillà
Luogo: Milano
Anno: 1992
Reato: Traffico di stupefacenti
Avvocato: Maurizio Barabino
Errore: Scambio di persona
Risarcimento: 4 milioni di euro

QUESTO ERRORE È COSTATO ALLO STATO 4,5 MILIONI DI EURO –

Quella di Domenico Morrone è una vicenda piuttosto lineare. Accusato dell’omicidio di due minorenni, Antonio Sebastio di 15 anni, e Giovanni Battista di 17, davanti a una scuola media della periferia di Taranto a colpi di arma da fuoco, Morrone viene condannato per omicidio. Il movente? Un litigio che l’imputato avrebbe avuto con Battista qualche giorno prima. E invece nisba, perché Morrone non c’entra proprio nulla e l’assassino è un altro, uno la cui madre era stata scippata dai due ragazzi. Dopo 16 anni trascorsi inutilmente in carcere, ecco arrivare uno dei risarcimenti più alti di sempre.

Nome: Domenico Morrone
Luogo: Taranto
Anno: 1991
Reato: Omicidio
Avvocato: Claudio Defilippi
Errore: Scambio di persona
Risarcimento: 4,5 milioni di euro

SCHILLACI: VITTIMA DELL’ACCUSA PIÙ INFAME ACCUSATO DI AVERE VIOLENTATO LA FIGLIA DI DUE ANNI! –

Lanfranco Schillaci è un professore di matematica siciliano emigrato a Limbiate, seconda cintura Nord di Milano. Sposato con Maria, anch’essa insegnante, padre di Miriam, due anni e mezzo. Nell’aprile 1989 Miriam non sta bene. Schillaci la porta immediatamente al pronto soccorso, la bimba perde sangue e sul suo corpo sono comparse delle strane lesioni. I medici la visitano e sputano la sentenza: violenza sessuale. Schillaci è un mostro, finisce sulle prime pagine di tutti i giornali. Nomi, cognomi, indirizzi, tutto. Appaiono interviste ai vicini di casa che rivelano che sì, in effetti quest’uomo aveva dei comportamenti un po’ strani, l’avevo detto io. Irrompe il Tribunale dei minori e in un attimo Miriam è strappata via dalle mani del sodomita, i giornali esultano per la celerità dell’intervento di uno Stato giusto, nel branco si asciugano bave insanguinate. Subito si apre la procedura di adottabilità della bambina, Schillaci e la moglie ormai non escono più di casa. Un professore in dermatologia di Savona, Luigi Bruno, legge la notizia e viene a conoscenza della somministrazione reiterata di supposte di Tachipirina sul corpo di Miriam. Le lesioni potrebbero essere dovute proprio a questo. Bruni informa la procura di Milano che, nella persona della pm Daniela Borgonovo, ordina, bontà sua, una seconda perizia sulla bambina. Teratoma sacro-coccigeo è il responso. Vale a dire? Cancro al retto. Ecco perché il sangue, perché le lesioni. Il sodomita non esiste. Tra i due accadimenti sono trascorsi solo 12 giorni, che non hanno però impedito sputtanamento e caccia al mostro su scala nazionale. Schillaci lascia lavoro, Lombardia e luci del proscenio per rifugiarsi a casa sua, in Sicilia. Il 3 giugno, neanche un mese più tardi, Miriam muore. Fine della storia. I giornali sprofondano in un imbarazzo senza precedenti. Il presidente della Repubblica Francesco Cossiga sente il dovere morale di dire due parole a quella famiglia distrutta. Chiede perdono, lamentando «la terrena limitatezza della magistratura e i peccati di indifferenza e leggerezza» dei giornali che hanno amplificato la tragica vicenda.

Nome: Lanfranco Schillaci
Luogo: Milano
Anno: 1989
Reato: Violenza sessuale
Errore: Altro

SE UN QUARTO DI SECOLO VI PARE POCO –

Nella galleria degli orrori giudiziari non mancano le beffe: una delle più assurde riguarda Melchiorre Contena, la cui innocenza è stata stabilita quando aveva già finito di scontare la sua condanna: 30 anni di carcere. È una vicenda che risale al 1977, un sequestro di persona (con conseguente omicidio); ma è soprattutto una vicenda che delinea la tragicomicità e il dilettantismo di certa magistratura. Tutta l’accusa si regge su un testimone, Andrea Curreli, che ha un pedigree di tutto rispetto: 35 denunce per falsa testimonianza, simulazione di reato e furto. Curreli, che aveva lavorato per Contena prima di essere licenziato, inguaia l’ex datore di lavoro. I primi due gradi di giudizio lo ritengono completamente inaffidabile. La Cassazione invece rinvia il processo in Corte d’appello. Curreli diventa misteriosamente affidabile e per Contena si aprono le porte del carcere. Se non fosse per un particolare: dai cascami di un’altra inchiesta si risale, parecchi anni dopo, ai veri responsabili dei crimini. Ma i tempi della giustizia sono quelli che sono, e Contena sta ancora aspettando la riabilitazione.

Nome: Melchiorre Contena
Luogo: Firenze
Anno: 1977
Reato: Sequestro di persona, Omicidio
Avvocato: Pasquale Bartolo
Errore: Scambio di persona

IL DIALETTO NO, NON L’AVEVO CONSIDERATO! –

Siamo nel 2004 e i fratelli Antonio e Michele Ianno, “mastri di cantiere” poco meno che 40enni, vengono ammanettati dalla Dda di Bari. L’accusa sostiene che siano «promotori di un sodalizio mafioso» e diretti responsabili di associazione mafiosa, concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio e porto illegale d’armi. Segue custodia cautelare in carcere: tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro. Ovviamente sono innocenti: non c’entrano nulla con gli omicidi, non hanno mai avuto a che fare con i clan. E allora qual è stato il problema? Che il perito chiamato dal tribunale a interpretare le intercettazioni ha interpretato male. Era di Bologna e non capiva il dialetto pugliese.

PISANI –

Ebbe l’ardire di intraversarsi al savianismo ortodosso, e mal gliene incolse. Vittorio Pisani, ex capo della squadra mobile di Napoli, fino a quel giorno super-poliziotto, baluardo della lotta anti-camorra, nuovo Ultimo e altre simili originalità giornalistiche, era un intoccabile. Moralità, rettitudine, al servizio dello Stato eccetera. Poi, un giorno del 2009, rilascia un’intervista dove ammette che «il libro ha avuto un peso mediatico eccessivo rispetto al valore che ha per noi addetti ai lavori» e che, in sostanza, la parte romanzata di Gomorra è un po’ troppo romanzata e quindi, richiesto di un parere sull’assegnazione della scorta a Roberto Saviano, non può che dirsi contrario. Secondo Pisani, il superpoliziotto anti-camorra con 20 anni e centinaia di arresti sulle spalle, il “cacciatore di latitanti” del calibro dell’ex primula rossa Michele Zagaria e Antonio Iovine, a capo del clan dei Casalesi, allo scrittore non serve alcuna scorta, così come non serve a lui, che infatti non ce l’ha. Apriti cielo. I primi imbarazzati silenzi diventano le solite indignazioni nazionali e Pisani rimane con il cerino in mano, gli amici hanno abbandonato la festa. Tocca a lui spegnere le luci e chiudere la porta. Neanche a farlo apposta, poco tempo dopo ecco il carico da novanta: Pisani indagato. Il capo della mobile di Napoli è accusato dal pentito Salvatore Lo Russo, detto O’Capitone, di tutta una serie di nefandezze che configurano altrettanti capi d’accusa. Favoreggiamento, falso e abuso d’ufficio. Non basta, O’Capitone giura di aver pagato mazzette miliardarie al super-poliziotto per lasciare in pace il suo clan, soldi che dovrebbero essere finiti su conti svizzeri. Insomma, Pisani avrebbe aiutato questo e quel camorrista, arrestando quest’altro che non piaceva a quell’altro. Un doppiogiochista, un traditore dello Stato, fine del “cacciatore di latitanti”. Ovviamente, una volta valutate credibili tali accuse, Pisani non può rimanere al suo posto e finisce in uno scantinato dell’ufficio Immigrazione a Roma, e lì si capisce che tutta una storiografia di detective dei fumetti che sbagliano ha un suo fondo di verità. È così anche nella realtà, chi tradisce finisce tra le scartoffie. Solo che Pisani è innocente, e dopo due anni di timbri e marche da bollo, il Tribunale lo assolve con formula piena da tutte le accuse. Lui ascolta la sentenza, non commenta davanti ai giornalisti ed esce. Si spendono nuove dietrologie: ma perché mai il signor O’Capitone avrebbe dovuto mentire? Forse per aiutare il suo clan, avanzano i più raffinati commentatori, togliendo di mezzo il poliziotto arresta-mafiosi. Ma davanti a un disegno criminoso così sofisticato, chi non sarebbe stato tratto in inganno?

GLI ALCAMO MARINA FOUR ERANO INNOCENTI –

Una vicenda incredibile cominciata nel 1976 e non ancora del tutto terminata, infarcita di un compendio di orrori giudiziari tra i quali spiccano i 22 anni di carcerazione effettiva ai danni di un innocente, la morte in carcere per tumore di un secondo innocente, e il suicidio – sempre in carcere – del testimone chiave del processo a cui i carabinieri estorsero la confessione fatale infilandogli un imbuto in gola e facendogli bere acqua e sale mixate con scariche elettriche inflittegli attraverso un telefono da campo, è quella di Alcamo Marina. Due carabinieri di 19 anni vengono trucidati, all’interno di una stazione dei Carabinieri, il 27 gennaio 1976. Quattro ragazzi vengono accusati del crimine e, a vario titolo, finiscono in carcere. Fino a quando un ex carabiniere confessa che il teste fu torturato e il processo si riapre. Fino all’assoluzione di Giuseppe Gulotta (dopo 22 anni di carcere effettivo e 36 anni dopo l’arresto), fino alla prossima tappa: il maxi-risarcimento chiesto dalla vittima: 69 milioni di euro.

Nome: Giuseppe Gulotta
Luogo: Alcamo Marina
Anno: 1976 Reato Omicidio Plurimo
Avvocato: Pardo Cellini di Certaldo Baldassarre Lauria
Errore: Dichiarazione teste

ALTRO GIRO ALTRO REGALO –
Tra le aberrazioni più comuni, inaccettabili in uno Stato di diritto e quindi puntualmente accettate, c’è l’incaponimento della pubblica accusa che, non paga di una prima assoluzione, non paga neanche di una seconda, si fionda in Cassazione e per fortuna si ferma lì, perché altre strade non ve ne sono. Dall’altro lato, quello di chi è costretto a difendersi a oltranza, sono passate migliaia di persone tra cui Elena Romani, ex hostess di Legnano, accusata di avere ucciso la figlia Matilda di 22 mesi, con un calcio alla schiena. Assolta in primo grado, assolta in appello, assolta in Cassazione e via con il risarcimento: 80 mila euro non sono poi molti.

Nome: Elena Romani
Luogo: Roasio (Vercelli)
Anno: 2005
Reato: Omicidio
Avvocato: Tiberio Massironi, Roberto Scheda
Errore: Perizie

QUEL GAP LINGUISTICO NEL CAMPO DEI SUINI –

In Italia, quando un allevatore di maiali parla al telefono deve stare in campana. Non sia mai che si trovasse a pronunciare la parola «maialini», magari discorrendo con un macellaio. Perché in quel caso i «maialini» diventerebbero partite di droga, l’allevatore un trafficante di stupefacenti e il macellaio ovviamente il compratore. Voilà, il disegno criminoso è servito e Donato Privitelli, il nostro allevatore di maiali, è in effetti finito dentro – la solita abnorme custodia cautelare in carcere: 101 giorni – esattamente seguendo questo canovaccio. A cinque anni dall’arresto Privitelli viene assolto: i «maialini» di cui parlava erano proprio suini.

Nome Donato Privitelli
Luogo Caltanissetta
Anno 2006
Reato Traffico di stupefacenti
Errore Intercettazioni telefoniche
Risarcimento: 20.285 euro

FINO IN FONDO! –

Quella di Luciano Rapotez è l’epopea giudiziaria per eccellenza: oltre mezzo secolo di accuse, torture in carcere, ricorsi e controricorsi. L’ex muratore ed ex partigiano comunista friulano viene arrestato nel 1955 in relazione alla cosiddetta strage di San Bartolomeo del 1946: l’omicidio dell’orefice Giulio Trevisan, della sua fidanzata Lidia Ravasini e di una cameriera. Viene assolto, dopo 34 mesi di carcerazione preventiva (34!), per insufficienza di prove. Da allora è stato un susseguirsi di richieste di risarcimento, sempre declinate dallo Stato, e una miriade di ricorsi fino alla Corte di Strasburgo. Tutti inutili.

Nome: Luciano Rapotez
Luogo: Trieste
Anno: 1955
Reato: Omicidio
Errore: Altro

NON SOLO TORTORA –

Oltre a Enzo Tortora, sono stati numerosi i casi di personaggi famosi finiti nelle grinfie della giustizia per poi risultare estranei alle accuse. Il primo fu Lelio Luttazzi, conduttore televisivo, che nel giugno del 1970 venne arrestato con Walter Chiari per spaccio di droga. Non c’entrava assolutamente nulla e così dopo 27 giorni di prigione venne rilasciato e la sua posizione processuale fu stralciata. Tornò in radio nel 1971 con il programma Hit Parade, ma la sua vita fu devastata da quell’esperienza.
Anni Novanta, esplode la vicenda giornalisticamente passata alla storia (ahinoi) come Merolone. Nelle cronache giudiziarie finiscono diversi personaggi televisivi tra cui Gigi Sabani e Valerio Merola. Per Sabani l’accusa è di induzione alla prostituzione. Per 13 giorni è agli arresti domiciliari fino a quando, il 13 febbraio 1997, viene chiesta l’archiviazione. Solo tre mesi dopo, il sostituto procuratore che lo aveva accusato, Alessandro Chionna, sposa a Roma la sua ex-teste nell’inchiesta, Anita Ceccariglia, che era stata la compagna di Sabani per quattro anni.
Quasi sei mesi di arresti domiciliari per nulla. È la storia di Serena Grandi, all’anagrafe Serena Faggioli, attrice di buon successo negli anni Ottanta. Nel 2003 venne arrestata per una vicenda di droga, con l’accusa di detenzione e spaccio di cocaina. «Mi hanno rovinato la vita e annientato la carriera», dirà anni dopo la Grandi. La sua posizione infatti venne archiviata nel marzo 2009 e dei 500mila euro di risarcimento richiesti, all’attrice ne furono accordati soltanto 100mila, che utilizzò per aprire una trattoria.

PROFESSIONE WOODCOCK –

Merita una menzione speciale Henry John Woodcock, oggi sostituto procuratore a Napoli, ma passato alla storia per un’incredibile serie di indagini a nomi noti, tutte – o quasi – finite nel nulla. Si parte con la vicenda dei legami tra criminalità e politica nella gestione degli appalti in Basilicata (2004): 51 arresti tra cui il deputato forzista Gianfranco Blasi, il presidente della Camera penale della Basilicata Piervito Bardi e i deputati Antonio Luongo (Ds) e Antonio Potenza (Udeur). Risultato: non luogo a procedere.

Si passa al Savoiagate (2006). Le indagini di Woodcock arrivano a scoperchiare una serie di malefatte incredibili: associazione a delinquere finalizzata allo sfruttamento della prostituzione, alla corruzione, alla concussione. E poi falso ideologico, minacce e favoreggiamento. Vengono coinvolte 24 persone; 13 gli arresti. A deflagrare su tutte le prime pagine però è ovviamente l’arresto di Vittorio Emanuele di Savoia. Risultato: il figlio dell’ultimo Re d’Italia viene assolto «perché il fatto non sussiste».

Ma in principio fu Vipgate. Siamo nel 2003 e dal filone d’inchiesta Inail/petrolio si distaccano numerosi rami di indagine che arrivano a coinvolgere, a diverso titolo, molti personaggi noti, tra cui Franco Marini, e Nicola Latorre (indagati per favoreggiamento); Maurizio Gasparri (per aver avvertito un indagato delle intercettazioni in corso); Francesco Storace (per pressioni indebite sul presidente dell’Istituto autonomo case popolari). Il Vipgate coinvolge 78 persone. Risultato: l’inchiesta viene archiviata per impossibilità a sostenere l’accusa in giudizio.