Marco Rossari, Pagina99 we 22/3/2014, 22 marzo 2014
IL POETA CHE HA TRADOTTO LA VOSTRA LIBRERIA
PAVIA. Scrive da anni, ma ha appena esordito. È uno storico, ma quasi per diletto. È un finissimo poeta, ma ha una smodata passione per il calcio, tanto da avere dedicato un componimento a Bobby Charlton («il nostro amore / per il football risale alle due reti / con cui abbattè il Portogallo “di Eusebio”, / viste a fiato sospeso nella sala / di un hotel rivierasco»). Forse il nome di Massimo Bocchiola non sarà immediatamente familiare al grande pubblico, eppure con ogni probabilità è presente in quasi tutte le librerie italiane. Almeno nel ruolo fantasmatico di traduttore.
Per intenderci, è lui che ha inventato il patois sboccato dei romanzi di Irvine Welsh, che ha seguito le sgrammaticature esilaranti di Jonathan Safran Foer in Ogni cosa è illuminata e che ha ribadito la prosa elegante di Paul Auster. Non solo, è la sua penna a restituire quella di Ian Fleming nei Bond ripubblicati oggi da Adelphi ed è soprattutto lui che s’è sobbarcato le cattedrali postmoderne dell’ultimo Thomas Pynchon, da Mason&Dixon a Contro il giorno via via fino al prossimo Bleeding Edge, in uscita per l’estate da Einaudi. Ma ha tradotto anche Nick Hornby, Fitzgerald, Martin Amis, Don DeLillo, Jack Kerouac. You name it, si dovrebbe aggiungere in questi casi. O meglio: you rename it.
In una calda giornata di tardo inverno, con un sole che esalta i colori della Bassa a lui tanto cara, vado a trovarlo a Pavia, dove vive. Classe ’57, dopo qualche anno d’insegnamento, è approdato al lavoro editoriale e insegna Traduzione Letteraria all’Università. È un uomo appartato, colto, gentile. Chiacchierando si passa da Nabokov alla Juventus (forse anche in ordine di importanza) ed è singolare che un uomo tanto mite sia riuscito a dare voce ad alcune tra le pagine più selvagge di Charles Bukowski. Si percepisce invece “quel tono compostamente conversativo” cui alludeva Franco Brevini nell’introduzione alla sua prima silloge. Già, perché dietro al traduttore sapiente, si nasconde un poeta raffinatissimo, la cui ultima raccolta è stata pubblicata da Guanda. «Il mio poeta di riferimento è senz’altro Raffaello Baldini, che in una certa misura è stato un padre spirituale».
Mentre passeggiamo per il centro, nonostante nel 2000 abbia ricevuto il Premio Nazionale per la Traduzione del Ministero per i Beni Culturali, si schermisce. «Le etichette possono essere molto lusinghiere, ma il campo della traduzione è vasto come il campo della letteratura. Io non ho ancora affrontato classici non novecenteschi. Anche se forse più il traduttore invecchia e più gli vengono proposti libri vecchi. Quest’anno uscirà L’isola del tesoro».
Attraversiamo i porticati della Facoltà di Lettere dove ha studiato con Cesare Segre, da poco scomparso, laureandosi con una tesi in Filologia Romanza sulla novellistica del ’500. «Proprio per la formazione che ho avuto sono sicuro di non avere le competenze adatte in termini di storia della lingua. Posso fame una traduzione interpretativa, come qualunque altro scrittore contemporaneo. Posso tradurre il mio Shakespeare».
Con il suo Auster, invece, Bocchiola si conosce da tempo. «È molto garbato e, da scrittore intelligente, s’informa molto su di te. Conserva la curiosità nei confronti delle storie degli altri. Non molto tempo fa, con una bora gelida da stereotipo, abbiamo girato insieme per Trieste a caccia dei luoghi joyciani. Naturalmente abbiamo trovato tutto chiuso».
Sono meno le cose in comune, almeno da un punto di vista esistenziale, con il furore di Irvine Welsh.
«In realtà l’impresa è stata portare in italiano una scrittura fonetica che afferisce allo Scottish English», mi racconta, mentre entriamo in una trattoria dove l’oste è un amico, per giunta poeta. «Mi ha aiutato proprio la provincia, perché sono cresciuto in un ambiente principalmente dialettofono. Da una parte, come dicono molti scrittori lombardi, parliamo una lingua spuria. Rispetto a un collega toscano, il nostro lessico è più artificioso, la nostra sintassi più frammentaria. Invece mi costa fatica con Auster, apparentemente più semplice, ma che in realtà scrive un inglese molto classico».
Arriviamo alla sua balena bianca.
«Lo scrittore che mi ha dato più filo da torcere è Thomas Pynchon. Non l’ho mai incontrato di persona, ovviamente, ma è altrettanto ovviamente di grande affabilità e, come i veri grandi, di grande modestia. Però con lui hai la sensazione di camminare sull’acqua e non in senso cristologico. Hai l’impressione che la superficie sulla quale ti muovi sia arbitraria. Insomma, sei di fronte al lavoro di una persona che ha un mondo mentale molto più ampio del tuo. A questo punto domando a te: si tratta davvero di narrativa?». Morbosamente, gli chiedo se ci ha parlato, se non ha qualche feticcio. «Macché, non mi ricordo più nemmeno dove ho messo i fax che mi ha mandato, se i fan lo vengono a sapere mi vengono a prendere a casa. Ho una dedica scritta in italiano. Con la sua firma». Attimo di suspense. «Però s’è occultato dietro lo stampatello».
Come se non bastasse, alle due scrivanie Bocchiola ne ha aggiunta una terza, di pascoliana memoria, ossia quella di storico, nei libri scritti a quattro mani con Marco Sirtori, sulle battaglie di Teutoburgo e di Canne.
«Direi che alla base di tutta la mia scrittura – chiamiamola personale, come se poi tradurre non fosse scrittura personale – c’è l’esperienza della guerra. Mio nonno era del 1899 ed è andato in trincea che non aveva ancora compiuto diciott’anni. Poi la breve ma intensa esperienza resistenziale di mio padre: curiosa, perché è in gran parte raccontata come allo specchio in Primavera di bellezza di Beppe Fenoglio. Mio padre, che era del ’22 come lui, dovette interrompere all’inizio del ’43 gli studi di medicina per andare a fare il corso allievi ufficiali vicino a Cuneo, e questi giovani allievi ufficiali erano divisi in due compagnie, in una c’era lui e nell’altra c’era Fenoglio, ma non si sono mai conosciuti».
Questa storia è al centro di un romanzo, Il treno dell’assedio, appena pubblicato dal Saggiatore, una dolente riflessione sulla perdita che condensa l’esperienza della lirica e della traduzione in un nuovo inaspettato esordio.