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 2014  marzo 22 Sabato calendario

VACCINI E SANITÀ PUBBLICA PERCHÉ È CROLLATA LA MORTALITÀ INFANTILE


Dopo otto giorni di agonia il piccolo Dante muore. Ha solo 3 anni. E il 9 novembre del 1870 e come andarono le cose lo racconta il padre, Giosuè Carducci.
«Il mio povero bambino mi è morto; morto di un versamento al cervello. Gli presero alcune febbri violente, con assopimento; si sveglia a un tratto la sera del passato giovedì (sono otto giorni), comincia a gittare orribili grida, spasmodiche, a tre a tre, come a colpi di martello, per mezz’ora: poi di nuovo, assopimento, rotto soltanto dalle smanie della febbre, da qualche lamento, poi da convulsioni e paralisi, poi dalla morte, ieri, mercoledì, a ore due».
Probabilmente fu una febbre tifoide, una malattia infettiva che colpisce soprattutto il sistema digerente. Eventi come questi, al tempo, non erano un’eccezione. Nel 1887, insieme a gastroenteriti, coliti e appendiciti, le febbri tifoidi uccisero 80 mila bambini al di sotto dei cinque anni. Altri 160 mila furono sterminati da altre malattie infettive. Alla fine dell’anno si contarono quasi 400 mila decessi, un terzo dei bambini in quella fascia di età.
Così andava nel Regno d’Italia, frammentato economicamente, socialmente, culturalmente. Uno Stato in cui la speranza di vita media alla nascita era appena superiore ai 35 anni, poco più alta di quella di duemila anni prima.
Non che mancassero gli anziani. La strage dei bambini che non superavano i primi anni di vita, però, non ha consentito per secoli a quei valori medi di cambiare.
Ora, l’Istat pubblica una raccolta di dati che mostra in che modo si sia evoluta, nel corso di quasi un secolo e mezzo di storia, la mortalità nei bambini al di sotto dei 5 anni, passando da un valore di quasi 350 decessi su 1000 del 1887 ai 3,9 attuali. In quelle migliaia di bambini sottratte ogni anno alla morte c’è la storia del Paese, dei suoi cambiamenti, dell’avvento della medicina e, poi, dell’universalismo della sanità pubblica.
I primi progressi si cominciano a ottenere durante l’Italia liberale. Si ridusse la povertà, seppur di poco si assottigliarono le differenze tra le diverse aree del paese e tra i diversi strati della popolazione. E in trent’anni la mortalità subisce un crollo di quasi il 40 per cento. I decessi per tubercolosi si dimezzano, quelli per le altre malattie infettive passano da quasi 140 mila del 1887 ai 90 mila del 1915.
Ma è un successo di breve durata. Arriva il 1918, l’anno terribile della “spagnola”, l’influenza che in poco più di sei mesi ucciderà 50 milioni di persone nel mondo. All’epoca l’Italia contava poco più di 35 milioni di abitanti e l’influenza fece 117.537 morti tra i bambini al di sotto dei 5 anni. Altri 8 mila li fece la Tbc, 20 mila le altre malattie infettive, 64 mila le malattie gastrointestinali, l’appendicite, le febbri tifoidi e paratifoidi. Un’ecatombe. Nel corso dell’anno oltre 290 mila bambini sparirono: la popolazione di quell’età fu dimezzata.
Si tornò lentamente alla normalità. Il fascismo non impedì alla mortalità infantile di continuare a declinare. Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, nel 1940, i decessi tra i bambini sono meno di 150 mila, meno della metà di mezzo secolo prima.
Cosa rese possibile questo successo? «C’è un dibattito gigantesco sul tema con due scuole di pensiero che si contrappongono», spiega Giovanni Vecchi, professore di Economia Politica all’Università di Roma Tor Vergata e autore del volume In ricchezza e in povertà. Il benessere degli italiani dall’Unità a oggi. «L’una sostiene che fu l’intervento pubblico, con le bonifiche del territorio, la costruzione di sistemi fognari, la diffusione di pratiche igieniche, a sostenere questa importante riduzione della mortalità. L’altra afferma che siano stati i progressi legati all’aumento del reddito e soprattutto a una migliore redistribuzione».
La realtà è che i due fattori interagirono, come mostra il caso della tubercolosi. Il bacillo di Koch, che causa la malattia, fu scoperto negli anni Ottanta dell’Ottocento e fino al secondo dopoguerra non furono disponibili antibiotici per curarla. Eppure, la mortalità si ridusse di dieci volte in mezzo secolo (tra la fine dell’Ottocento e i primi anni Quaranta) grazie a un mix di interventi realizzati dalla mano pubblica (per esempio una rete di sanatori dove i malati venivano assistiti e isolati) e un miglioramento delle condizioni socioeconomiche che consentirono alla popolazione di permettersi un’alimentazione migliore e una maggiore resistenza all’infezione, sostiene l’economista.
Il crollo della mortalità ha ancora poco a che vedere con la medicina, anche se già dal 1939 erano diventate obbligatorie nel Regno d’Italia le vaccinazioni contro difterite e vaiolo.
Dopo la Seconda guerra mondiale, invece, tutto cambia. La diffusione su larga scala degli antibiotici assesta un colpo decisivo alle malattie infettive che ancora nel 1951 uccidevano 40 mila bambini. Dopo solo dieci anni i decessi scendono sotto i 20 mila. A inizio anni Settanta sono poco più di 7 mila.
Soprattutto, però, nasce l’assistenza sanitaria universale. Il 1968 è l’anno chiave: la cosiddetta “legge Mariotti” riforma il sistema ospedaliere». Gli ospedali, fino ad allora gestiti soprattutto da enti di assistenza e beneficenza, diventano enti pubblici. È il cambio di marcia decisivo. «L’assistenza sanitaria arriva anche in quelle zone che fino ad allora erano state completamente escluse», ricorda Vecchi. «Le popolazioni più povere di campagna possono godere di un’assistenza comparabile a quelle ricche di città». E i risultati sulla mortalità si vedono: i 44 mila decessi del 1961 diventano 29 mila dieci anni più tardi.
Un passo ulteriore sarà compiuto sette anni dopo, nel 1975, quando nel tentativo di mediare tra le spinte dei movimenti femministi e le richieste del mondo cattolico, furono istituiti i consultori familiari. Per la prima volta, milioni di donne hanno accesso a una forma di assistenza specifica per la maternità.
Poi, tre anni più tardi, con l’istituzione del servizio sanitario nazionale si realizzerà compiutamente l’infrastruttura che dovrà garantire il diritto alla salute sancito dalla Costituzione.
Il resto è quasi cronaca. Dall’inizio degli anni Ottanta i decessi dei bambini scendono sotto i 10 mila (16 decessi per 1000) e quel che succede dopo è’ solo un fine quanto complesso processo di limatura di un risultato già straordinario. Le morti per malattie infettive nei primi anni di vita sono quasi un ricordo e vengono soppiantate dalle malformazioni congenite.
«I meriti in questa fase sono da attribuire a diversi fattori», spiega Luisa Mondo, epidemiologa del Servizio Sovrazonale di Epidemiologia ASL TO3. «La migliore assistenza alla donna durante la gravidanza, i progressi della medicina e della chirurgia pediatrica, la nascita di centri di eccellenza e delle terapie intensive neonatali, la diffusione della pratica del trasporto in utero che salvaguarda il neonato dai rischi connessi a un trasferimento immediatamente dopo la nascita».
Un ruolo decisivo hanno giocato le vaccinazioni dell’infanzia che hanno portato in pochi anni quasi all’eradicazione di malattie fino a qualche decennio prima endemiche. Pertosse e morbillo facevano circa 300 morti l’anno: oggi i livelli sono a zero.
Non solo pratiche mediche però. «Un elemento decisivo è stato anche il ritorno all’allattamento al seno che, come più volte ricordato dall’Organizzazione mondiale della sanità, svolge un ruolo fondamentale nella prevenzione di gastroenteriti e infezioni polmonari», dice Mondo.
Miglioramento delle condizioni socio-economiche, progressi medici, riduzione delle diseguaglianze. Così, dunque si è passati dai quasi 400 mila bimbi morti del 1887 ai 2.084 del 2011. Un risultato che fa dell’Italia uno dei Paesi con i più bassi tassi di mortalità infantili del mondo.
«Anche se abbiamo raggiunto livelli di mortalità straordinariamente bassi, c’è un problema che è sempre stato presente nella storia italiana e ritorna anche qui», avverte però Vecchi. «Le grandi differenze che separano le aree del Paese e ancor più le regioni. Qualcuno potrà giudicarle differenze minime, ma è eticamente inaccettabile che in Friuli Venezia Giulia ci sia una mortalità infantile del 2,3 per mille e in Calabria del 5,2». Allo stesso modo, restano sostanziali differenze tra la popolazione italiana e quella immigrata (2,9 per 1000 contro 4,3). Dovute, probabilmente, «al fatto che le donne straniere accedono più tardi alla prima visita di controllo in gravidanza, si sottopongono a minori esami e ricorrono di meno all’interruzione volontaria di gravidanza», aggiunge Mangia.
Nodi vecchi e sfide nuove. Che ora incontrano anche pericoli contingenti come la riduzione delle risorse e il progressivo ridimensionamento dell’offerta del servizio sanitario nazionale. Una china scivolosa che rischia, aumentando nuovamente le diseguaglianze, di far crescere dopo un secolo e mezzo la mortalità infantile.