Domenico Lusi, Pagina99 we 22/3/2014, 22 marzo 2014
LO STATO È IN BOLLETTA E RISPARMIA SUI PENTITI
L’ultimo episodio risale a pochi giorni fa. Augusto Di Meo, il fotografo di Casal di Principe che fece condannare il killer del prete anti-camorra don Giuseppe Diana, ha denunciato pubblicamente di essere stato abbandonato a se stesso. Lo Stato non gli ha mai riconosciuto lo status di “testimone di giustizia” (chi testimonia nei processi di mafia pur essendo estraneo alle organizzazioni criminali) e i conseguenti benefici, da quelli economici alla tutela per sé e i propri familiari. Dopo il processo, per ragioni di sicurezza, Di Meo è stato costretto a trasferirsi in Umbria con la famiglia e a cambiare lavoro, senza successo. Così, per mantenersi ha dovuto accumulare debiti, il principale dei quali, per paradosso, proprio con Equitalia.
Quello di Di Meo non è un caso isolato. Negli ultimi anni, complice la crisi, la Commissione centrale per le misure speciali di protezione – l’organismo del ministero dell’Interno che su richiesta delle procure individua i collaboratori (i cosiddetti “pentiti”) e i testimoni di giustizia da proteggere – ha stretto i cordoni della borsa, applicando in maniera sempre più fiscale i criteri d’ingresso e di rinnovo delle tutele. Da qui vicende come quella del fotografo campano. O di testimoni, racconta Valeria Maffei, avvocato che assiste il pentito di mafia Gaspare Spatuzza, «che, pur essendo esterni all’organizzazione malavitosa e non essendo mai stati imputati in un processo, vengono comunque inseriti tra i collaboratori».
Il perché è presto detto: il programma di protezione dei pentiti è assai più economico di quello previsto per i testimoni. Emblematico il caso di Rosa Ferrare, teste chiave del processo All Inside contro la‘ndrangheta, costretta a rivolgersi al Tar perché si è vista spostare, senza alcuna plausibile ragione, trai collaboratori.
La ragione della stretta, secondo molti addetti ai lavori, va ricercata nel continuo aumento del numero dei pentiti e testimoni che rende i fondi assegnati al Servizio di protezione appena sufficienti a garantire quanto previsto dagli accordi: lo stipendio, le spese legali, quelle sanitarie, l’alloggio. Al momento, tra collaboratori (1.144) e testimoni (80), i protetti sono 1.224. Aggiungendo i familiari si arriva a 5.841 persone sotto tutela circa 2.800 sono donne, mentre i minori sono duemila per un costo complessivo che lo scorso anno è stato di 76 milioni, per oltre il 75% destinati al pagamento delle retribuzioni, delle locazioni e degli alberghi di chi non ha ancora un alloggio definitivo. Nel 2011 la spesa era stata di 82,6 milioni, nel 2011 di 64,4 milioni. «I soldi sono pochi», conferma Carmen Di Meo, avvocato che difende una ventina di boss pentiti, «da una decina di anni la situazione non ha fatto che peggiorare. Una soluzione potrebbe venire da una revisione dei benefici e dei contributi previsti dalla legge».
Non a caso da alcuni mesi gira voce che la Commissione centrale stia seriamente valutando l’ipotesi di abolire, per i nuovi ingressi nel programma di protezione, la “capitalizzazione”, una sorta di buonuscita che spetta al collaboratore o testimone che decide di lasciare la tutela. «È una delle ipotesi di cui si è discusso», conferma una fonte accreditata, «insieme a quella di sostituire la capitalizzazione con una sorta di stipendio mensile per un certo periodo, ma al momento non esiste alcuna proposta formale di questo tipo». Per l’amministrazione il risparmio sarebbe notevole, visto che un pentito percepisce, in media, uno stipendio netto di 850-900 euro al mese a cui ne vanno aggiunti altri 250 per ciascun figlio a carico, cosicché un collaboratore con tre figli può arrivare a prendere circa 1.700 euro netti al mese. Se si tiene conto che la capitalizzazione consiste in una somma pari alla retribuzione degli ultimi cinque anni, il conto è presto fatto.
«Ma il contributo», ricorda l’avvocato Maffei, «può essere ancora più alto se viene presentato un progetto di vita che preveda un investimento, come l’acquisto di una pizzeria o di un’edicola». Anche per i testimoni, una recente legge prevede la possibilità, per lo Stato, di assumerli per chiamata diretta. Fatto che potrebbe far venir meno la buonuscita. Mentre, a conferma del programma di riduzione dei costi intrapreso dall’amministrazione, nell’ultima relazione al Parlamento del Dipartimento della pubblica sicurezza si legge che si sta valutando la possibilità di capitalizzare 146 collaboratori e testimoni, fatto che porterebbe «all’estromissione dal sistema tutorio di un totale di 223 nuclei familiari, con immaginabili ritorni economici».
In realtà l’austerity ha già iniziato a colpire i pentiti, sebbene in altra forma. L’attuale normativa, che risale al 2001, prevede che inizialmente il collaboratore di giustizia sia ammesso a un programma provvisorio di un anno. Trascorso il periodo, il pentito, se ha tutte le carte in regola e ha rispettato gli impegni, viene ammesso al programma definitivo. Che, pur chiamandosi così, deve in realtà essere rinnovato ogni due anni. Capita sempre più di frequente di sentire di programmi che, scaduto il termine, non vengono rinnovati. Proprio Spatuzza, nel 2011, fu al centro di un episodio simile. Il Servizio di protezione non lo ammise alla tutela definitiva, salvo i cambiare idea quanto il pentito vinse il suo ricorso al Tar. Da allora i casi si sono moltiplicati. Il picco c’è stato nel 2012, quando non sono stati rinnovati 183 programmi su 1181 (il 15,5%). «Il i fenomeno», spiega l’avvocato Di Meo, «riguarda da soprattutto i collaboratori campani. Nella i maggior parte dei casi, questo avviene perché la procura di Napoli, a differenza di quanto fanno in Sicilia e Calabria, ha iniziato a chiedere la protezione anche di persone coinvolte in una sola indagine».
Non a caso, nell’ultimo quinquennio i pentiti di camorra sono aumentati al ritmo di cinquanta unità l’anno. Oggi sono 501, poco meno della metà del totale. «Il problema», sottolinea Di Meo, «è che quando quell’unico procedimento viene chiuso, la Commissione non rinnova più il programma al collaboratore».
Diverso il discorso delle revoche, alla cui base c’è quasi sempre la commissione di un reato. «Ma», aggiunge l’avvocato Maffei, «accade anche che la protezione venga revocata per delle stupidaggini su cui in altri tempi si sarebbe chiuso un occhio. Negli anni Novanta, in un periodo di emergenza, si superava tutto». Persino il fatto che un collaboratore come Tommaso Buscetta se ne andasse in crociera.
Oggi quei tempi sono lontani, sia per i pentiti che per i loro avvocati. «Mancano le risorse», racconta Civita Di Russo, presidente dell’Associazione liberi avvocati (Ala) che rappresenta molti difensori di collaboratori, «guadagniamo davvero pochi soldi, i compensi sono stati di fatto parificati a quelli del gratuito patrocinio. I pagamenti arrivano a distanza di mesi, a volte di un anno, nonostante anticipiamo gran parte delle spese. I tagli stanno colpendo un po’ tutto, persino le cure mediche. Al Servizio di protezione si danno da fare, ma la situazione è difficile. Parliamo di famiglie con bambini che necessitano di assistenza psicologica per essere reinseriti, di minori che spesso vivono da soli perché i genitori sono in carcere».
Ci sono poi gli alloggi pagati con mesi di ritardo, le difficoltà per i pentiti a trovare il lavoro (il certificato penale è un pessimo biglietto da visita) necessario a reinserirsi. A rendere tutto più complicato c’è anche il difficile rapporto con Nucleo operativo di protezione (Nop), il gruppo interforze che gestisce i problemi assistenziali di collaboratori e testimoni.
«Non c’è una regola, molto dipende dalla sensibilità dei singoli agenti», racconta Di Russo, «ma c’è la tendenza a trattare i pentiti come cittadini di serie B». Spesso, conferma un’altra fonte che vuole restare anonima, «il rapporto con i Nop è conflittuale. “Noi passiamo una vita a catturarli e poi questi si pentono e fanno la bella vita a nostre spese”, pensano. In realtà non capiscono che i pentiti hanno un ruolo fondamentale nella lotta alle mafie e che si guadagnano abbondantemente lo stipendio con i beni che fanno confiscare alla criminalità organizzata. Ogni anno in Italia si spendono oltre 270 milioni in intercettazioni. Mantenere i pentiti e le loro famiglie costa molto meno e da risultati migliori».