Stefano Casertano, Pagina99 we 22/3/2014, 22 marzo 2014
L’IRRESISTIBILE ASCESA DELLA GRANDE POTENZA GERMANIA
La sua architettura ha il rigore estetico dei più noti palazzoni del realismo socialista: migliaia e migliaia di finestrelle sono ordinate per file, su un edificio lungo 280 metri, che al centro di Berlino dal 2015 sarà la nuova sede dei servizi segreti tedeschi, il Bundesnach richtendienst. E altro 30 metri e il lato Ovest è percorso da un canale, come il fossato di un castello, con un effetto un po’ tetro che forse i tedeschi non sono in grado di percepire. Il colore dominante è il grigio, ispirato forse al tipico colore del cielo berlinese. Le visite guidate passano già da queste parti: i turisti paiono estasiati e intimoriti dall’imponente costruzione.
In altri termini: sembra il palazzo di Ceausescu a Praga, con buona pace dello studio di architetti “Kleihues + Kleihues” – a dimostrare ancora una volta che bisognerebbe sempre diffidare degli studi di architetti con un “+” nel nome. Ma perché la Germania ha deciso d’investire così tanto nei servizi segreti? Il palazzo avrà una superficie utile di 100 mila metri quadri, con 5.200 stanze per quattromila dipendenti, dei quali la maggior parte si sposterà dalla sede attuale nei pressi di Monaco (e non vogliamo immaginare lo shock culturale nel passare dall’ordinata Baviera alla scanzonata Berlino).
Sostiene Erich Schmidt-Eenboom, il maggior esperto tedesco di servizi segreti, che «i compiti centrali dell’agenzia non sono cambiati», e che «l’attività si sta sviluppando nei settori corrispondenti alle attività operative internazionali del paese». Ciò significa che la presenza militare in teatri operativi internazionali deve essere accompagnata da un adeguato sostegno informativo – e a questo tipo di compiti deve rispondere il nuovo Bnd. Oltre tremila soldati tedeschi sono ancora dislocati in Afghanistan, e altri duemila (circa) sono presenti in diversi teatri operativi – tra cui il Mali e il Sudan.
A osservare la presenza militare estera, sembra cioè che il dislocamento militare in teatri difficili risponda a un disegno strategico internazionale accurato: collegamento con le forze statunitensi (Nato) e partecipazione a operazioni chiave insieme a partner politici e commerciali. Per questo, oltre duecento soldati sono stati assegnati al Mali e al Senegal, in un’ottica di controllo del Sahel (tra il Sahara a nord e la Savana del Sudan a sud), con il primo intervento fortemente voluto dalla Francia. In questa regione ci sono molte risorse, tra cui uranio che alimenta le centrali nucleari francesi e tedesche (la Germania importa il 64% del suo uranio arricchito dalla Francia). Il Sahel si è fatto per anni la reputazione di essere il Wild West dell’Africa, e un adeguato appoggio informativo serve non solo per la sicurezza militare, ma anche per quella civile, con la protezione delle installazioni, oltre che dei tedeschi in attività nella regione.
Ma la presenza estera tedesca non si limita alle attività militari. Verso il Senegal nel 2013 la Germania ha spedito quasi 1,3 miliardi di euro di esportazioni. È parte di un’“offensiva esportativa” iniziata nel 2010 e così ufficialmente battezzata nel corso dell’ultimo governo Merkel.
L’“Exportoffensive” è stata parto dell’allora ministro dell’Industria, il liberale Rainer Bruderle. L’offensiva germanica è proceduta irresistibilmente, e con particolare enfasi sui mercati in sviluppo. Il volume totale delle esportazioni tedesche nel 2013 è stato di 1.100 miliardi di euro: in leggero calo rispetto al 2012 (-0,2%), ma con un colpo di coda dicembrino nel 2013 di +4,6% in paragone al dicembre dell’anno prima. La Cina da sola nel 2013 ha assorbito 67 miliardi di euro di esportazioni tedesche: dieci anni prima erano appena 18 miliardi.
L’aspetto ancora più sorprendente è che la Germania nel 2013 – secondo i calcoli dell’istituto Ifo di Monaco, il principale centro di ricerca economica tedesco – ha stabilito il record mondiale di surplus commerciale (esportazioni meno importazioni), a 260 miliardi di euro. È un dato impressionante, se si considera che nel conteggio sono anche considerate le importazioni di prodotti energetici, e che la Cina si è fermata a 195 miliardi di euro. Secondo Schmidt-Eenboom, «un’attenzione così particolare verso i mercati emergenti richiede una forte presenza dei servizi per evitare sofisticazioni industriali e spionaggio aziendale». In questo senso, il rafforzamento dei servizi tedeschi deve accompagnare la crescita delle vendite tedesche all’estero in paesi proni a pratiche illecite, come Russia e Cina.
Questo disegno si colloca in un contesto regionale europeo in cui la crisi economica non si è risolta, ma si è consolidata la posizione tedesca nei rapporti politici. Il riferimento è ovviamente alla “tacita supremazia” di Berlino, che ha guadagnato una simile posizione grazie alla stabilità del sistema politico. E se la politica è prodotto della borghesia industriale, la stessa solidità dell’industria tedesca consente la creazione di governi solidi. In questa comunità d’intenti, le esportazioni tedesche hanno necessità di una moneta svalutata rispetto a dollaro e yuan cinese, e il deficit esportativo di altri paesi consente l’abbassamento della quotazione dell’euro. Ciò dipende dal principio economico in base al quale se si vendono prodotti all’estero si viene pagati in dollari, che vanno poi convertiti in euro e tale “acquisto di euro” fa aumentare la quotazione dell’euro stesso, rendendo poi i prodotti nazionali più cari all’estero, e riducendo le esportazioni. L’ancoraggio a paesi in deficit commerciale (importano più di quanto non esportino) consente di mantenere l’euro basso.
Si è cristallizzata una situazione nella quale i paesi del Sud Europa dipendono dal volere politico di Berlino in merito ai permessi per sforare i tetti di bilancio, e all’erogazione di soldi tramite i fondi salva-stati le cui sigle cambiano con perfidia tutta burocratica. Gli stessi governi instabili del meridione europeo non si trovano nelle condizioni di poter negoziare cambiamenti strutturali nell’assetto economico, e trovano più conveniente accettare l’aiuto di breve termine della corteggiatissima Angela Merkel un tempo bersaglio di epiteti da balera da parte di ex-premier italiani. Rilevava alcuni giorni fa Tonia Mastrobuoni su “La Stampa” come nel 2013 la Germania, tramite la Bundesbank, abbia incassato 7,3 miliardi di euro grazie alle rendite sui titoli di stato di paesi in difficoltà, acquistati a partire dal 2010.
L’unica voce contraria è stata quella del direttore dell’Ifo di Monaco, il prof. Hans-Wemer Sinn. Il 18 marzo la Corte Costituzionale tedesca ha ritenuto accettabile la partecipazione del paese al fondo salva-stati Esm per 500 miliardi di euro, e Sinn ha espresso “rammarico”. È pur vero che nei circoli accademici Sinn si è fatto la fama di essere un “misogino e rancoroso” (così si è espressa una professoressa di economia di un’Università berlinese”), m la sua posizione sembrerebbe trascurare un fatto chiave: più la Germania “aiuta”, più potere riceve in cambio. Per l’appunto, la crisi non è finita, ma si sono chiariti i rapporti di potere all’interno di essa. Anche per questo se ne parla meno.
È un intreccio etico-politico di difficile soluzione: non si può tacciare la Germania di avidità, perché del resto viene remunerata per essersi esposta nei confronti di paesi mal gestiti. Il fatto che Grecia, Italia e Spagna siano ancora in piedi è anche merito di Berlino. È anche nella struttura rigida della moneta unica, e nella caparbietà tedesca a conservare lo status quo, che si rintraccia l’origine del male economico. Ma nessun paese è nelle condizioni di criticare. Solo gli Stati Uniti, per voce del segretario al Tesoro Jack Lew, a gennaio hanno proposto qualche abbottonatissima osservazione: «forse sarebbe meglio avere una domanda domestica più forte». La Commissione Europea in un report di marzo sugli squilibri economici ha scritto che il surplus commerciale tedesco «riflette una grande capacità competitiva, ma è anche il segno di una domanda interna bloccata, che non consente di sviluppare le risorse al meglio».
Qui si rintracciano anche i limiti del disegno politico estero tedesco: la tendenza verso la polarizzazione economica. Se la politica estera è riflessione dell’interesse e delle attitudini della politica domestica, non è una sorpresa che alla Germania possano far comodo serbatoi di lavoro e produzioni a basso prezzo attorno ai suoi confini. Se a partire dagli anni Duemila il forniture dei fiducia è diventato sempre di più la Polonia, con la crisi e con i costanti inviti all’abbassamento dei salari, si tenderebbe a portare Italia e Spagna verso un simile ruolo.
La personalità politica internazionale per la Germania non si sta quindi proponendo come ideologia aggregante, ma è pesantemente incentrata sull’interesse nazionale. Esiste un limite interno, ed è proprio quello rilevato da Commissione Europea e Stati Uniti: la domanda domestica. In Germania dal 1990 è aumentata costantemente la polarizzazione dei salari: un lavoratore su quattro è considerato “a basso reddito”, circa 7,1 milioni di persone. Non è neanche una questione di formazione, visto che l’80% di queste persone ha completato un qualche tipo di studio. La pressione politica sta spingendo verso l’introduzione di un “reddito minimo” per cercare di riequilibrare la situazione, ma ai fatti l’unica politica adottata è quella di trasferimento dei problemi economici verso la periferia meridionale europea.
È anche per questo che, nonostante lo strapotere economico, la Germania non riesce a esprimersi come “rappresentante ideologico” europeo nei confronti delle grandi questioni internazionali. Per quanto riguarda il caso di David Snowden e dell’Nsa, per esempio, le critiche alla Casa Bianca si sono limitate a qualche richiamo verbale dal vago sapore pubblicitario, «ma di più non è possibile», sostiene Schmidt-Eenboom, «anche perché ogni anno i servizi tedeschi ricevono qualcosa come ottomila elementi informativi dai servizi Usa».
Qualcosa in più si sta muovendo invece nei confronti della Russia. La Germania è stato tra i primi paesi a criticare l’intervento russo in Crimea, con Merkel che ha definito l’operazione di Putin “illegale”. Forte di un sistema energetico che si sta espandendo anche verso la Scandinavia, Berlino ha realizzato di essere dipendente dal gas russo, tanto quanto la Russia dipende dal mercato tedesco, che è l’unico (tra i grandi) in crescita nel continente europeo. Anche per questo motivo, le due principali aziende energetiche tedesche – Rwe ed E.On – hanno recentemente dichiarato che saranno pronte a rifornire l’Ucraina di gas, nel caso in cui dovesse essere minacciata della sospensione di forniture da parte di Mosca.
Il problema è che l’opposizione tedesca nei confronti di Mosca non ha sortito il benché minimo effetto: Putin si è presentato (non) sorridente alla Duma a dichiarare che il processo di annessione è avviato. A voler dare un’interpretazione cinica ai fatti, la Germania ha chiesto ai russi Mosca non ha sortito il benché minimo effetto: Putin si è presentato (non) sorridente alla Duma a dichiarare che il processo di annessione è avviato. A voler dare un’interpretazione cinica ai fatti, la Germania ha chiesto ai russi il permesso di aprirsi un mercato per il gas verso l’Ucraina – con cui i russi hanno avuto sempre problemi per farsi pagare le bollette – in cambio del (tacito) permesso tedesco ai russi di far tornare la Crimea sotto l’egida russa. Così, i russi si libereranno anche dell’incombenza regolare di litigare con Kiew e con i vari banditi che da anni si susseguono al palazzo di governo pur se con rare eccezioni.
E imperialismo quello tedesco? No: i tedeschi non conquistano e non annettono. E qualcosa di più evoluto e contemporaneo: è esercizio sopraffino dell’arte di governo, per fare il meglio possibile con quanto c’è a disposizione. Dieci anni fa la Germania era sull’orlo del baratro, e ha compreso in fretta che il sistema euro consentiva di crescere, ma non a tutti. Ci sarebbe stato posto solo per un vincitore, a patto che questi fosse pronto a riformarsi prima degli altri. La Germania è stata brava a cogliere l’attimo un attimo durato anni di sacrifici, dei quali la supremazia attuale è la ricompensa, almeno finché dura. Ma che ne sarà dell’Italia, della Spagna e della Grecia?