Ennio Caretto, Corriere della Sera 25/3/2014, 25 marzo 2014
E PUTIN DISSE A BUSH: «L’UCRAINA NON È UNO STATO»
È il 4 aprile del 2008. A una riunione a Bucarest, George Bush figlio e Vladimir Putin discutono dell’Ucraina. Bush la vorrebbe nell’Unione Europea e nella Nato, dove sono già entrati numerosi Paesi dell’Est europeo, ma il leader russo è contrario. «Che cosa è l’Ucraina?» esplode Putin. «Devi capire, George, che non è nemmeno uno Stato. Una parte dei suoi territori si trovano nell’Europa orientale, ma la maggior parte sono un regalo che le abbiamo fatto noi». Il presidente americano ribatte che l’Ucraina è «una nazione indipendente di cui vi siete impegnati a rispettare le frontiere».
Per l’ex direttore della Cia e ministro della Difesa americano Robert Gates, che partecipa ai lavori, il messaggio non potrebbe essere più chiaro. «Putin — dice Gates a Bush — non rinuncerà mai al controllo di quella che considera la “piccola Russia” ossia la propria parte dell’Ucraina», tanto meno al controllo della Crimea, un territorio semiautonomo dove ha sede una delle basi navali russe più importanti. E ammonisce che il Cremlino «non avrà pace» finché un governo filorusso non subentrerà al governo filoccidentale di Kiev, al potere dal gennaio 2005. Bush figlio risponde che cercherà di impedirlo. Tra le misure da adottare, il presidente inserisce l’apertura di una rappresentanza diplomatica americana a Sebastopoli, un avvertimento a Putin, che nel frattempo ha ceduto al suo braccio destro Dmitrij Medvedev la presidenza della Russia, ma non il potere. Kiev è d’accordo, ma il Parlamento della Crimea respinge la proposta con 77 voti a 9. E’ una sconfitta della Casa Bianca che passa sotto silenzio, e Bush non fa più nulla. L’Ucraina e la Crimea sono uno dei problemi irrisolti che lascerà al suo successore.
Secondo documenti desecretati di recente dagli Archivi nazionali di Washington, l’Ucraina e la Crimea sono stati problemi irrisolti anche per il predecessore di Bush, Bill Clinton. Nel 1996, mentre si conclude il processo di denuclearizzazione dell’Ucraina stipulato tra Kiev, Mosca e Washington due anni prima, la Cia informa la Casa Bianca che «in Crimea la Russia ha installato missili Sam a lunga gittata di tipo Tallinn», che «è in funzione un impianto di armi chimiche». Clinton tergiversa, ha buoni rapporti con l’allora presidente russo Boris Eltsin e teme di guastarli. Tre anni più tardi, uno studio di esperti commissionato dalla Casa Bianca conclude che «in Ucraina si aggrava il divario culturale tra quanti sono vissuti sotto la Russia o sotto l’Urss per 200 anni e quanti sono vissuti invece sotto l’Austria e sotto la Polonia». Il rapporto precisa che questi ultimi «chiedono una maggiore autonomia politica e religiosa da Kiev e c’è il rischio di un conflitto», ma consiglia alla Casa Bianca di non interferire. Clinton lo accetta. Il presidente americano sa di avere mancato alle promesse fatte da George Bush padre, il suo predecessore. Nel 1990, Bush padre aveva assicurato all’allora presidente dell’Urss Gorbaciov, ansioso di entrare «nella comune casa europea», che «la Nato non si sarebbe allargata a Est neanche di un pollice» alla dissoluzione del Patto di Varsavia, l’Alleanza militare comunista. Nel 1991 inoltre, in un discorso a Kiev, Bush padre aveva criticato «i nazionalismi suicidi» delle ex repubbliche sovietiche. Ma Clinton aveva imboccato la strada opposta. E nel 1999 si rende conto che ciò potrebbe portare a uno scontro con il successore di Eltsin, Putin, tanto da chiedere a Eltsin in privato «di tenerlo d’occhio».
I documenti lasciano trasparire che il dialogo tra Bush figlio e Putin sull’Ucraina e la Crimea è un dialogo tra sordi. Putin non è solo un «ex agente del Kgb», la polizia segreta sovietica, è anche un «grande russo» che vuole tenere i territori contigui nella propria sfera d’influenza.
Nel 2001, quando Bush figlio dice di avergli «letto nell’anima» e di averlo trovato «degno di fiducia», Putin aiuta l’America nella lotta al terrorismo, ma presto incomincia a reagire alle iniziative americane nell’Est europeo con la forza. La «Rivoluzione arancione» del novembre 2004 in Ucraina conduce alla rottura tra i due leader al vertice in Slovacchia del 2005: Putin vede in essa la mano dell’America. Sebbene in parte mascherata, è «pace fredda» tra Washington e Mosca. I contrasti aumentano nel 2007 quando Bush chiede alla Polonia e alla Repubblica Ceca di ospitare missili antimissili americani, formalmente per contenere l’Iran. Nell’agosto del 2008, la Russia invade la Georgia, che il presidente georgiano Saakashvili vuole portare nell’Unione Europea e nella Nato. Quello stesso anno, è scontro finale tra Bush e Putin. Bush: «Ti avevo avvisato che Saakashvili è una testa calda». Putin: «Sono una testa calda anch’io». Bush: «No Vladimir, tu sei una testa gelida». E’ uno scontro che si rinnova nel 2009 tra Putin e il successore di Bush, Barack Obama. Durante una visita Joe Biden, il vice di Obama, offre a Kiev «pieno appoggio» nel caso che voglia integrarsi nell’Europa e nell’Alleanza Atlantica. Bush non ha nascosto a Obama i suoi timori sulla Crimea e sull’Ucraina. L’impressione tratta dai documenti è così riassunta da Jack Matlock, l’ambasciatore americano presso Gorbaciov: troppo poco e troppo tardi. Putin è colpevole, scrive Matlock, «ma l’America ha trattato la Russia da perdente nella Guerra fredda, la cui fine era stata invece negoziata».
Ennio Caretto