Davide Vannucci, Europa 23/3/2014, 23 marzo 2014
IL MISTERO DELLA MORNING GLORY, LA PETROLIERA CHE HA AFFONDATO IL GOVERNO IN LIBIA
Quando Noman Baig – nazionalità pakistana, professione capitano – firmò, lo scorso novembre, un contratto con la Saud Shipping, società con sede legale a Dubai, parte del gruppo Zad, che commercia petrolio nel Golfo Persico, non avrebbe mai immaginato di trovarsi al centro di un intrigo internazionale di simili proporzioni.
Baig qualche settimana dopo ricevette un ordine dal capo in persona del Zad, Saud al Anazi: avrebbe dovuto condurre una nave, la Morning Glory, fino ad un porto dell’est della Libia. Il seguito è storia delle ultime settimane. La petroliera riesce ad attraccare ad Es Sider, uno dei terminali controllati dai ribelli libici, guidati da Ibrahim Jadran, che da alcuni mesi hanno preso possesso dei centri produttivi della Cirenaica, chiedendo di gestire in prima persona l’export di petrolio. L’oro nero si trova (soprattutto) nell’est, i proventi devono andare all’est, dicono.
Gli uomini di Jadran, armati, riescono a caricare un container, 234.000 barili, sulla Morning Glory. Se il carico giungesse a destinazione, i ribelli dimostrerebbero di poter agire come un’entità autonoma e autosufficiente. L’indipendenza sarebbe un dato di fatto, anche se non di diritto. Perché in Libia il petrolio è lo Stato: il 95 per cento delle entrate deriva dall’oro nero e negli ultimi mesi, a causa del blocco dei terminal, la produzione è scesa da un milione e mezzo a 250.000 barili al giorno, con conseguenze potenzialmente letali sul bilancio pubblico.
Il governo centrale di Tripoli non può accettare che il capitano Baig porti a termine la missione. Prima, minaccia. «Affonderemo qualsiasi nave che trasporti petrolio in maniera non autorizzato», tuona il primo ministro Zeidan. Ma la Morning Glory salpa da Es Sider. A quel punto è Zeidan ad affondare. Sfiduciato da un voto del Congresso, inseguito, forse, da un mandato di cattura, scappa in Germania. Il ministro della difesa, Abdullah al Thani diventa premier ad interim.
La sua prima mossa è quella di chiedere il sostegno della comunità internazionale per fermare la Morning Glory. Gli Stati Uniti non possono rimanere inerti. Hanno perso un ambasciatore in un attentato, un anno e mezzo fa, a Bengasi. La Libia, dilaniata dallo strapotere delle milizie private, è quasi un failed state. La vittoria di Jedran sarebbe il colpo di grazia. Così Obama decide di mandare i corpi speciali della marina, i Navy Seals – quelli che hanno catturato bin Laden, per intendersi – a bloccare la nave, che nel frattempo ha preso il largo in direzione di Cipro.
Il blitz, domenica scorsa, nelle acque internazionali davanti a Nicosia, ha successo. Adesso la Morning Glory è controllata dagli americani, che proprio oggi l’hanno ricondotta nel porto di Tripoli. Ma troppe restano le domande inevase. Chi è l’effettivo proprietario del tanker? Come è stato possibile, per la nave, eludere i controlli, attraccando ad Es Sider?
Un contratto mostrato alla Reuters, datato 22 febbraio, descrive la vendita della petroliera, da parte di Anazi, a un acquirente libico, tanto che i ribelli, secondo cui il compratore sarebbe ancora a bordo del tanker, accusano gli Stati Uniti di pirateria, per avere scippato un carico legittimo. Anazi non commenta. Un’altra compagnia degli Emirati, di base a Sharjah, la Sea Pride Shipping, sostiene a sua volta di essere proprietaria della petroliera, che non opererebbe, però, dal 2011. La Sead Pride Shipping, che ha denunciato la Saud per non avere restituito la nave, è una società sospetta. È controllata infatti dalla potente famiglia emiratina degli al Sari, il cui gruppo, la Fal Oil Co, fu sanzionato nel 2012 dagli americani per avere venduto petrolio raffinato all’Iran, in barba alle sanzioni.
Come in un film di Kurosawa, ognuno ha la propria versione sulla Morning Glory. Il governo libico è convinto che la petroliera sia stata effettivamente venduta prima di iniziare il suo viaggio verso la Cirenaica, ma a una compagnia saudita. La nave batteva bandiera nord-coreana, ma Pyongyang nega qualsiasi coinvolgimento, puntando il dito contro una compagnia egiziana, la Golden East Logistic. Quella della Corea del Nord potrebbe essere una classica “bandiera di convenienza” (in precedenza, la Morning Glory era stata registrata in Liberia), ma è difficile che un simile vessillo non venga notato, tanto più nel Mediterraneo.
Ma allora chi era destinato a comprare il carico, fornendo un aiuto sostanziale ai ribelli libici? La polizia cipriota ha arrestato due israeliani e un senegalese, che con un blitz avevano cercato di salire sulla nave, ma in seguito i tre sono stati rilasciati per un difetto di giurisdizione.
L’oro nero libico, che è di qualità sopraffina, fa gola a molti, ma non è sempre facile vendere petrolio di contrabbando sui mercati internazionali. I curdi sono riusciti a esportarne buone quantità direttamente in Turchia, malgrado i divieti del governo di Bagdad, ma l’Iran ha ben 30 milioni di barili invenduti a causa delle sanzioni. Per non parlare delle dispute di proprietà: nel 2012 una petroliera indiana, con un carico sudanese, rimase bloccata al largo del Giappone per via dei contrasti fra Khartoum e Juba.
A dare una mano al debole governo di Tripoli nella disputa con Jadran è intervenuto il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che mercoledì scorso ha adottato le sanzioni contro l’export illegale di petrolio dalla Libia, autorizzando le ispezioni nei confronti delle navi sospette e bandendo dal commercio internazionale le compagnie coinvolte. Eppure Jadran non molla, fa appello alla Lega Araba e si arroga il diritto di parlare in nome del popolo cirenaico. Non è chiaro se i secessionisti abbiano forze armate sufficienti per realizzare il loro progetto. L’est della Libia sembra più che altro in preda all’anarchia, a miliziani jihadisti, a brigate di varia natura che vogliono imporre la loro legge. Ma Tripoli deve assolutamente vincere la battaglia del petrolio, se vuole provare a costruire uno Stato.