Cristiana Pulcinelli, l’Unità 24/3/2014, 24 marzo 2014
QUANDO IL MARE MORÌ – [IL 24 MARZO 1989 SULLE COSTE DELL’ALASKA OLTRE 40 MILIONI DI LITRI DI PETROLIO]
IL 24 MARZO DEL 1989 È APPENA COMINCIATO SOLO QUALCHE MINUTO DOPO LA MEZZANOTTE, la superpetroliera Exxon Valdez si arena contro una scogliera nello stretto di Prince William, costa sud dell’Alaska. Oltre 40 milioni di litri di petrolio greggio fuoriescono dal profondo squarcio nello scafo e, spinti dal vento, nei mesi successivi si disperdono nell’acqua arrivando a toccare oltre 2.000 chilometri di coste incontaminate. «Il giorno in cui il mare è morto», come venne definito da un vecchio indigeno con una frase che diventò il titolo di un libro dedicato all’incidente, fu il giorno di uno dei peggiori disastri ecologici della storia.
In seguito allo sversamento furono ritrovati moltissimi animali morti, ma poiché le carcasse affondano, si calcola che le perdite siano state più alte. Le stime parlano di 250.000 uccelli marini, circa 2.800 lontre marine, 300 foche comuni e 250 aquile. Dal 1990 sono scomparsi numerosi membri di un gruppo di orche marine che vivevano nella baia. La pesca è andata distrutta insieme a miliardi di esemplari e uova di aringhe e salmoni.
La Exxon Mobil, il colosso dell’energia proprietaria della nave, dice di aver speso 2,1 miliardi di dollari in operazioni di pulizia – cifra in gran parte coperta dalle assicurazioni – ma venne condannata a risarcire altri 5 miliardi per «danni punitivi», comminati più per punire il colpevole che per risarcire le vittime. Nel 1994 la cifra viene dimezzata in sede d’appello e ridotta nel 2008 dalla Corte Suprema a 500 milioni. Nonostante tutto, 25 anni dopo l’area non è ancora stata recuperata. Dei 32 settori monitorati dal governo degli Stati Uniti (che comprendono popolazioni di pesci e animali selvatici, habitat e risorse varie), ad oggi solo 13 sono considerati «guarite» o quasi. Gli altri sono ancora nella lista degli ammalati.
Nonostante la zona venne pulita subito dopo l’incidente, il petrolio in effetti è ancora presente in alcune spiagge del golfo, il perché lo ha spiegato Gail Irvine una ricercatrice del Geological Survey degli Stati Uniti intervistata dal National Geographic: quando il petrolio è fuoriuscito dalla nave si è mischiato con l’acqua marina formando una emulsione che nel tempo si è trasformata in un composto denso, «la parte esterna del composto è stata consumata dagli agenti atmosferici, ma l’interno è rimasto intatto». È come la maionese lasciata sul tavolo della cucina, spiega Irvine: dopo un po’ di tempo forma una crosta sulla superficie, ma all’interno è ancora un composto denso e scivoloso. Questa emulsione di petrolio e acqua di mare si infiltra tra le rocce e lì rimane intrappolata formando delle pozze o penetrando sotto le rocce stesse. Una stima del 2003 ha calcolato che ancora più di 75mila litri sono lì, sotto i sedimenti, e la Exxon Valdez Oil Spill Trustee Council, il consiglio che controlla la «situazione per conto dei governi federale e statale, ha dichiarato che il petrolio è ancora tossico come nelle prime settimane dopo l’incidente e che ci vorranno «decenni, forse secoli perché sparisca del tutto». Il problema è che non è chiaro se questi residui stanno avvelenando lentamente gli animali che frequentano il litorale.
Studiando il disastro, gli scienziati hanno scoperto che gli effetti del petrolio sugli esseri viventi sono più complicati di quanto si pensasse. Prendiamo le aringhe: il momento dell’incidente coincideva con la deposizione delle uova di questa specie. Tutte le uova vennero distrutte, ma un anno dopo la popolazione di aringhe sembrava riprendersi. Improvvisamente, però, il numero di aringhe è crollato nuovamente e gli scienziati hanno cominciato a chiedersi perché. Si è visto poi che altri animali, come le orche, le lontre, le anatre, hanno continuato a soffrire anche anni dopo il disastro. Questo ha ribaltato un vecchio modo di vedere le cose. Tradizionalmente si pensava che l’animale – o l’embrione – dovesse ricoprirsi di petrolio per essere danneggiato, ma in Alaska si è visto che i danni possono manifestarsi in modi diversi. Ad esempio, il petrolio che si è infiltrato nei sedimenti contamina i molluschi di cui si nutre la lontra. In questo modo non uccide direttamente le lontre, ma procura loro dei danni sul lungo periodo: secondo il biologo Dan Esler ha accorciato la vita di questi animali e così ridotto drasticamente la popolazione. C’è chi non è d’accordo e sostiene che la quantità di greggio rimasto è troppo piccola per costituire una vera minaccia, tuttavia ci sono segnali preoccupanti: ad esempio, la grande famiglia di orche che viveva nella baia è passata da 22 unità a 7 e il governo ha recentemente affermato che per questo gruppo non sembra ci sia speranza di recupero: la popolazione probabilmente si estinguerà. Richard Steiner, ex professore di biologia marina all’università dell’Alaska, scrive sul Seattle Times che dobbiamo saperlo: «Gli sversamenti non possono essere puliti del tutto e causano danni a lungo termine. Se continuiamo a produrre e trasportare petrolio dovremo farlo con i più alti standard di sicurezza, senza badare a spese».
Curiosità: dopo l’incidente, la Exxon Valdez fu riparata e cambiò il suo nome in Sea River Mediterranean e ancora porta petrolio lungo l’Atlantico. Solo un posto gli è precluso: lo stretto di Prince William. Per legge non può tornare sul luogo del delitto.