Alessio Schiesari, Il Fatto Quotidiano 24/3/2014, 24 marzo 2014
LA LEGGE DISUGUALE DEI SOLDATI AMERICANI
Vicenza
La giustizia è uguale per tutti. Per tutti meno che per i militari americani: sbagliano in Italia, ma vengono giudicati altrove. È successo novantuno volte negli ultimi quindici mesi. Gli unici ad accorgersene sono quelli che hanno subito i loro reati: vittime di serie B che non possono nemmeno assistere al processo da cui dovrebbero ottenere giustizia. Succede ovunque c’è una base Usa. A Vicenza, dove ce ne sono due, succede più che altrove.
La notte del 9 novembre al Disco Club Ca’ di Dennis è in programma una festa: musica reggaeton, champagne e porchetta per tutti. Durante la notte un’adolescente esce. Un ragazzo conosciuto dentro la discoteca la spinge in un angolo buio, le tappa la bocca per impedirle di urlare e la violenta. Quando un passante si avvicina, il ragazzo scappa a piedi. Lei è una 17enne sudamericana che vive in provincia di Vicenza. Lui – secondo l’identificazione dei carabinieri – sarebbe Jerelle Lamarcus Gray, un militare della nuova caserma statunitense Del Din, più conosciuta col nome di Dal Molin. La ragazza racconta tutto ai carabinieri e la procura apre un fascicolo, ma quel processo rischia di non essere mai celebrato, almeno in Italia. L’ufficio legale dell’Usaraf – la divisione dell’esercito statunitense a Vicenza – ha scritto al ministero della Giustizia per sollecitare “la rinuncia al diritto di priorità alla giurisdizione penale”. Tradotto dal burocratichese, l’esercito chiede che il processo si celebri negli Usa. Grazie all’articolo 7 della Convenzione di Londra, infatti, i militari Nato possono essere giudicati nel Paese di appartenenza invece che in quello dove commettono il reato. È una storia già sentita: i quattro responsabili della strage del Cermis – quando un aereo militare tranciò una funivia causando la morte di venti persone – vennero processati negli Usa. Furono tutti assolti. Gray però non stava pilotando un aereo militare né stava svolgendo un’esercitazione. Era un militare in libera uscita che aveva deciso di trascorrere una serata in discoteca. Gli archivi del Giornale di Vicenza sono pieni di casi in cui l’Italia abdica al dovere di perseguire i colpevoli. Il 15 marzo, il ministero rinuncia a processare un militare di Camp Ederle che aveva simulato un incidente stradale. Il 28 febbraio, dopo otto anni di rinvii, viene archiviato un fascicolo a carico di due militari accusati di avere improvvisato una gara automobilistica per le strade della città. Ad agosto tocca a quattro soldati che, qualche mese prima, avevano investito tre pedoni ed erano scappati senza soccorrerli.
IN BASE AGLI ACCORDI NATO, se gli Usa vogliono che un militare venga processato a casa, devono richiedere l’autorizzazione al ministero di Giustizia italiano. Negli ultimi 15 mesi è successo ben 113 volte e l’Italia ha già detto 91 sì. Novantuno reati commessi in Italia che i tribunali italiani non giudicheranno mai. La convenzione non prescrive su che basi il governo debba prendere una decisione. “Il criterio è la convenienza politica”, spiega il procuratore capo di Vicenza, Antonio Cappelleri. La gravità del reato e gli indizi di colpevolezza non contano nulla. L’ufficio cooperazione internazionale del ministero ammette che “le richieste vengono accolte quasi sempre perché la convenzione Nato chiede di valutarle con benevolenza”. Sarà , ma l’Italia è uno dei Paesi che interpreta gli accordi in modo più lasco. A complicare le cose c’è la situazione dei tribunali. A Vicenza ogni procuratore ha circa 2mila fascicoli arretrati. Per questo nessuno considera un dramma che qualche processo venga archiviato. Nessuno a parte le vittime. L’attesa che il ministero si pronunci sulla richiesta dell’esercito sulla violenza alla diciassettenne è vissuta con angoscia. “Se il processo si celebrerà negli Usa, i genitori non avranno la possibilità di partecipare. Non parlano inglese e gli avvocati negli Usa non sono economici”, spiega Anna Silvia Zanini, la legale della ragazza. Inoltre, l’indagine dovrebbe ripartire da capo perché “le autorità Usa non chiedono i fascicoli delle indagini”, spiega Cappelleri. Il precedente del Cermis, fa sorgere molti dubbi sulla regolarità di questi processi. Ma al ministero non sembra interessare: manca perfino una statistica sulle condanne emesse.
LE BASI STRANIERE a Vicenza sono due: la Ederle – formalmente assegnata alla Nato – e il Dal Molin, considerata territorio Usa a tutti gli effetti. In entrambe, non solo è proibito entrare, ma persino guardare dentro. Sono delimitate da una fitta recinzione verde ornata da filo spinato e intervallata dai cartelli gialli “zona militare”. Gli attivisti contrari alla base periodicamente squarciano le recinzioni, ma i militari sono rapidissimi a rimpiazzarle. Il complesso misura 60 ettari, una volta e mezzo il Vaticano. All’interno si trovano 31 edifici tra cui alloggi, bar, ospedali e piscine. Con oltre 12 mila statunitensi su 113 mila abitanti, Vicenza è di gran lunga la città più “americana” d’Italia ma, girando per il centro, quasi non si vede. A parte qualche incontro sporadico in gelateria o in pizzeria, la comunità Usa sembra invisibile. L’eccezione è il sabato sera, quando i ragazzi delle due basi – quasi sempre poco più che ventenni – si comportano come tutti i militari del mondo: affollano i bar con lap dance in cerca di compagnia o escono a bere. Uno dei loro punti di ritrovo è il Crazy Bull di Torri di Quartesolo, appena fuori Vicenza: luci al neon, scritte in inglese, arredamento pacchiano, assomiglia a tanti altri locali disseminati nelle zone industriali del Veneto. Al Crazy Bull però vanno quasi solo americani. “Risse ce ne sono sempre state, ma dopo l’Afghanistan e l’Iraq la situazione è peggiorata. I ragazzi tornano distrutti, non capiscono più niente”, racconta Mimmo, il gestore. Forse perché la 173ima brigata di fanteria aviotrasportata, il battaglione ospitato al Dal Molin, quando va in guerra combatte sul serio. Era in prima linea a Falluja, in Iraq. In Afganistan i marine partiti da Vicenza sono stati ripresi mentre davano fuoco ai cadaveri dei miliziani per stanare i talebani dai rifugi. Non c’è da stupirsi se molti, al ritorno, si portano dietro gravi problemi psichiatrici. Il comando della base lo sa e ha provato a prendere delle contromisure: ha istituito un numero di emergenza contro gli stupri, ha proibito il consumo di alcol nella zona militare e, prima di rimandare i soldati negli Usa, impone a ciascuno un mese di terapia. Non sempre però è sufficiente. Il 22 febbraio 2004, la polizia di Vicenza trova una ragazza nigeriana che vaga in stato di choc. È completamente nuda, sanguina e ai polsi ha delle manette. Gli agenti provano ad aprirle, ma la chiave non funziona. Sono manette diverse, il modello è quello in dotazione all’esercito Usa. A ridurla così è stato James Michael Brown, un parà appena tornato da una missione in Iraq (circostanza che verrà riconosciuta dal tribunale come attenuante). Ha concordato con la ragazza una prestazione sessuale, l’ha fatta salire in auto e, dopo averla ammanettata, l’ha violentata e seviziata per ore. Per Brown gli Usa non hanno mai chiesto la rinuncia alla giurisdizione. Per questo, lui sì, viene processato in un’aula italiana, seduto davanti alla scritta “la legge è uguale per tutti”. Trascorre un anno in carcere, ma i termini per la carcerazione preventiva scadono. L’esercito per un po’ lo tiene in custodia in Germania, poi lo rimette in libertà. Quando arriva la condanna definitiva a cinque anni e due mesi, Brown è già tornato in Oregon. Deve ancora terminare di scontare la sua pena ma, a distanza di quasi dieci anni, l’Italia non risulta aver chiesto l’estradizione.