Valentina Errante, Il Messaggero 24/3/2014, 24 marzo 2014
UN EX POLIZIOTTO: «IN VIA FANI I NOSTRI SERVIZI AIUTARONO LE BR»
L’INCHIESTA
ROMA Sequestro Moro 36 anni dopo: i servizi e i depistaggi. Oggi come allora. Così per una vicenda mai ricostruita nella sua verità storica e giudiziaria arriva un altro spunto post mortem: sull’Honda che la mattina del 16 marzo ’78 ”proteggeva” il commando di via Fani c’erano due agenti del Sismi, defunti entrambi. Dunque, se era già noto che Camillo Guglielmi, colonnello del servizio segreto, addestratore di Gladio, alle 9,30 fosse a due passi dal luogo dell’agguato, adesso si apprende che, in una lettera-confessione, scritta in punto di morte, uno dei due 007 ha ammesso di essere stato alla guida della moto. Il colonnello non ha mai cambiato versione: «Andavo a pranzo da un amico», nonostante l’ora insolita, ha detto molti anni fa. Chi ci fosse su quella moto, invece, non si è mai saputo. Gli stessi brigatisti condannati hanno sempre sostenuto di ignorare chi fossero quei due individui. Ora lo racconta Enrico Rossi, ex ispettore di polizia, che riferisce all’Ansa di prove sparite e indagini negate a Torino. Rossi verrà convocato dal pm romano Luca Palamara, titolare di un fascicolo su Moro aperto dopo una denuncia dell’ex magistrato Ferdinando Imposimato. L’inchiesta torinese invece sarebbe già archiviata.
LA LETTERA
Il documento è arrivato nel 2009 alla redazione de La Stampa. «Quando riceverete questa lettera - recitava il testo - saranno trascorsi almeno sei mesi dalla mia morte come da mie disposizioni. Ho passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità su certi fatti. Ora è tardi, il cancro mi sta divorando e non voglio che mio figlio sappia. La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere. Io non credo che voi giornalisti non sappiate come veramente andarono le cose ma nel caso fosse così, provate a parlare con chi guidava la moto, è possibile che voglia farlo, da allora non ci siamo più parlati, anche se ho avuto modo di incontralo ultimamente». L’anonimo forniva elementi per rintracciare l’altro uomo: il nome di una donna e di un negozio di Torino. «Tanto io posso dire, sta a voi decidere se saperne di più».
LE INDAGINI
La lettera è arrivata sul tavolo di Rossi, che ha lavorato a lungo nell’antiterrorismo, nel 2011, in modo casuale. Non era protocollata e, dice l’ispettore, non erano stati fatti accertamenti. Rossi ci mette poco a identificare l’uomo alla guida dell’Honda che secondo Alessandro Marini, un ingegnere rimasto ferito sul luogo dell’agguato, era a volto scoperto e somigliava a Eduardo De Filippo. «Questa inchiesta trova subito ostacoli - racconta oggi Rossi - chiedo di fare riscontri ma non sono accontentato. L’uomo su cui indago ha, regolarmente registrate, due pistole. Una è molto particolare: una Drulov cecoslovacca. Per non lasciare cadere tutto nel solito nulla predispongo un controllo amministrativo nell’abitazione. L’uomo si è separato legalmente. Parlo con lui al telefono e mi indica dov’è la prima pistola, una Beretta, ma nulla mi dice della seconda». Così viene disposta una perquisizione. «In cantina, in un armadio, trovammo la pistola Drulov poggiata accanto o sopra una copia dell’edizione straordinaria cellofanata de La Repubblica del 16 marzo. Il titolo Aldo Moro rapito dalle Brigate Rosse. Nel frattempo - continua Rossi - erano arrivati i carabinieri non si sa bene chiamati da chi. Consegno le due pistole e gli oggetti sequestrati alla Digos di Cuneo. Chiedo subito di interrogare l’uomo che all’epoca vive in Toscana. Autorizzazione negata. Chiedo di periziare le due pistole. Negato». Dopo alcune incomprensioni in ufficio, Rossi va in pensione in anticipo, a 56 anni. E’ stata «una voce amica» a informarlo che l’uomo su cui indagava è morto dopo l’estate del 2012.
«Le due armi sono state distrutte senza effettuare le perizie balistiche che avevo consigliato di fare. Ho aspettato mesi. I fatti sono più importanti delle persone e per questo decido di raccontare l’inchiesta incompiuta. E’ stata un’occasione persa».
Valentina Errante