Federico Fubini, Affari&Finanza 24/3/2014, 24 marzo 2014
FORCHIELLI IL MANDARINO “NIENTE PALETTI ALLA CINA MA ADESSO L’EUROPA DEVE FARSI RISPETTARE”
L a vicenda di Alberto Forchielli passa da un’intervista concessa a «Repubblica» non molto tempo fa. Passa e svolta di là. È inizio dicembre dell’anno scorso, il giorno dopo il rogo in una fabbrica- dormitorio cinese a Prato in cui muoiono sette operai in clandestinità. Amministratore delegato di Mandarin Capital Partner, il primo fondo di private equity non cinese ad aver mai ricevuto in gestione capitali del governo di Pechino, Forchielli al telefono da Hong Kong in quei giorni non risparmia le critiche: «Nel grande come nel piccolo l’imprenditore cinese pubblico o privato ha una mente fondamentalmente criminale - accusa - perché cresce in un ambiente privo di etica, fatto di rapporti, evasione, infrazioni». E rincara: dei cinesi, dice, negli ultimi anni «è cambiata l’arroganza. Le Olimpiadi di Pechino, la crisi di Wall Street e quella dell’euro hanno portato l’arroganza cinese a livelli pericolosi. Non osservano le regole in patria e ormai ritengono di essere così potenti da poterle ignorare anche fuori».
Per un bel po’ di tempo, quelli resteranno i suoi ultimi giorni nell’ex colonia britannica sul Mar Cinese Meridionale. Forchielli dopo l’intervista si barrica in casa, poi esce solo per arrivare fino all’aeroporto e trasferirsi a vivere a Boston, dall’altra parte del mondo. Non è ciò che aveva immaginato quando nel 2007 lui, ex studente di economia di Romano Prodi, ex manager di Finmeccanica e poi assistente di Beniamino Andreatta, aveva lanciato la sua scommessa: diventare imprenditore a quasi 50 anni, e farlo in Cina. Forchielli si era presentato con la sua idea a Pietro Modiano, allora al vertice del Sanpaolo Imi di Torino, e da allora in poco tempo ha costruito una specie di centauro della finanza internazionale: un fondo d’investimento metà italiano e metà cinese da 328 milioni di euro di capitale versato. Da una parte soci come quella che poi sarebbe diventata banca Intesa Sanpaolo, le Generali, Banco Popolare, famiglie del capitalismo italiano come i Malacalza o i Merloni, la Popolare dell’Emilia-Romagna e una ventina di altri. Dall’altra, con il secondo 50%, due bracci finanziari del governo cinese nel mondo: la China Development Bank e la Export-Import Bank di Pechino. È la prima volta che uno spicchio delle riserve sovrane della nuova potenza emergente finiscono nelle mani di un uomo bianco.
A quel progetto, Forchielli aveva pensato sempre di più durante anni di una carriera molto poco italiana: master in gestione aziendale (con lode) a Harvard e poi Singapore, Kuala Lumpur, Hong Kong, Shanghai, Pechino. Prima a rappresentare Finmeccanica, poi al lavoro per la Banca Mondiale sulla crisi asiatica del ’97, infine come fornitore di parti per imprese europee dalla Cina. L’idea con cui lancia Mandarin è di finanziare e guidare medie imprese europee a alta specializzazione che vogliono sbarcare in Cina, e favorire investimenti cinesi in Europa. Funziona. L’acquisizione dell’impresa lombarda di macchinari da calcestruzzo Cifa da parte della cinese Zoomlion diventa persino un caso di studio per la Harvard Business School. Mandarin Capital Partner oggi ha un rendimento cumulato di oltre due volte e mezzo il capitale versato, malgrado la recessione globale dopo il crac di Lehman e il terremoto che si abbatte sull’euro. Nelle classifiche, è nell’1% dei migliori fondi di private equity al mondo fra quelli partiti nel 2007.
Poi Forchielli fa lo strappo sul caso Prato. Decide di levare le tende per un po’ e se ne va a Boston. Ma l’incendio nella fabbrica tessile, un settore dove peraltro non ha mai investito, è stata solo l’ultimo colpo. La goccia che ha fatto traboccare il vaso, dice lui: «A partire dal 2010 il rapporto con i soci cinesi si è fatto più complesso, sono diventati protervi e hanno manifestato tendenze al controllo che non erano nei patti», spiega. Mentre negli accordi iniziali i manager di Mandarin avrebbero dovuto lavorare in piena indipendenza dai soci che avevano versato il capitale, attenti solo alle occasioni di fare buoni investimenti, con il tempo l’atteggiamento di Pechino cambia. I cinesi vedono la debolezza dell’Europa, la fragilità istituzionale dell’Italia e la sua sete di capitali. E decidono di usare il fondo di Forchielli come una leva per penetrare nel sistema produttivo e nel know how del vecchio continente e, in particolare, del suo secondo produttore manifatturiero dopo la Germania. Ci provano anche a sprezzo delle regole: non per fare affari secondo la legge, ma per portarne via o per farne in violazione dei vincoli ambientali, paesaggistici o del lavoro. Quando Forchielli se ne rende conto, rifiuta di partecipare all’investimento del colosso cinese dei pannelli solari Suntech in Puglia. L’affare si farà lo stesso senza Mandarin e finirà fra arresti e un’inchiesta penale ancora aperta per frodi e danno ambientale.
È così che il percorso di Forchielli inizia a somigliare sempre di più a un indicatore di dove vanno l’economia mondiale e i rapporti fra superpotenze. Ha cavalcato il decennio cinese. Ma ora torna a interessarsi all’America e l’America si interessa a lui. Forchielli è uno dei maggiori conoscitori del mondo degli affari fra Pechino e Shanghai, dunque il Congresso Usa, l’amministrazione e il Cfius il comitato sugli investimenti esteri negli Usa - lo ascoltano sempre più spesso ogni volta che un gruppo cinese cerca di penetrare negli Stati Uniti. E lui per trovare soci del secondo fondo Mandarin, che sta costituendo in questi mesi, ha deciso una doppia strategia: puntare su un’America in piena ripresa e abbordare la Germania. Roland Berger, il più grande consulente d’impresa d’Europa, sarà personalmente il primo socio tedesco di Mandarin Due. Poi arrivano gli investitori istituzionali statunitensi, dai grandi fondi pensione a quelli delle università. Il nuovo fondo è quasi pronto a partire con un capitale vicino al mezzo miliardo di euro: entra denaro americano e tedesco, scende dalla metà a un quarto del capitale la quota italiana e, per ora almeno, la Cina è presente solo in modo marginale.
Questa geografia del denaro e di come viene impiegato racconta qualcosa degli equilibri globali. «Ho deciso che il secondo Mandarin doveva avere una forte partecipazione degli americani perché i cinesi li temono e li rispettano, a differenza di come fanno per noi europei», spiega Forchielli. Anche con i nuovi soci, il modello del fondo non cambia. Continuerà a finanziare e facilitare gli investimenti di imprese europee dirette in Cina, concentrandosi su settori a tecnologia avanzata: ambiente, salute, gas e petrolio, sicurezza dei manufatti, chimica fine. Ma anche il fatto che per ora il denaro cinese resti ai margini di Mandarin Due rivela qualcosa del mondo di oggi, come Forchielli ammette con la solita franchezza: «Non voglio che la presenza del capitale di Pechino dia luogo a pressioni per farci fare operazioni improprie di gruppi della Repubblica popolare verso l’Europa». Dopo gli scontri dei mesi scorsi, la porta agli investitori dell’Estremo Oriente è aperta solo a precise condizioni.
Ed è inutile far presente a Forchielli il rischio che il nuovo presidente Xi Jimping reagisca complicando il lavoro di Mandarin in Cina. «Hanno bisogno degli investimenti e delle competenze occidentali », controbatte. E aggiunge: «Con le mie critiche ai metodi di certi imprenditori, credo di interpretare la linea della nuova leadership di Pechino che cerca di ripulire il Paese dalla corruzione, dal malaffare e dalle mafie con i loro legami». È anche un suo impegno personale: in questo momento, Forchielli sta stilando il progetto per un equivalente europeo del Cfius americano. Un comitato a Bruxelles che passi al setaccio il pedigree e il comportamento di ogni impresa che dalla Cina chiede di sbarcare in Europa. «Non si tratta di alzare le barricate - sbotta Forchielli - ma di farsi rispettare sì».