Jacopo Giliberto, Nòva, Il Sole 24 Ore 23/3/2014, 23 marzo 2014
LE SCORIE NUCLEARI A MATRIOSKA
C’è un nucleare nascosto eppure quotidiano, presente nella nostra vita di ogni giorno. Qualche esempio? I rilevatori di fumo, quei dispositivi con la lucina rossa che lampeggia sul soffitto delle camere d’albergo: se non sono modelli recentissimi, contengono americio radioattivo. Radio o americio nei parafulmini di generazione non recente. Oppure i vecchi orologi con le cifre fosforescenti: la luminosità al buio, allora, era data dal trizio. «Ma ci sono fonti di radioattività ancora più diffuse e meno conosciute», avverte Emanuele Fontani, amministratore delegato della Nucleco, la società pubblica, controllata dalla Sogin, che gestisce e tratta i moltissimi rifiuti radioattivi di provenienza civile, ospedaliera e industriale. «Per esempio, è radioattivo un tipo di dispenser domestico dello scotch che veniva imbottito di uranio».
Proprio così. Bisogna guardare sulla scrivania: il vecchio portarotolino da tavolo può essere una fonte - debole, beninteso - di radioattività. Un particolare modello, di colore rosso vermiglio, così comodo per srotolare e tagliare con una mano sola il lembo di nastro: stabilissimo sulla scrivania, no? Ebbene, per renderlo così pesante, fino a qualche anno fa si arricchiva con una miscela di pesantissimi e irraggianti uranio impoverito e torio la plastica di cui era fatto.
La Nucleco è una delle principali aziende europee di trattamento dei rifiuti radioattivi. Ce n’è almeno una in ogni Paese, e per tutti la tecnologia è abbastanza simile, «simile soprattutto nella filosofia di approccio: concentrare il rifiuto e trattenerlo in luogo sicuro -, osserva Fontani - a tutela della salute delle persone e dell’ambiente». In tutto, si tratta di circa 500 metri cubi di rifiuti radioattivi (cioè un cubone di otto metri di lato) raccolti in tutta Italia direttamente dalla Nucleco e dai suoi raccoglitori in appalto e portati negli impianti della Casaccia, alle porte di Roma.
In sostanza, i rifiuti radioattivi vengono lavorati in tre fasi: riduzione del volume ("trattamento"), riduzione della pericolosità bloccandoli in modo stabile ("condizionamento") e stoccaggio ("deposito"). Le modalità per queste tre fasi dipendono dalla tipologia dei rifiuto (se ad alta o bassa radioattività, se liquido o solido, se il deposito finale è un capannone sulla superficie o una caverna nel sottosuolo e così via), e le tecnologie adottate sono leggermente diverse, ma i princìpi e i meccanismi si ripetono in tutti i Paesi.
I rifiuti solidi si compattano con presse, o si inceneriscono in forni speciali, e se liquidi si filtrano, in modo che la parte radioattiva che non deve andare in giro si concentri e invece si espellano i composti non pericolosi che ingombrano e rendono più facile la dispersione. Per il condizionamento, invece, si ricorre a contenitori blindati dentro a contenitori blindati dentro a contenitori blindati. Un po’ come le bamboline russe di legno, le matrioske. «E per blindare anche nelle sue proprietà il materiale contaminato - aggiunge Fontani della Nucleco - lo si fonde in una massa inerte e stabilissima, in genere vetro o cemento».
E poi, il deposito. Chi scrive ha visitato un deposito di scorie radioattive gestito in provincia di Varese dall’Unione Europea a fianco di uno dei primi grandi reattori. È l’ex Euratom di Ispra, oggi Joint research center (o Centro comune di ricerca) della Ue. Un edificio corazzatissimo, con mille controlli e mille rilevazioni, nel quale ci sono gli scaffali su cui vengono depositate le "matrioske" (un contenitore blindato in un contenitore blindato in un contenitore blindato e così via). Nel deposito geologico funziona nello stesso modo, scaffali come un magazzino, ma nel sottosuolo: un sottosuolo - ovvio - sicuro dal punto di vista geologico. Per esempio chi scrive ha ancora in mente il colore rosso obelisco del granito di Olkiluoto in Finlandia, dove a fianco alla centrale nucleare Epr si è scavato nella roccia impenetrabile e antichissima uno stoccaggio per rifiuti atomici.
Si sperimenta anche la soluzione della trasmutazione. Che è la soluzione ideale, ma ancora di là da venire nelle applicazioni diffuse. Se si bombarda il materiale radioattivo con un fascio di neutroni (quelli di un acceleratore o di un sincrotrone), il minerale si spezza in elementi sempre più stabili. In altre parole, si accelera artificialmente il decadimento naturale degli elementi radioattivi. Per esempio l’uranio può essere trasformato con gradualità - martellandolo intensamente di energie potentissime - in normalissimo piombo.
La soluzione migliore in molti casi è lasciar agire il tempo. Il tic-tac dell’orologio è la cura più sicura per ridurre la radioattività. Ogni materiale radioattivo ha un suo tempo di dimezzamento, cioè un tempo fisso e costante in cui dimezza la sua radioattività. Alcuni, poche ore o pochi giorni; bastano pochi mesi di magazzino per riavere un materiale del tutto innocuo. Altri, alcuni anni. O qualche decennio. In un paio di secoli - il tempo di accumulare qualche bisnonna - la stragrande maggioranza dei materiali contaminati non è più contaminata. Per questo motivo il tempo medio di progettazione e gestione dei depositi atomici è nell’ordine dei trecent’anni. Diverso è il caso dei materiali ad altissima attività (dalle barre di combustibile delle centrali nucleari ai materiali delle bombe atomiche): lì si sragiona sui millenni.
La maggior parte dei materiali, però, sono le scorie civili, mediche e industriali. Le pastiglie di cobalto per la radioterapia dei tumori, per esempio; lo iodio usato per la terapia alla tiroide; alcuni materiali di contrasto per le "lastre" in ospedale (più precisamente, per la Pet). Ci sono le radiografie industriali alle saldature e alle parti di cui ispezionare l’interno (e per leggere l’interno delle tubazioni d’acciaio si usano radiografie potentissime). Le cartiere misurano gli spessori impercettibili di alcune carte facendo ricorso spesso a sensori radioattivi. Le provette e i guanti dei laboratori di ricerca. I batteri della ricerca farmacologica, che vengono irraggiati per poterli riconoscere quando si misura l’efficacia di un medicinale. I porta scotch color vermiglio, i rilevatori di fumo, i parafulmini e i vecchi orologi al trizio. E anche oggetti contaminati dal caso: come quel parafulmine imbottito di radio e americio che per decenni aveva caricato di radionuclidi un innocentissimo crocifisso sulla cuspide di un campanile. Il contatore geiger aveva rilevato l’incolpevole ma intensa radioattività del simbolo religioso, che è stato smaltito senza alcun rispetto per le sacre effigi ma con sommo rispetto per la salute umana e l’ambiente.