Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 23/3/2014, 23 marzo 2014
“IL COMICO È UN CIALTRONE, CHIEDERGLI LA VERITÀ È INUTILE”
Nel far sentire il cronista un po’ coglione, Salvatore Ficarra detto Salvo infrange i record e impiega poco meno di quindici secondi: “Da ragazzo il mio sogno era trovare un posto in Regione”. Non fai in tempo a declinare una sociologia d’accatto del Meridione, un’ipotesi di Eden del posto fisso, una spiegazione razionale dell’insano desiderio che l’attore: “Il guitto, preferisco il guitto, così mi sento” a tradimento, ti gela: “Non ci avrà mica creduto? Le mie sono sempre risposte ironiche, non prendo mai in modo serio le interviste”.
Che se potesse decidere sarebbero racconti surreali di luoghi immaginati e poi raccontati dalle cronache: “In Regione entri alle dieci del mattino grazie a un amico che ti ha timbrato il cartellino, esci verso le 11 per fare una spesa e rincasi alle tre per abbracciare l’eterna estate di Palermo. Una vita meravigliosa che potrei anche interpretare, ma che vivere davvero non avrebbe prezzo” e invece diventano a richiesta fotogrammi di un’esperienza ventennale.
Ficarra e Picone. il suo complice, Valentino. Nato nella primavera del 1971 come Ficarra e incontrato per caso in un villaggio turistico nel 1993: “Mi ero infilato abusivamente a prezzo ribassato in un gruppo vacanze” dice Picone “perché il padre di un mio amico lavorava nei cantieri navali e aveva facilitazioni e sconti. Davanti agli animatori, per non seminare dubbi e senza mai vergognarmi, lo chiamai papà per un’intera settimana”. Tra un palco teatrale, un cabaret televisivo e un film al cinema, i due non si sono più lasciati. Più delle battute facili, quelle che Ficarra getta sul tavolo assecondando un automatismo legato all’abitudine : “Siamo una coppia di fatto, è un matrimonio non consumato il nostro, Valentino si è preso gli anni migliori della mia vita” rimane la soddisfazione per la fatica dell’inizio. Di quel princìpio sgranato, di quell’incertezza sull’esito finale dell’esperimento, due decenni dopo, Ficarra e Picone ricordano tutto. Picone dice che Ficarra “è quello pragmatico”, lo stesso che lo vide recitare “e mi propose immediatamente una collaborazione. Una settimana più tardi, al telefono, disse sicuro ‘iniziamo mercoledì, sei d’accordo no?’”. Ficarra ricorda invece la teoria di “bar, pub, matrimoni, trasferte improbabili” in cui al termine della notte, in tasca, rimaneva il giusto per pagarsi la benzina: “Ma neanche forse, che cosa ti davano nei locali degli inizi? Niente ti davano, proprio niente”.
Erano i tempi del vostro primo gruppo “Chiamata urbana urgente”.
Picone: Andavamo dove ci chiamavano. La prima volta che uscimmo fuori da Palermo ci sembrò di attraversare Gibilterra. Destinazione Agrigento, cento chilometri scarsi, mi preparai come se avessi dovuto partecipare alle Olimpiadi. Sveglia all’alba, revisione totale dell’auto spendendo il magro ingaggio della serata per cambiare gomme e fanali nell’antro di un amico meccanico, partenza anticipata per essere lì a mezzogiorno. Arrivammo con undici ore di anticipo, come Fantozzi che accompagna il Duca Conte Semenzara al casinò di Montecarlo.
Ficarra: Al colpo di culo che abbiamo avuto penso in continuazione. Ci siamo trovati al posto giusto nel momento giusto, ma tecnicamente siamo nati da un illecito. Io e Valentino adoravamo gli sketch di Zuzzurro e Gaspare nel Drive In di Antonio Ricci. Li mutuavamo per portarli nei locali di Palermo senza dichiarare il plagio. Ne parlo solo perché il reato è prescritto.
A Ricci, in un percorso circolare, siete tornati.
Zuzzurro, Andrea Brambilla, invece non c’è
più. Venne mai a sapere dell’appropriazione indebita?
P: Non è che ci ispirassimo ad Andrea, ne saccheggiavamo proprio i testi, glieli rubavamo . Poi una sera, ci costituimmo.
F: Ci autodenuciammo per una ragione semplicissima. Il repertorio si era esaurito. Così andammo a testa china da lui, pronti a confessare e a chiedergli se avesse altro materiale comico a cui potessimo attingere. Ad Andrea fummo simpatici: “Non vi preoccupate per il mancato pagamento dei diritti alla Siae, iniziano tutti così, copiando. Non vi darò roba vecchia, vi scrivo direttamente un nuovo spettacolo”. Con quello lasciammo la Sicilia e iniziammo a farci conoscere altrove.
Dopo qualche anno sotto mentite spoglie iniziaste a usare i vostri cognomi reali anche in
scena.
P: Per uno come me, inseguito per anni dalle spiritosaggini sul Pascoli e dai film di Nanni Loy fu una liberazione. Ogni volta che incontravo parenti o amici, partiva la nenia: “Oh Valentino vestito di nuovo” alternato a “Ti manda Picone”. E giù risate. Io non ridevo. F: Ai tempi di Chiamata urbana urgente non eravamo solo in due e volevamo che il nome del gruppo fosse trascrivibile con una cifra, il 197, ma era una cretinata e infatti non durò. Quando il gruppo passò da 4 elementi a due, ci interrogammo su come cambiare denominazione. Una sera a cena da Aldo Baglio, l’Aldo di “Aldo, Giovanni e Giacomo” parlammo di ipotesi e all’improvviso Aldo si entusiasmo per la musicalità dei cognomi. Gridava alla moglie eccitato: ‘Silvana, ma ti rendi conto, questi due saranno Ficarra e Picone’. Così andò. Di lì a poco conoscemmo Bisio.
E arrivò il successo di Zelig.
F: Registrammo una puntata che ai tempi in cui le schede taroccate della Pay tv erano di gran moda e uso sfrenato, venne vista ovunque. Gliel’ho detto, siamo un paese fondato sull’illegalità, ancora fermo a Nino Taranto e Totò che tentano di vendere la Fontana di Trevi. Senza evadere dai divieti l’Italia non sa stare e mi chiedo francamente come farebbe a sopravvivere. Prenda noi, siamo andati avanti per anni a colpi di tangenti e favori sessuali. Per il Fisco poi siamo morti. Non esistiamo dal 1982. Con il loro consenso, fatturiamo ogni cosa a nome di Ale e Franz.
P: La fortuna è stata non prendersi mai troppo sul serio. La scalata è stata graduale. Quando dopo anni di piccolo cabotaggio, arrivò la svolta di Zelig avevamo gli anticorpi per resistere. Sappiamo benissimo che un giorno finirà e che potremmo tornare indietro senza neanche rendercene conto. Alvaro Vitali su cui tutti, ammettiamolo, ci siamo formati nella giovinezza, diceva una cosa vera: “Un giorno il telefono smette di squillare e il destino si riprende quello che ti ha dato”. Accadrà anche per noi. Presto o tardi torneremo al Pub.
I vostri personaggi devono molto all’osserva -
zione.
F: Come diceva Dino Risi “Non so come spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando”. Per noi è lo stesso. Riproponiamo sempre ciò che osserviamo, quello che abbiamo vissuto o che ci hanno raccontato. Nel percorso siamo stati aiutati dalla leggerezza dei siciliani. Quando li abbiamo descritti intenti a lucrare sul quadruplo lavoro o a riscuotere pensioni di invalidità pur essendo in piena salute, non si sono mai offesi. Se scriviamo una battuta non ci preoccupiamo mai dell’eventuale reazione del pubblico perché alla religione dell’autoironia siamo devoti. Non c’è nulla di eccezionale in quel che facciamo. Noi intratteniamo.
P: Non puoi prendere in giro un romano, un milanese o un palermitano se non sai ironizzare su te stesso. Far ridere è un meccanismo complicato che si appoggia sulla semplicità. Se mio padre che è contadino non capisce una battuta significa che quella battuta non è una buona gag. E via, si taglia. Si ricorda cosa diceva Paolo Poli sulla reazione del pubblico? Lui osservava i Pompieri posti ai lati del teatro. Se stavano attenti e non sbadigliavano, aveva fatto il suo dovere. Lo spettacolo funzionava. Lo stesso accade per noi. Se ridono macchinisti ed elettricisti, gente spesso stanca e irritata, sei sulla strada giusta.
La politica offre inesauribili spunti comici?
F: Renzi, fa ridere, fa ridere assai, ed è giusto che la satira si concentri su chi è al potere. Altra cosa sarebbe se fosse all’opposizione anche se converrà, i confini sono d’argilla. Sel per esempio, un partito che esiste soltanto a detta dei magistrati, non si capisce esattamente dove stia. Esprime il Presidente della Camera, è all’opposizione, ma ha goduto del premio di maggioranza. Poi quel Grillo, mi lasci dire, è un ingrato. Dieci anni fa, per la prima volta, usammo la parola cittadini a Striscia La Notizia. Neanche una chiamata ci ha fatto Beppe, neanche una premura ha avuto. Non una volta che ci abbia chiesto “Posso usare il termine? vi devo qualcosa? Posso corrispondervi un po’ dei soldi guadagnati?”. Noi con Zuzzurro, dopo qualche titubanza, lo facemmo. Beppe niente. Silenzio. Non c’è reciprocità. La politica chiede ai comici di essere sinceri, imparziali, terzi. Di dire la verità. Ed è strano perché i comici la verità non l’hanno mai detta. Sono cialtroni, i comici. E pure loro, i nostri omologhi, non scherzano.
P: Una volta al bar si parlava di pallone, oggi sul banco dei gelati, il giornale è aperto sulle cronache da Montecitorio. A proposito: Renzi è ancora Premier? Le cose cambiano in fretta da quelle parti e il dato comico della politica è indiscutibile. E noi li ringraziamo come davanti all’altarino votivo che gli abbiamo eretto, facciamo ogni giorno con Peppuccio Tornatore.
Vi chiamò per recitare in Baarìa.
F: Pensavo fossero Cruciani e Parenzo, a uno scherzo della Zanzara ai nostri danni perché al cinema, quando accadeva il miracolo di avere una tessera o qualche biglietto gratis, da ragazzo andavo anche due volte al giorno. A Palermo c’era la terza visione. E nella sala parrocchiale, con il prete che chiudeva volentieri un occhio, passava di tutto. Tomas Milian, Totò, Bruce Lee, Chaplin, Franco e Ciccio. Formazione eterogenea che pur essendo partito dai pesantissimi mattoni di John Osborne a teatro, era orientata al cazzeggio. Anche se sono ignorante e nonostante quel genio di Pino Caruso mi avesse rivelato a tempo debito che all’uomo di cultura manca sempre il punto di vista dell’ignorante fino a non poterne più fare a meno, i miei piani non prevedevano in alcun modo l’incontro con Tornatore.
P: Invece chiamò ed era proprio lui. Ci disse: “Volete partecipare a un film sulla Bagheria di inizio novecento?”. Bluffammo per lo spazio di un secondo: “Ci dobbiamo pensare signor Tornatore”; e poi, qualche frazione dopo: “Abbiamo riflettuto. Accettiamo”. Io ero uno di quelli che andava pazzo per la versione lunga di Nuovo Cinema Paradiso, quella che Franco Cristaldi fece tagliare a Peppuccio. Partiva il film e oplà, piangevo subito.
Altri miti?
P: La comicità di Massimo Troisi. La sua immediatezza. La sua spontaneità. Andarlo a vedere in sala era uno spettacolo. La gente faceva il tifo, organizzava caroselli durante la proiezione . A Palermo succedeva così. So solo io cosa avvenne in quel cinema di periferia, quando nel bel mezzo di Rocky IV Stallone batte Ivan Drago e lo manda al tappeto. In tutte le cose esiste un prima e un dopo. Ho sempre pensato che prima di vedere Dino Zoff alzare la Coppa del Mondo a Madrid, il mondo che conosciamo non ci fosse. L’anno zero, il mio anno zero è datato undici luglio 1982.
F: Ai tempi in cui lavoravamo a Rai Tre con Voglino, un’esperienza bellissima, io e Valentino eravamo avidi di aneddoti su Troisi. Massimo è quello che manca più di tutti. L’uomo che ha fatto la battuta definitiva sul Fascismo seppellendo il Ventennio con uno sberleffo. Quando gli dicono che quando c’era Mussolini i treni arrivavano in orario ha un colpo di coda: “E non potevano farlo Capostazione?”.
Partite spesso, ma sempre a Palermo tornate.
P: Da lì veniamo. E lì torniamo per ritrovarci. In due è più facile. Ci guardiamo negli occhi e ripartiamo. È così da vent’anni, siamo gente tranquilla. Io non mi sento una bandiera e non ho mai creduto alla funzione sociale dell’attore. Se penso di poter aggiustare il mondo o di covare non so quale messaggio universale mi sento male e ne risente anche il mestiere. Forse anche per questo torno a Palermo, so che a casa mia non c’è giudizio né aspettativa. Posso camminare senza mai pensare che sono Picone, quello che fa ridere per contratto o almeno prova a farlo. Quello che ha guadagnato denaro per poter essere libero e dire qualche no. C’è un universo che pensa di poterti comprare con i soldi e con noi due sbaglia costantemente strada. Io e Salvatore ci guardiamo e ci diciamo: “Ma perché mai dovremmo fare questa puttanata?”. Abbiamo la fortuna di poter rifiutare, ora. Se fossimo scannati sarebbe più difficile.
F: Siamo girovaghi ma la base è inamovibile. A Palermo sto bene. Ritrovo cose essenziali che però non le dirò. Cose che è bello tenersi per sé. Se le esprimo diventano di tutti. C’è già tanto di me in giro e conservare un piccolo spazio personale preserva la sanità mentale. È chiaro che a Palermo ci sono tante cose storte che non hanno saputo ritrovare il giusto verso, ma il privilegio della lontananza periodica ti fa apprezzare meglio anche quelle. Ha ammortizzatori naturali, la città. La famiglia, gli amici, la bellezza. Per rinascere basta una gita in un mercato. I palermitani iniziano a mangiare con gli occhi mentre guardano il cibo. Discutono per ore di un pesce o di una verdura, amano la conversazione, l’incontro, lo scambio. Difficile che anche per una particolare conformazione di strade, viali e montagne, vadano a morire in un centro commerciale ai margini del paradiso. Al limite optano per un muro del ‘600 affacciato su una Moschea.
State scrivendo un nuovo film?
P: A tre anni dall’ultimo, perché se non c’è una storia non è il caso di sprecare pellicola. Si ambienta in Sicilia, come il nostro primo film. F: Vorrei rassicurare tutti rivelando un passaggio fondamentale della trama. Picone muore sui titoli di testa, se i nostri amici arrivano in sala con qualche minuto di ritardo, evitano anche lo strazio di vederlo.