Silvia Truzzi, Il Fatto Quotidiano 23/3/2014, 23 marzo 2014
“IL BUE, MONTANELLI E LA DOCCIA DI DE BENEDETTI PER LA EKBERG”
inviato a Camogli
Uscendo dall’autostrada, la grande distesa azzurra si fa sempre più vicina. Guardare il mare è sempre uguale, a tre anni o a trenta, una specie di tregua del tempo. Sarà per questo che in un attimo tornano alla mente i ricordi di scuola: “Uomo libero, amerai sempre il mare”, avvisava Baudelaire al liceo. Non c’è spleen però in questa giornata di Levante e di sole già caldo, anzi è una promessa di felicità. “Io l’ho sempre cercato, da quando ero piccolo”, spiega il padrone di casa, davanti a finestre spalancate sull’azzurro. “D’estate spiavo il mare dall’autobus, per capire se era agibile. Se lo era, appena arrivato correvo dal bagnino, aspettavo che spingesse la lancetta in mare, saltavo a bordo e remavo avanti e indietro, per ore. Era il paradiso”. Poi la lancetta è diventata una barca a vela. “L’importante era andare per mare”. Ha fatto un lungo viaggio Piero Ottone, giornalista, scrittore e velista, non solo per mare. Ha attraversato il Novecento “e gli incidenti, tutto sommato, sono stati sopportabili. Adesso sono proprio vecchio. Ancora in buona salute, considerando l’età”, racconta in Novanta. (Quasi) un secolo per chiedersi chi siamo e dove andiamo noi italiani, in questi giorni in libreria per Longanesi. Il libro è un memoir affollatissimo di persone, orizzonti, sguardi rivolti all’indietro e posati sull’oggi con una malinconia distante. Novant’anni sono un traguardo: “Non posso lamentarmi. Ma la vecchiaia avanzata non è un’età facile. Grandi, costanti, irreparabili sono i disagi. Soprattutto è accentuato il senso di fragilità”. Eppure guardandolo seduto elegantemente sul divano non è la fragilità il primo pensiero. Più che altro lo stile: Via Solferino, per capirci.
Come sta l’Italia, direttore?
La chiave di tutto è la classe dirigente, l’Italia non ne ha una di qualche pregio. Ogni Paese, ogni popolo prospera o decade in forza della classe dirigente di cui dispone. La classe dirigente è un distillato che si forma attraverso il tempo. La capacità di governare non dipende tanto dalla cultura, direi più da questioni d’indole. Prendiamo uno dei più importanti statisti della nostra storia, Cavour: è stato un grande primo ministro, ma non era un uomo di cultura. I rappresentanti della classe dirigente inglese non so fino a che punto potrebbero sostenere una conversazione filosofica, ma sanno amministrare. Per istinto, per formazione.
A noi è sempre mancata?
C’era una classe dirigente in alcune parti dell’Italia preunitaria, quella piemontese: non solo Cavour, penso anche a Quintino Sella. Il guaio è che l’unificazione è stata un’operazione culturale: Verdi e Manzoni sono i numi tutelari di quel passaggio. Ma si tratta di uomini d’arte e cultura, politicamente non esisteva una classe dirigente su scala nazionale. Purtroppo con l’unificazione si è creato un grande magma politico-sociale che fin dal primo momento ha mostrato numerose debolezze. Ha funzionato male, per esempio, da un punto di vista economico-industriale rispetto ad altre nazioni europee come Inghilterra e Francia. Dal momento dell’unificazione l’Italia va a tentoni, senza una bussola: basta pensare al succedersi compulsivo dei governi. E la classe dirigente che c’era, quella piemontese, sia per una questione di dimensioni che per pavidità ha gettato la spugna subito.
Ha aiutato anche il progressivo spostamento verso il centro della capitale.
La capitale a Roma è stata una follia: Roma non aveva nessun titolo per essere capitale di un Paese che avrebbe avuto nel tempo 60 milioni di abitanti.
Era geograficamente strategica ed era stata il cuore di uno dei più importanti imperi della Storia.
Sull’ubicazione geografica, bisogna pensare che tra i grandi Paesi di oggi quasi nessuno ha la capitale al centro. Ma allora, quali qualità aveva da caput mundi? Roma è irrecuperabile. Negli anni Sessanta, al mio rientro in patria, vivevo a Milano e dintorni: ho messo sotto osservazione il mondo degli affari e dell’industria, i vari aspetti del famoso “miracolo italiano” e i suoi protagonisti. Alle controversie politiche di Roma, partite a scacchi giocate non sui problemi reali ma sulle persone, non riuscivo proprio ad appassionarmi. Le persone che giocavano quelle partite, nel complesso, erano scialbe. Io sono cresciuto a Genova, dove c’era un segretario generale del Partito Fascista che si chiama Molfino, di cui si diceva un gran bene. Tanto bravo che fu trasferito a Roma: scomparso. Roma li rovina.
Che idea ha degli uomini nuovi della politica?
In tema di individui l’Italia è uno dei Paesi più fortunati dell’orbe terracqueo. Si tratta però di individui, magari di prim’ordine, ma non fanno né gruppo né classe. Tra quelli di adesso ci sono senza dubbio uomini di valore. Matteo Renzi è un fenomeno interessante: ha portato una ventata di vigore e vitalità. Credo abbia una cultura modesta, ma poco male. Ha una forte personalità.
Che pensa degli slogan renziani?
Non mi fanno paura. Ho altre riserve, non questa. Renzi è tra i tanti, uno dei più faciloni e dei più superficiali. Se ha un valore è quello di essere un ciclone. Dopo quel Letta, così prudente e un po’ addormentato... L’importante in Renzi è la forza vitale che riesce a scuotere la gente. Qualche mio amico fiorentino, all’inizio della sua ascesa, me ne diceva bene, io ribattevo: che Dio ci protegga da Renzi! Oggi penso che dobbiamo dargli una chance, forse è l’uomo che può farci uscire dal letargo. Siamo un paese addormentato, scettico, sfiduciato. Bisogna dare un po’ di verve a quel che c’è di valido. Come è accaduto nel Dopoguerra, quando l’artigianato ha creato rami d’industria di grande valore. Io credo che ci siano delle potenzialità e che ci voglia qualcuno che ispiri fiducia. La politica attrae gli ambiziosi. Gli affari ormai sono l’unica cosa che dà un senso alla politica. Questo non toglie che ci siano anche persone più interessate al potere che al denaro. Ora il premier deve andare oltre le parole, portare anche fatti.
In Novanta racconta che un giorno parlando con
De Mita lei gli disse che la strada per il buongoverno passava per la concretezza e non per le astrazioni dialettiche.
Sostenevo che bisognava individuare i compiti più urgenti che un governo efficiente avrebbe dovuto affrontare. Di volta in volta gruppi di esperti avrebbero dovuto elaborare i progetti di riforma. E poi il governo li avrebbe attuati. Mi ascoltò in silenzio e poi mi disse: “No, vedi, la politica è un’altra cosa”. Può darsi avesse ragione lui, ma le riforme non si sono mai fatte. E l’Italia è sempre la stessa.
Dicono che siamo all’alba della Terza Repubblica, o
forse agli ultimi colpi di coda della Seconda. La Prima com’era?
L’Italia del miracolo è stata una bellissima creazione che aveva come riferimenti anche dei gruppi politicamente vivi. La Dc aveva dei rappresentanti di valore: De Gasperi, Scelba. Quella era una classe dirigente potenziale che funzionava abbastanza bene. Fanfani, poi, leggeva abbastanza. Verso la fine del ‘77 avevo lasciato la direzione del Corriere, ero passato al gruppo Mondadori. Ricordo un incontro con Aldo Moro a casa sua, c’era anche Claudio Rinaldi che allora dirigeva Panorama: con la sua consueta prudenza ci fece capire che era il momento di un’alleanza con i comunisti per governare e per arginare il terrorismo. E, poco dopo, Fanfani mi disse le stesse cose, in modo più esplicito come era suo costume: “Quando la casa brucia non si guardano in faccia i pompieri”.
E Andreotti?
Magnifico. Uomo di grandi sottigliezze, acume politico e personalità. E che credeva, con tutta la sua anima, in un’unica cosa: nel potere. Era ani mato da una fede.
Lo incontrava spesso?
Frequentavo più assiduamente De Mita. Aveva idee e personalità. Anche su di lui però tocca dare ragione a Gianni Agnelli che lo aveva definito “un intellettuale della Magna Grecia”... Nella prima Repubblica la Dc funzionava e anche il Pci. Anche se io non credo che i dirigenti del Pci, penso a Napolitano per esempio, davvero credessero nel comunismo sovietico.
Il Pci e Napolitano sostennero l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Urss nel ‘56.
Volevo dire questo: se l’Italia fosse stata un Paese normale Napolitano e gli altri non sarebbero stati comunisti. Si sono aggrappati al comunismo perché mancava un’ideologia diversa che li ispirasse. Tutto ciò li ha distolti dal governo: Stalin, la Russia, il Cremlino erano fuorigioco. Napolitano è stato un buon presidente della Repubblica nel suo primo mandato. Siamo coetanei, sa? Infatti vedo che si muove con le mie stesse difficoltà.
È stata un’idea saggia la ricandidatura?
Ha fatto malissimo ad accettare, da allora si è rovinato tutto. È diventato un cattivo presidente. Il suo periodo era finito e credo non avesse più nulla di importante da dire. I contesti cambiano, ormai l’Italia vive una nuova fase. E poi anche per l’età: sapesse che differenza nel pensare, nell’agire anche solo rispetto a vent’anni fa, quando si era sulla settantina! Ambrogio Puri, manager genovese dell’Italsider, alla fine della sua vita diceva della vecchiaia: “L’è ‘na gran belinada”.
Un capitolo del suo libro s’intitola “Un altro
ventennio”.
Vuol parlare di Berlusconi? Berlusconi è un uomo con grandi qualità, di un’ambizione smisurata, ma senza principi, completamente privo di scrupoli. Amava incontrare le personalità internazionali e aveva la sfacciataggine di comportarsi senza inibizioni. Il ventennio è stato uno dei periodi peggiori della storia italiana, nella quale sono emerse tutte le cattive qualità della nostra classe dirigente: disordine, superficialità, volgarità, disonestà. Adesso credo che il vecchio gruppo di potere stia sparendo: Veltroni fa documentari, D’Alema è fuori dai giochi. Per fortuna aggiungo: è un uomo troppo furbo, troppo sottile, saccente soprattutto.
Torniamo a Berlusconi.
L’ho conosciuto quando ero direttore del Corriere. Mi aveva cercato con insistenza ed era stato fissato un appuntamento. Entrò nella mia stanza, con un accompagnatore che però rimase silenzioso. Mi spiegò, con una certa animosità, che il traffico ae-reodiLinatedisturbavagliinquiliniinunquartiere di recente costruzione, in sostanza era più difficile vendere gli appartamenti. Uno scandalo, diceva. Voleva che il giornale indagasse e che insistesse perché si modificassero le rotte. Passai la pratica al capocronista, onestamente ora non ricordo il seguito. L’ho visto molte altre volte, dopo. Ricordo un pranzo a casa di Mario Formenton, c’era anche lui. Era seduto accanto a me, cercava sempre i modi adatti all’interlocutore: un grande venditore. Mi chiese, timidamente, sotto voce: “Possiamo darci del tu?”. Era ancora un uomo d’affari rampante quando comprò la villa di Arcore. Volle dare una grande festa, favolosa, insolita, straordinaria. Invitò non solo amici e parenti, ma tutta la Milano che contava: prefetto, sindaco, magistrati. Come dire: adesso ci sono io, tenetene conto. Fui invitato anch’io. Nel parco correvano i bambini, probabilmente figli o nipoti. Vestiti in velluto, da paggi. Da paggi! Si è spesso sentito dire che aveva una foto di Agnelli sulla scrivania. Strano, no? Agnelli non era certo il modello dell’uomo di successo che si era fatto da solo. Ma era il modello di chi voleva primeggiare in società: per stile e per familiarità con i potenti del mondo.
Scrive che con Agnelli vi sentivate spesso, al telefono. Sempre alle sei del mattino?
Non così di buon’ora, ma comunque presto e si parlava un po’ di tutto. Compresa qualche cattiveria. Un giorno diede di un personaggio la seguente definizione: “La sua vita è un capolavoro. Ha sposato la figlia del padrone e gli ha portato via la bottega. Poi ha consegnato la figlia a qualcun altro ed è andato a puttane”.
Nel libro parla anche del principe Caracciolo.
Con Caracciolo, quando lasciai il Corriere per la Mondadori, ci alternavamo alle cariche di presidente e amministratore delegato. Ma erano cariche del tutto formali, constatai con dispiacere: Repubblica era di Scalfari. Per esempio io e Formenton eravamo contrari all’apertura delle redazioni locali, ma a Eugenio interessavano perché così aumentava la tiratura: la sua ambizione era superare il Corriere. Caracciolo seguiva Eugenio nelle grandi cose, era difficile non farlo vista la sua personalità. Carlo però era anche l’unico che aveva un certo ascendente su Scalfari: era un uomo di grande tatto, intelligente, d’insuperabile charme. Mi ripeteva: quando c’è qualche idea di Eugenio che non ti convince è inutile prendere le cose di petto, bisogna dire ‘vediamo, valuteremo, ci penseremo’.
In che modo Caracciolo e Agnelli erano diversi?
Agnelli aveva un’intelligenza più brillante, più pronta, ma vana: una volta che aveva capito un problema, lo abbandonava. Caracciolo aveva più sostanza. Agnelli era più estroverso, Caracciolo non ci teneva a primeggiare in società. A Carlo piacevano le belle ragazze, ma non gli importava che fossero la moglie di un presidente degli Stati Uniti. Per Agnelli era diverso. Le racconto questo episodio. Prima di trasferirsi in collina, la famiglia Agnelli abitava in un palazzo del centro di Torino, di cui un appartamento o due venivano affittati. Andò a stare lì la famiglia De Benedetti. Una sera Carlo De Benedetti, adolescente, rientrando a casa incontra sul portone Gianni, che era più vecchio di lui di una decina d’anni. Non era solo, lo accompagnava Anita Ekberg, niente meno. Carlo, all’apparizione di quella dea bionda dea, già famosa, ovviamente rimane a bocca aperta. E Gianni lo liquida così: “Va’, va’ a farti una doccia”. Agnelli ci teneva ad avere come amica una Anita Ekberg.
Suo padre voleva che lei facesse il magistrato. I
giornalisti, lei scrive, non hanno mai goduto di
buona fama.
È un mestiere in cui ci si fa i fatti degli altri ed è difficile farlo con riguardo verso il prossimo. È un’attività in declino, i cattivi comportamenti sono diffusi.
Che impressione le fanno i contrasti tra gli azionisti del Corriere?
Anche quando io facevo il direttore del Corriere c’erano contrasti tra gli azionisti. Ma che differenza! Giulia Maria Crespi si occupava molto del Corriere, ma rispettosamente, senza invadere la mia sfera. Temeva che il direttore di turno per vendere più copie scadesse nello stile e nei modi. Non le importava che il giornale vendesse molto, ma che fosse autorevole e dignitoso sì. Ci fu un dramma incredibile una volta in cui pubblicammo un disegno di un bue con indicate le varie parti da mangiare. Mi chiamò: “Ma sei impazzito? Un bue sulla prima pagina del Corriere?”
Lei licenziò Indro Montanelli dal Corriere. Se n’è
pentito?
Sì, anche se lui se l’era cercata. Intendiamoci: Indro era il più grande di tutti. Aveva una debolezza: la vanità. Era elegante, intelligente, spiritoso. Il licenziamento è stato una misura drastica: il danno del suo allontanamento è stato troppo grande per il giornale. Andò così: Montanelli rilasciò un’intervista a Cesare Lanza in cui diceva che il Corriere non valeva più niente e che io ero un pessimo direttore. Al di là dei sentimenti personali miei, era in ballo la lealtà nei confronti del giornale e della redazione. Come si faceva a sopportare che una firma così importante dicesse quelle cose del Corriere? Sul licenziamento eravamo d’accordo sia io che gli editori: i Crespi, Agnelli e Moratti. Per rispetto andai a casa sua, per dirglielo di persona. Appena mi vide mi disse: “Piero, lo so, ho sbagliato”. E io: “Indro, questo è uno sbaglio senza ritorno”. Lui era afflitto e io anche: abbiamo versato qualche lacrima entrambi. È stato un momento di commozione. Io gli volevo bene e lui amava il Corriere: si era reso conto che Lanza gli aveva fatto dire delle cose inopportune. Lui scrisse quel giorno stesso una lettera al Corriere per dire che io avevo deciso di licenziarlo contro il mio parere per volontà dell’editore. Lo chiamai e gli dissi: sono convinto della necessità di allontanarti. Pubblicai la lettera precisando la mia posizione. I rapporti si ruppero, finché una volta in tv io dissi una cosa che pensavo, cioè che lui era il più grande giornalista italiano. Mi chiamò da Cortina e ci fu una pace, anzi una tregua.