Lucio Cillis, la Repubblica 23/3/2014, 23 marzo 2014
CIUCCI: “STIPENDIO DIMEZZATO MA L’IMPEGNO È LO STESSO”
ROMA — Ha iniziato a lavorare nel 1969, salendo i gradini di una lunga gavetta nelle aziende pubbliche dominate dall’Iri. Un curriculum da fedele dirigente di Stato che lo ha portato a sedersi nei cda delle più importanti società pubbliche, quotate e non, da Autostrade a Finmeccanica. Pietro Ciucci è da otto anni a capo dell’Anas, l’ente che gestisce la ragnatela stradale nazionale. Suo malgrado è stato anche uno «dei pochissimi » manager, come lui stesso sottolinea, ad accettare la decurtazione della retribuzione introdotta per (quasi tutte) le società non quotate. Senza lanciarsi in dichiarazioni di guerra.
Presidente, il suo compenso è passato nel giro di una notte da 750 mila a circa 310 mila euro annui. Un bel taglio.
«Sì, il compenso è stato ridotto di oltre il 50% lo scorso agosto».
Per Fs o Cdp no. Basta l’emissione di obbligazioni a far saltare il limite?
«Sì, se le aziende non quotate emettono obbligazioni, salta il tetto ».
Lei, comunque, è rimasto al suo posto. Altri suoi colleghi sono invece pronti a sbattere la porta.
«Sono rimasto a lavorare con impegno se possibile ancora maggiore anche se non nego che occorre fare maggiore chiarezza su questo tema ».
Ci dica.
«In primo luogo cercherei di evitare giudizi affrettati e spesso ingiusti su persone e professionisti che nella gran parte dei casi si sono meritati la posizione che ricoprono dopo decenni di duro lavoro. E forse sarebbe il caso di guardare al metodo, alle regole per determinare la giusta retribuzione. A me pare inutile parlare di compensi lordi senza precisare che il 60% di quelle cifre viene assorbito da contributi previdenziali ed imposte. Il netto è pari al 40%. Da questa angolazione certe “classifiche” appaiono meno roboanti ».
Forse nel suo caso, partendo da 310 mila euro, ciò ha un senso. Ma ci sono manager di società non
quotate che superano agilmente il milione di euro. In un momento critico per il Paese, secondo lei è giusto?
«Allora, oggi il mio compenso è uguale a quello del primo presidente della Corte di Cassazione. Io sono un consigliere di amministrazione, il mio è un compenso secco, non prevede tfr, previdenza integrativa, polizza sanitaria. Chi ha un rapporto di lavoro dipendente ha diritto a tutti questi trattamenti integrativi. È evidente che il costo per la Società è ben diverso nei due casi. Ma c’è un’altra considerazione: le mie polizze assicurative per il rischio professionale assorbono 20mila euro e più. Non mi lamento, sia chiaro, ma è bene precisare alcuni passaggi».
Lei non pensa che sia il momento di dare un segnale?
«Siamo in un momento difficile e condivido il principio che chi ha di più deve contribuire maggiormente. Deve però valere per tutti, a parità di reddito. Sia che si tratti di pensioni, stipendi, pubblici o privati».
Anche la politica quindi.
«Tutti. È una questione di equità. Guardi che tra l’altro il metodo di imporre un tetto determina una distorsione peggiore perfino dei tagli lineari».
Cioè?
«Intanto fare riferimento al Presidente della Repubblica appare poco rispettoso. Come confondere l’appannaggio del Capo dello Stato con uno stipendio? Comunque l’applicazione di un tetto comporterà nell’ambito delle società distorsioni gravi. Avverrà facilmente che il capo azienda possa avere un compenso inferiore ai suoi collaboratori diretti. E questo non è bene».
Cosa suggerisce?
«Bisognerebbe valutare e pesare le diverse posizioni lavorative, le conoscenze professionali e le capacità decisionali. A quel punto sarebbe più semplice trovare una remunerazione di mercato equa. In Iri già 30 anni fa applicavamo questo metodo per tutti i capi azienda. Ed era prevista una riduzione anche del 30% rispetto al mercato “esterno” per tenere conto del diverso ruolo di un manager pubblico».