Paolo Di Stefano, Corriere della Sera - La Lettura 23/3/2014, 23 marzo 2014
L’ALTRO GADDA
«Le avevano precisato il nome, crudele e nero, del monte: dove era caduto: e l’altro, desolatamente sereno, della terra dove l’avevano portato». Lei è la madre di Gonzalo Pirobutirro, il protagonista della Cognizione del dolore , fotografata nell’attimo in cui viene a sapere della morte del figlio, precipitato in volo su un aereo militare. Come si sa, non c’è scrittore più autobiografico di Carlo Emilio Gadda: quella madre è sua madre e quel figlio morto non è altri che suo fratello Enrico. La studiosa Paola Italia lo definisce opportunamente «il deuteragonista in absentia » di tutta l’opera gaddiana. Secondogenito dell’industriale della seta Francesco Ippolito Gadda e dell’insegnante di inglese Adele Lehr, nato il 16 novembre 1896, cioè esattamente tre anni dopo Carlo Emilio e un anno dopo Clara, Enrico è rimasto una figura in ombra: poche cose si sanno di lui, compagno di giochi infantili del fratello pur avendo un carattere opposto al suo, amatissimo ma anche invidiato dal futuro scrittore, per l’energia vitale di Enrico, bel ragazzo (stesso naso «prominente» del fratello), elegante fino al dandismo, capelli carichi di brillantina, allegramente attratto dall’altro sesso tanto quanto Carlo è impacciato e goffo. Ma c’è di più: Carlo si sentiva il figlio «difettivo», trascurato dalla madre, che, anche a detta di Clara, coccolava il più giovane «beniamino» senza nascondere la sua preferenza, specie dopo la morte precoce del marito, avvenuta nel 1909.
Sono, i fratelli Gadda, convinti interventisti. Allo scoppio della guerra Carlo parte volontario nei reparti delle truppe alpine, dislocato nelle zone arretrate del fronte sull’Adamello e sulle alture vicentine. Verrà fatto prigioniero e deportato in Germania, prima a Rastatt, poi a Celle (nell’Hannover). È la materia, tra incubo e depressione, narrata nel Giornale di guerra e di prigionia .
Enrico parte anche lui nell’estate 1915, alpino e poi, finalmente, dopo aver a lungo aspirato a diventare pilota, l’aviazione sul finire del 1917. Per pochi mesi. Il tenente Enrico Gadda muore, ventunenne, la mattina del 23 aprile 1918 per un incidente provocato da una manovra errata o da un malore pilotando il suo biplano Nieuport 27, che cade sul campo di San Pietro in Gu, tra Vicenza e Cittadella. Da allora Enrico diventerà oggetto di un dolore senza rimedio, forse di un gigantesco senso di colpa di Carlo, che pure nel carteggio lo invita paternamente alla prudenza, lo consiglia, tiene a freno i suoi slanci, e scrivendo alla sorella gli fa persino i conti in tasca, preoccupato della sua eccessiva facilità a spendere. Del destino di Enrico, Carlo ha qualche presentimento, se è vero che nei suoi scritti continua a ripetere un augurio angoscioso: «Vorrei pregar la guerra di sceglier me, ma non lui! (...) che la guerra prenda me, ma non mio fratello!». Era un affetto profondo e contrastato, quello per Enricotto, venato di fierezza per la sua audacia e la sua forza («sangue del mio!»), ma anche di tensione e forse di gelosia. I successi del fratello-soldato generavano in Carlo umori contrastanti. Per capire al meglio i suoi sentimenti, si può ricorrere a un appunto in cui lo scrittore ricorderà il colloquio con un capitano: «Parlando di mio fratello esclamò: “Lo faremo presto tenente!” Io, che sono un ardito-impacciato, un petulante-timido, avanzai la domanda se potessi sperare la promozione anche per me: alla qual domanda non degnò neppure di rispondere, lasciandomi avvilito (...). Con una voce che mi parve avere una lieve intonazione di tristezza e di severità, mi disse, stringendomi la mano: “Addio Gadda, e in gamba! neh! Mi saluti tanto suo fratello”». Fatto sta che dopo la morte, Carlo Emilio definirà Enrico «la parte migliore e più cara di me stesso».
Le carte gaddiane sono oggi conservate a Villafranca di Verona, nella casa di Arnaldo Liberati, cinquantatreenne nipote di Giuseppina Liberati (sorella del padre), che fu per dodici anni la domestica dell’Ingegnere nell’appartamento romano di via Blumenstihl 2. Alla «signorina Liberati» Gadda volle lasciare tutti i suoi beni (comprese le lettere, i manoscritti, le fotografie, gli oggetti, la biblioteca) «in segno di riconoscenza per l’assistenza affettuosa». Sono migliaia di carte, che il bancario Arnaldo ha riordinato e catalogato con cura, come fossero i cimeli del nonno. Lo sono, idealmente, anche se ha incontrato il vecchio scrittore («Professore», lo chiamava Giuseppina) una sola volta, il giorno della cresima: una fotografia del ’72 ritrae l’Ingegnere sul balcone di casa con il bambino. Nei faldoni, ben sistemati, ci sono anche i documenti che riguardano Enrico. La corrispondenza dal fronte con il fratello, la sorella, la madre; diari, quaderni scolastici, raccontini giocosi inediti; album da disegno, dove il giovane rivela un precoce talento artistico soprattutto in chiave scherzosa (bozzetti e schizzi di costume con figurine a penna); le lettere romantiche e a tratti melodrammatiche della misteriosa fidanzata milanese Rosetta (si estendono dal 1915 a tutto il 1917) e di un’altra donna, Anna Meloni, studentessa bolognese di canto, che subentra l’anno dopo (ne dà conto Giulia Fanfani nell’ultimo numero dei Quaderni dell’Ingegnere , dove viene pubblicato un corpus di lettere tra i due fratelli).
Qualche settimana fa a Ferentino (Frosinone, luogo d’origine della Giuseppina) sono emerse altre duecento carte gaddiane (ne ha parlato «l’Unità» ), il cui detentore ha preferito non rivelare la propria identità: «Non darò mai il permesso di pubblicarle», avverte Arnaldo Liberati, a scanso di equivoci. Intanto, per trovare le vere sorprese basta (e avanza) restare a Villafranca.
E la sorpresa maggiore è, appunto, Enrico. Con il suo estro, le sue fantasie, l’esuberanza che contrasta con le ansie lugubri e le angosce del fratello. Eccolo lì, con la sua divisa ben stirata, senza fasce grigio-verdi ma solo nere, l’aspetto azzimato («tu sai che io o pettinato o morto», scrive a Clara), vestito da «milord» quando è in borghese e con un ampio repertorio di cravatte (era sempre la sorella a procurargliele): un uomo che doveva avere un ottimo rapporto con lo specchio, ha notato Gian Carlo Roscioni.
Quando scrive dal fronte al suo Carlo carissimo, ovvero Carlotto o più familiarmente Llotti alla spagnola, è un altro Enrico. Tecnico, rigoroso nella terminologia (non a caso era iscritto a Ingegneria al Politecnico, come il fratello, dopo aver superato brillantemente il liceo Parini), con qualche accensione di colore gergale. La lettera su carta intestata del Reggimento Alpini, Battaglione Valchiese, 253ª Compagnia, inviata il 14 gennaio 1916, poco dopo la promozione a sottotenente, racconta le manovre di guerra sul Monte Cadria: «Alle varie azioni di questa vallata partecipai, purtroppo non salendo però alle varie quote di nuova conquista, ma da una quota prima avanzatissima proteggendo col fuoco dai 200 man mano sino ai 900 metri l’avanzata dei “sigari e tabacchi” (fu la “Finanza” a salire) e dirigendo il tiro di artiglieria su posizioni che poi prendemmo: in questa seconda mansione mi divertii un mondo: pensa che al terzo colpo riuscii a far imbroccare al 149 un finestrino 60x30 cent da dove una mitragliatrice a fuoco continuo si divertiva a disturbarmi: 100 corto, 20 corto e a destra: la terza cannonata infila la finestra e baracca e burattini son volati per aria: di mitragliatrice, mitraglieri, cartucce ecc non fu trovato che un paio di scarpe, con relativo contenuto».
Stile gaddiano, si direbbe, con quella raffica di «due punti», che si susseguono in un solo periodo e che sarà una cifra tipica della punteggiatura dell’Ingegnere. Fiero di sé e del suo ardire. Ironico e crudo quanto basta, Enrico prosegue: «A questo proposito, fummo messi all’ordine del giorno per le opere di difesa che abbiamo costruite: siccome quando il Maggiore fece la sua visita alla compagnia non c’ero che io e il capitano, tutte le lodi me le sono intascate io: del resto gran parte delle opere di rafforzamento le ho dirette e ideate io. Come ti dico ho un da fare cane, sgambo tutto il giorno: la compagnia tiene un fronte di circa 3 km (...); spero di veder volare per aria qualche altra zucca austriaca». Racconta degli allarmi notturni, della costruzione dei baraccamenti, dei continui trasferimenti. Ringrazia Carlo «della premura che hai perché non mi manchi denaro», chiede delle scarpe che vadano bene ai suoi piedi. Augura al fratello malinconico e malato di godersi «questa vita, bella e sana nonostante le fatiche e le intemperie che occorre sopportare», gli raccomanda di non affaticarsi. Legge, Enrico: porta con sé i classici tascabili editi a Roma da Oreste Garroni: Leopardi, Machiavelli, Foscolo, Parini, Tasso...
Scrivendo a Clara sembra a tratti prediligere gli accenti comici: «A me cui piacciono le novità piace immensamente questo Grand Hotel Roccia Viva: qui almeno di giorno ho a mio agio tre metri quadrati scarsi di terreno su cui dormire e mangiare: di notte ho quasi un monte a mia disposizione: un monte un po’ piccolo se vogliamo, giacché non sarà più di 400 m x 60. In compenso ho austriaci in abbondanza sopra a destra a sinistra: dietro di tempo in tempo. La notte è il giorno: il giorno non esiste». E aggiunge: «La lagnanza che il buon Emilio faceva è nulla per me: io ho oltre il divertimento di pallottole e bombette che disturbano il facile disimpegno dei doveri verso la Natura, il divertimento di regolare il mio corpo sulla testa degli austriaci: poiché non posso prendermi il lusso di “uscire” che verso le 10-11 di notte». Il resto è ancora e sempre divertimento: «Mi diverto mezzo mondo a leggere, a sparare, a scrivere, a mandar al diavolo la gente, a pestar la testa contro i sassi, a portar l’elmo, a pensare come è la sesta guglia a sinistra del secondo filare del nostro Duomo».
Chi l’avrebbe detto che l’altro Gadda fosse un Gadda tanto allegro. Il destino beffardo regalò poco tempo alla sua esuberanza, lasciando molti anni alla lunga angoscia di Carlo. Chissà che cosa ne sarebbe stato dell’Ingegnere se all’origine del suo rovello letterario non ci fosse stata la ferita lasciata dal fratello morto. E chissà che risultati avrebbe potuto dare alla letteratura l’espressionismo solare di Enrico.