Giuseppe Remuzzi, Corriere della Sera - La Lettura 23/3/2014, 23 marzo 2014
L’AREA 12 DIVIDE UOMO E MACACO
Saper decidere, progettare, pensare al futuro, imparare dagli altri: è soprattutto questo che ci distingue dagli animali. Anche da quelli che ci sono più vicino nella scala dell’evoluzione, come le scimmie e in generale i primati non umani. Ma com’è che il nostro cervello sa orchestrare tutto questo e perché le scimmie queste capacità non le hanno? Se lo chiedevano in tanti da anni. Anche perché c’è una forte omologia fra le aree del cervello che regolano le funzioni cognitive dell’uomo e della scimmia — comprese le aree che sono coinvolte nei processi uditivi, nel controllo della mimica facciale, nel riconoscimento dei gesti.
A questi studi la ricerca italiana ha dato un contributo fondamentale a cominciare da quando Giacomo Rizzolatti ha scoperto l’esistenza dei «neuroni specchio», prima nelle scimmie — nelle regioni parietali frontali anteriori del cervello — e poi nell’uomo. È stata una delle scoperte più entusiasmanti nel campo delle neuroscienze. Sono i «neuroni specchio» che mettono insieme la percezione dell’azione col momento dell’eseguirla e consentono di comprendere le azioni degli altri. E sono sempre loro che governano i processi motori (la produzione dei suoni per esempio, nelle scimmie ma anche negli uccelli) e l’espressione delle emozioni.
Dopo aver dimostrato tutto questo nei macachi, gli scienziati si sono accorti che era così anche nell’uomo: è proprio grazie ai «neuroni specchio» se oggi conosciamo meglio i disturbi del comportamento, per esempio l’autismo. Questo e tanti altri studi mostrano analogie impressionanti di struttura e funzione tra il cervello dell’uomo e quello delle scimmie. E allora, di nuovo, la domanda: perché i processi cognitivi delle scimmie sono molto più primitivi dei nostri? E poi: perché le scimmie non parlano? (Non sono domande da poco. L’uomo moderno ha occupato tutto quello che poteva occupare del pianeta, le scimmie no; l’arma vincente a nostro favore in chiave evolutiva è quasi certamente il linguaggio, oltre al saper collaborare con gli altri — che in fondo è ancora una questione di linguaggio). Cose da neuroscienziati che sfiorano antropologia, filosofia e morale. Insomma, cos’è che ci rende uomini? È vero che il cervello dell’uomo non è poi così diverso da quello delle scimmie, ma potrebbe essere tutta una questione di integrazione fra le diverse aree; forse è questo che ci consente di progettare e mettere in fila i problemi per ordine di importanza e prendere decisioni. Probabilmente questa integrazione è più debole nelle scimmie di quanto non lo sia nell’uomo.
Tutte cose estremamente complesse da dimostrare, ma gli scienziati ci stanno provando. C’è anche un’altra possibilità: che l’uomo abbia una o più aree del cervello, fra quelle deputate ai processi cognitivi, che mancano nelle scimmie; ma questo finora non era mai stato dimostrato da nessuno. Così Matthew Rushworth, un professore di Oxford, ha fatto un esperimento molto particolare (il lavoro è stato pubblicato su «Neuron» proprio in questi giorni). Ha studiato il cervello di 25 volontari con sistemi di risonanza magnetica di ultima generazione capaci di indagare la funzione oltre che la struttura del cervello. Poi lui e i suoi colleghi hanno ripetuto le stesse indagini di risonanza su 25 macachi confrontando i dati dell’uomo con quelli delle scimmie.
C’è nel cervello una regione particolare che i medici chiamano corteccia frontale ventrolaterale: è la sede dei processi cognitivi più sofisticati e del linguaggio. Come lo sappiamo? Un po’ anche perché un ictus del cervello o una malattia degenerativa che colpisca quella parte della corteccia si manifestano invariabilmente con disturbi del linguaggio. E non basta: da studi precedenti si sa anche che certi disturbi psichiatrici come deficit di attenzione, comportamenti compulsivi e tossicodipendenze dipendono soprattutto da alterazioni della corteccia frontale ventrolaterale. Il cervello è un mosaico di aree collegate una all’altra e che si influenzano reciprocamente attraverso connessioni a volte intricatissime; venirne a capo non è certo impresa facile. Ma gli scienziati di Oxford hanno trovato il modo di studiare non solo la corteccia ventrolaterale; hanno anche saputo indagare le connessioni fra questa regione e le altre che ne condizionano la funzione.
L’analisi di una grande quantità di immagini di risonanza magnetica e un numero impressionante di dati funzionali hanno consentito a Rushworth di dividere la corteccia frontale ventrolaterale dei volontari sani in 12 aree ben identificate in tutti e 25 gli uomini che avevano studiato. Ciascuna delle 12 aree aveva però un suo modo speciale di connettersi con il resto del cervello e questo è unico di ciascuno di noi; in un certo senso le impronte digitali del nostro cervello.
Fatto questo gli studiosi di Oxford hanno paragonato le 12 aree della corteccia prefrontale dell’uomo con quella delle scimmie. Non si può dire che non siano rimasti a bocca aperta nel constatare che nell’insieme la corteccia frontale ventrolaterale delle scimmie non era poi tanto diversa da quella dell’uomo. Al punto che 11 delle 12 aree in cui avevano diviso questa regione c’erano sia nell’uomo che nel macaco e le connessioni di ciascuna di queste aree con il resto del cervello erano molto simili nelle due specie.
Restava però l’area 12 (complicata anche da definire: polo frontale-laterale della corteccia prefrontale); quest’area non ha un equivalente nella scimmia. Cosa da poco? Niente affatto; l’area 12 presiede al saper progettare il futuro, al mettere in fila i problemi in una gerarchia di importanza, al prendere decisioni anche eventualmente a proprio svantaggio, al saper fare tante cose diverse e persino alla capacità di concentrarsi contemporaneamente su diversi problemi, quando capita di doverlo fare.
Se l’uomo sa fare tutto questo e tanto d’altro e i macachi no lo dobbiamo forse proprio a questa piccola area, l’area numero 12 della corteccia prefrontale. Quest’area è connessa in special modo con le regioni uditive del cervello; è logico pensare che siano proprio queste connessioni che nel corso dell’evoluzione ci hanno consentito di capire le reazioni dei nostri stimoli, di intuirne il significato, di desiderare qualche forma di interazione. Questi stimoli sfociavano inevitabilmente nella necessità di generare qualcosa che servisse per comunicare, che poi è diventato per l’uomo vero e proprio linguaggio. Allora vuol dire che nei macachi non c’è proprio l’area del cervello che governa il linguaggio? No, gli scienziati hanno visto che c’è anche nei macachi ma le connessioni di quest’area con le regioni uditive sono poche e deboli. Forse è proprio per questo che le scimmie non parlano.