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 2014  marzo 22 Sabato calendario

CHARLES BUKOWSKI


Non è mica facile districarsi nella matassa - tutta autobiografica e tutta colorata, esagerata, dilatata, manipolata e vaffanculo alle contraddizioni - di racconti, romanzi, poesie, saggi, lettere, interviste e articoli sparsi di Charles Bukowski (1920-1994). Siamo al 95% (o al 93%, dipende dal momento), dice lui stesso, di vero, mentre il resto è narrazione. Ma come distinguere, come evitare trappole e trabocchetti? Davvero c’era un Hank sobrio in versione agnellino, prima delle 17, e uno sbronzo, uno stronzo, dopo? Come mettere insieme vizi e virtù di fatto inconciliabili?
Una mosca da bar
Buk il misantropo, Buk l’Outsider, il disimpegnato ostile a ogni verità venuta fuori da secoli di bugie, perché quello che mi importa è grattarmi sotto le ascelle e al limite azzeccare i cavalli vincenti. Buk il Barfly, perso tra birra, fagioli, crackers e sigarette, uno completamente matto che picchia le sue donne, fosse pure la più bella donna della città, e chissenefrega delle loro urla dal balcone, gli vanno dentro da un orecchio e fuori dall’altro, dato che, in fondo, l’amore è un cane venuto dall’inferno. Buk costretto a lavorare al Post Office, pur di coltivare la scrittura, anche se poi, per tenere vivo il personaggio del barbone incorregibile, spara: scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze. Buk che alla fine, dopo tutti gli anni buttati via, vuole giusto fare quattro chiacchiere in pace, magari su Dostoevskij, si accontenta di una notte niente male, sognando un incontro con il maestro (Fante). Soprattutto, niente politica - la politica è come cercare di inculare un gatto - e niente canzoni d’amore: queste cose mica le apprezzano a Hollywood Est: la nuova Parigi.
Riassumere Buk, coglierne l’anima, al di là di questo nostro nostro divertissement che utilizza, in corsivo, i titoli di alcune sue opere, resta un’impresa. Davvero alto il rischio di cadere nell’abisso di erezioni, eiaculazioni, esibizioni che l’hanno reso celebre, di non andare oltre le scopate e le bevute. Per questo va applaudito il giornalista Roberto Alfatti Appetiti, capace, nel libro Tutti dicono che sono un bastardo. Vita di Charles Bukowski (Bietti, pp. 332, euro 19), di mettere in risalto i lati meno noti e scontati di Bukowski (un unico piccolo appunto: il vecchio Hank probabilmente era ancora più politicamente scorretto di come appare qui, contro le donne - anzi i «pezzi di figa» - e i gay e i comunisti e i professori e le minoranze).
Pose naziste
Certo, chi si aspetta sesso e alcool li trova ovviamente in gran quantità (ma non le droghe...), come gli scandali e le provocazioni, dalle pose naziste di gioventù per il gusto di andare controcorrente (ma ancora negli anni Settanta girava con una croce di ferro appesa allo specchietto retrovisore del suo amato maggiolone Volkswagen) ai giudizi tranchant sugli immortali («Ho imparato più dalle donne di strada che mi sono scopato negli alberghi putridi di quanto ho mai imparato da Kant, Faulkner, Tolstoj, Balzac... »; Shakespeare «scriveva roba così terribile da infinocchiare tutta la plebaglia»).
Ma ben più importante è scoprire il lato colto dello scrittore, cresciuto divorando in biblioteca volumi di ogni tipo, da Hemingway a Turgenev, da Nietzsche a Schopenhauer, così coinvolto da fare a botte per il valore della letteratura; e appassionato di musica classica (Beethoven, Brahms, Mahler e Wagner) che ascolta per ore ogni notte, mentre al cinema sopportava appena Kurosawa, in grado di mischiare con nonchalance cultura alta e bassa. Per Donne si ispira al Decamerone di Boccaccio. I suoi miti letterari non sono certo i beat («vedo Ginsberg / passato/ dall’Urlo al / miagolio / di professore a / Brooklyn»; Burroughs «è uno scrittore terribilmente noioso»), solo «giganti della pubblicità», ai quali è stato troppo spesso accostato. Sono piuttosto le «vecchie pellacce», di sicuro non progressiste, Céline («Il più grande scrittore degli ultimi duemila anni»), Pound («Il mio poeta preferito»), Dostoevskij (che gli fa sopporta- re la fabbrica e lo solleva al cielo) e Hamsun, oltre a John Fante, che merita un intero capitolo.
Quella per il grande italoamericano, una sorta di gemello boicottato dai critici di sinistra («I rossi dallo sguardo allucinato»), è una vera e propria folgorazione («Le parole mi saltarono addosso, proprio così») e sarà proprio l’ormai famoso Bukowski, che considera John un Dio e arriva a proclamare di essere Arturo Bandini (praticamente l’Henry Chinaski di Buk), a farlo ripubblicare dalla Black Sparrow Press di John Martin, dando il via alla Fante-Renaissance nel mondo. Una consolazione non da poco per il povero Fante, cieco e consumato dal diabete, che prima di morire - l’8 maggio 1983 - riuscirà a dettare alla moglie Joyce un ultimo romanzo (Sogni di Bunker Hill).
Affinità con Cioran
Tra le pagine migliori di Alfatti Appetiti, che segue il suo eroe dai primi anni rovinati da un padre violento e da una devastante acne vulgaris suprema fino al successo (prima negli ambienti delle riviste underground di Los Angeles e quindi in Europa, mai davvero negli Stati Uniti, dove il personaggio ha la meglio sull’autore) e alla morte per leucemia mieloide, ci sono quelle dedicate al confronto con il tradizionalista conservatore Kerouac e alle sorprendenti affinità con il romeno Cioran (le letture, la misantropia, le cause perse, la speranza in un mondo liberato dal lavoro...), tipo tutt’altro che banale. Alla faccia di chi considera ancora Bukowski uno scrittore pornografico, perché non capisce - poveretto - che «l’unica oscenità è la roba scritta male».